Stato insulare dell’Estremo Oriente. Il nome in lingua locale (Nippon-koku nella forma classica; Nihon-koku nella parlata comune) deriva dalla lettura giapponese del nome cinese del G., Jih Pen Kuo («il paese dell’origine del sole»). Giappone, insieme con le omologhe forme nelle altre lingue occidentali, viene dalla corruzione Zipangu di questo medesimo nome, introdotta in Europa da Marco Polo.
Gli arcipelaghi che formano il G. contano oltre 3000 isole, costituenti due archi con concavità rivolta verso le coste siberiane, coreane e cinesi; archi che si raccordano, a N con le isole russe di Sahalin (giapp. Karafuto) e delle Curili (giapp. Chishima, di cui le quattro più meridionali tuttora rivendicate dal G.), e a S con l’isola di Formosa (Taiwan), per un’estensione di circa 2400 km. Procedendo da N il primo arco, formato dalle principali quattro isole giapponesi (Hokkaido, Honshu, Shikoku e Kyushu), delimita il Mar del G., mentre il secondo, formato dalle Ryukyu, delimita il Mar Cinese Orientale.
L’orografia del G. è irregolare e aspra, modellata da un’intensa e recente attività endogena. I rilievi occupano oltre i 3/4 del territorio e, tranne quelli di origine vulcanica, si presentano scoscesi e disposti in brevi sistemi interrotti da fratture, tra cui la vasta depressione tettonica che taglia la zona centrale di Honshu, dividendo il G. settentrionale da quello meridionale. Al suo bordo si erge il Monte Fuji (comunemente detto Fujiyama, giapp. Fujisan), vulcano attivo che, con i suoi 3776 m, costituisce la massima elevazione del paese. All’estremo opposto della depressione s’innalzano le Alpi Giapponesi (con alcune cime superiori ai 3000 m). Tra le poche pianure alluvionali spicca quella di Tokyo, al centro della regione costiera pacifica di Honshu. Dal punto di vista geologico il G. è un arco magmatico intraoceanico che abbraccia un bacino marginale di retroarco (il Mar del Giappone). Nella parte più interna delle fosse oceaniche antistanti alla sua costa orientale è in corso la subduzione della placca pacifica, con la quale sono connessi la fortissima sismicità e il diffuso vulcanismo (oltre 160 i vulcani attivi) che caratterizzano soprattutto il G. nord-orientale.
I fiumi sono generalmente brevi e a regime torrentizio; dovendo superare numerosi e notevoli dislivelli, si prestano alla produzione di energia idroelettrica, ma non alla navigazione. Lo Shinano e il Tone, che scorrono entrambi nell’isola di Honshu, l’uno verso il Mar del G. e l’altro verso l’Oceano Pacifico, sono, rispettivamente, il fiume più lungo e quello di maggior bacino. Tra gli altri corsi d’acqua spicca l’Ishikari, nell’isola di Hokkaido. I laghi sono numerosi, di varia origine e in genere di modeste dimensioni, tranne il Biwa, a Honshu, di origine tettonica, che supera i 670 km2.
La notevole estensione in latitudine degli arcipelaghi giapponesi (oltre 24°), la presenza dei monsoni, il frazionamento del rilievo e le correnti marine sono tutti fattori di grande varietà delle condizioni climatiche. Il monsone invernale, di provenienza siberiana, investe il G. da ottobre ad aprile apportando perturbazioni sulla costa occidentale, mentre quella orientale è protetta dalle montagne. Da maggio a settembre, invece, spira il monsone estivo da S, apportando piogge nelle regioni meridionali e orientali, abbondanti soprattutto in giugno e luglio. Le precipitazioni risultano dunque nettamente stagionali sulla costa pacifica e più regolarmente distribuite sull’altra. Le temperature medie risentono ancor più dei fattori astronomici e geografici: d’inverno si va dai −5 °C di Hokkaido ai 10 °C di Kyushu; d’estate dai 16 ai 27 °C. Il G. è interessato da cicloni, la maggior parte dei quali proviene dalla zona delle Filippine, con un picco di frequenza in autunno.
Sebbene popolato assai fittamente e da tempi remoti, il territorio giapponese conserva tuttora una larga copertura vegetale, che ne interessa poco meno del 70%. Gran parte di essa, peraltro, è dovuta a interventi antropici. Le limitate estensioni di vegetazione spontanea, comunque, sono di estremo interesse perché caratterizzate da una biodiversità notevolissima, sia per numero di specie sia per numero di endemismi (oltre un terzo delle circa 4500 specie censite). Anche il popolamento faunistico del G. è piuttosto ricco e originale rispetto a quello delle regioni vicine. Le forti differenze climatiche tra le regioni settentrionali e meridionali fanno sì che nel paese convivano specie tipicamente settentrionali e specie di clima subtropicale e tropicale. Le isole giapponesi sono state a lungo collegate con la terraferma, così che alle specie endemiche se ne sono aggiunte altre di più ampia diffusione. Tra gli endemismi vanno ricordati il macaco del G. (Macaca fuscata), il ghiro del G. (Glirurus japonicus), il fagiano ramato (Syrmaticus soemmerringii) e la salamandra gigante del G. (Andrias japonicus), il più grande anfibio vivente, specie di grande importanza biogeografica. Molto diffusi sono il cane procione (Nyctereutes procionoides), presente anche in gran parte dell’Asia continentale settentrionale, e il cervo sika (Cervus nippon nippon), che abita con diverse sottospecie varie aree della Cina e l’isola di Formosa. Tra le specie minacciate di estinzione sono da annoverare il gatto di Iriomote (Mayailurus iriomotensis) e la lontra del G. (Lutra nippon); l’ibis crestato giapponese (Nipponica nippon) è stato dichiarato estinto nel 1997; probabilmente estinto è anche il leone marino giapponese (Zalophus japonicus), un tempo diffuso nei mari settentrionali. Presso le Isole Ryukyu, all’estremità S del paese, sopravvive una piccola popolazione di dugongo (Dugong dugon), mammifero marino dell’ordine dei Sirenii; endemici di queste isole sono il picchio di Pryer (Sapheopipo noguchii) e il ratto spinoso (Tokudaja osimensis); infine, le Ryukyu rappresentano anche l’estremo lembo settentrionale dell’areale della neofocena (Neophocaena phocaenoides), un piccolo cetaceo caratterizzato dall’assenza di pinna dorsale. Nei mari di Honshu e di Hokkaido vive il mesoplodonte di Longman (Indopacetus pacificus), appartenente al gruppo delle cosiddette balene dal becco; sono presenti anche il tricheco (Odobenus rosmarus), proveniente dalle fredde acque artiche, e il callorino dell’Alaska (Callorhinus ursinus), un’otaride affine ai leoni marini. Il 14% del territorio è protetto da parchi e riserve naturali.
Secondo un calcolo effettuato nel 610 d.C., la popolazione dell’arcipelago giapponese ammontava a circa 5 milioni di abitanti, cresciuti, lentamente, fino a 6 milioni nel 12° secolo. Successivamente l’aumento proseguì con ritmo più veloce: già alla metà del 18° sec. si contavano 30 milioni di persone, cifra però rimasta a lungo stabile, soprattutto per le pessime condizioni di vita della popolazione delle campagne, tanto che il primo censimento moderno (1872) rilevò un numero di poco superiore (meno di 35 milioni). Da allora, però, la crescita proseguì decisamente sostenuta: 45 milioni nel 1900; 65 nel 1950, quasi 127 (con densità di circa 336 ab./km2) nel primo decennio del nuovo millennio. La dinamica demografica ha attraversato dal primo Novecento una fase di forte crescita, dovuta alla riduzione della mortalità, cui sono seguite crisi connesse con i flussi migratori (specialmente verso le Americhe) e soprattutto con la Seconda guerra mondiale, e una nuova fase di crescita per il rientro di 6 milioni di persone dai territori esterni perduti e, ancor più, per un’accentuata ripresa della natalità nel dopoguerra. Grazie anche alle politiche di contenimento delle nascite, l’aumento demografico è presto rallentato, fino ai valori di ‘maturità demografica’ (circa 0,2% annuo) dei primi anni Duemila, valori che si accompagnano a un aumento della speranza di vita tra i più alti del mondo (85 per le donne, 78 per gli uomini). La tradizionale scarsa apertura verso l’immigrazione ha contenuto il numero degli stranieri sotto i 2 milioni, nonostante il costante aumento.
La distribuzione della popolazione non è mai stata omogenea, caratterizzata com’è da grandi concentrazioni nelle aree temperate e subtropicali: 450 ab./km2 a Honshu, contro i circa 70 di Hokkaido, colonizzata da meno di un secolo e mezzo, e prima popolata sparsamente solo da poche migliaia di Ainu. Notevoli differenze si riscontrano poi all’interno delle singole isole, con le poche aree pianeggianti (meno del 25% della superficie totale del paese) affollate da oltre i quattro quinti della popolazione, densità molto elevate, altissimo tasso di urbanizzazione, meno del 10% di popolazione rurale e moltissime grandi città, le maggiori delle quali sono: la capitale, Tokyo, al primo posto nel mondo per le dimensioni demografiche della sua smisurata agglomerazione (33,4 milioni di ab. nel 2007, includendovi Yokohama e Kawasaki); Osaka (16,6 milioni nell’agglomerazione, che ha inglobato anche Kobe e Kyoto); Nagoya (8,2). Cuore dell’urbanizzazione giapponese è l’isola di Honshu e in particolare l’asse allungato tra le due massime agglomerazioni, lungo il quale si è venuto individuando un sistema urbano con le caratteristiche proprie di una megalopoli. Peraltro, a partire dall’ultimo decennio del 20° sec. si assiste a un consistente processo di riflusso di popolazione dalle maggiori città e agglomerazioni ad aree circonvicine, esterne alle città-madri ma sempre strettamente interconnesse grazie alla loro rete di infrastrutture.
La religione professata dalla grande maggioranza dei Giapponesi è una forma sincretica di shintoismo e buddhismo.
La repentina crescita che in pochi decenni ha portato il G., primo tra gli Stati non occidentali, al rango di moderna potenza economica mondiale è stata il risultato di varie dinamiche. Il processo fu in parte fortuitamente innescato dalle stesse potenze occidentali con la loro pressione per l’apertura del G. al commercio internazionale, che causò l’esplosione della crisi interna della società feudale giapponese, già da tempo sottoposta a fortissime tensioni. La fase successiva di sviluppo fu guidata dalla politica del governo Meiji, che promosse l’industrializzazione a partire dai settori strategici, ammodernò l’esercito e la marina e soprattutto incoraggiò la classe mercantile-bancaria a impegnarsi nell’industria. Terminato l’espansionismo militare con la disfatta del 1945, che parve a molti dover segnare la fine del G., nel successivo decennio si avviò invece il ‘secondo miracolo giapponese’, e l’economia riuscì non solo a recuperare, ma in meno di vent’anni a divenire la seconda del mondo dopo quella statunitense (o la terza, essendo stata, all’inizio del nuovo millennio, superata da quella cinese se si calcola il prodotto interno lordo a parità di potere d’acquisto). Il tasso di crescita del prodotto interno lordo, dopo punte del 18% annuo, si è poi notevolmente ridimensionato, specialmente dalla fine degli anni 1980 ai primi anni del 21° sec.; poi, dopo una momentanea ripresa, effetto dell’inatteso aumento dei consumi interni a un livello che non era mai stato sperimentato in precedenza, è precipitato in conseguenza delle vicende economiche internazionali, cosicché il G. ha chiuso l’anno fiscale 2008-09 con un PIL in calo del 3,5%.
L’agricoltura interessa ormai solo il 14% del territorio (la già scarsa superficie coltivabile è stata in parte destinata ad altri usi), impiega il 4,6% della forza-lavoro (nonostante la politica di aiuti e i dazi sulle importazioni concorrenti) e contribuisce per appena l’1,5% alla formazione del prodotto interno lordo. Nel 1946 gli occupanti statunitensi imposero una riforma agraria che cancellò le grandi proprietà e favorì la tradizionale tendenza alla frammentazione fondiaria, dovuta alla scarsità di terre coltivabili e all’alta densità demografica che già negli ultimi due secoli avevano portato alla colonizzazione agricola di aree marginali delle due isole maggiori. I governi giapponesi hanno sempre riservato attenzione all’agricoltura, anche con l’istituzione di una banca di assistenza al settore, la fondazione di scuole agrarie, il sostegno alle organizzazioni cooperative, l’erogazione di aiuti finanziari agli agricoltori per scoraggiare l’abbandono delle campagne. Il G. è diviso in due grandi regioni agricole: la prima comprende la parte centro-meridionale dell’isola di Honshu e le isole di Kyushu e Shikoku, ed è caratterizzata dal netto predominio della risicoltura, cui si affiancano, nelle aree centrali di Honshu prossime alla megalopoli, colture più redditizie, essenzialmente ortaggi e alberi da frutta; la seconda è formata dai territori di più recente valorizzazione agricola di Hokkaido e della parte settentrionale di Honshu, dove le condizioni climatiche hanno limitato la coltura del riso e favorito quelle di altri cereali, patate e melo e, specialmente a Hokkaido, l’utilizzazione del suolo per prati e pascoli. Il riso è sempre stato il prodotto principale, per importanza culturale e per diffusione (nei primi anni del 21° sec. occupava oltre il 30% della superficie agraria), tuttavia la sua produzione è in progressivo calo (dai 16,3 milioni di t nel 1978 ai 13,1 del 1990 e ai 10,6 del 2006), nonostante le politiche agricole nazionali abbiano perseguito tenacemente l’obiettivo dell’autosufficienza; più accentuato è stato il declino degli altri cereali, sacrificati alla concorrenza delle importazioni dall’America Settentrionale insieme ad altre colture come quelle della soia e della colza. Risulta al contrario in progresso l’ortofrutticoltura intensiva, concentrata nelle aree periurbane e caratterizzata da investimenti e rese elevatissimi.
L’allevamento, a partire dall’ultimo decennio del Novecento, ha subito una riduzione del numero dei capi, ma è stato contemporaneamente interessato da un aumento di investimenti per migliorarne la qualità; riduzione che riguarda soprattutto i bovini, mentre è modesta la contrazione del numero dei suini e dei volatili. Conserva importanza la sericoltura, per la quale il G. resta uno tra i primi produttori.
L’importanza della pesca ha subito un drastico calo nell’ultimo decennio del 20° sec.: dagli 11,9 milioni di t (12% del totale mondiale) nel 1989 ai 5,3 milioni attuali (4%), cui è seguita però una fase di assestamento che ha di fatto esteso il campo d’azione della flotta peschereccia nipponica a tutti i mari del globo; grande rilevanza, nella composizione del pescato, hanno le Alghe, i Crostacei e i Molluschi, per i quali il G. è preceduto solo dalla Cina. È da ricordare la controversia sulla caccia ai cetacei: bandita a livello internazionale nel 1986 la cattura a fini commerciali per esigenze di conservazione, la flotta baleniera giapponese ha continuato a operare, con finalità dichiarate di ricerca scientifica, e con volumi progressivamente crescenti (da 273 capi nel 1987 a 15.318 nel 2006).
La moderna industria del Giappone, seconda nel mondo per valore di produzione, nasce nell’era Meiji (1868), con una forte connotazione strategica. Il processo fu guidato dallo Stato e finanziato dai prestiti dei ‘principi mercanti’ e dall’imposta fondiaria pagata dalle masse agricole. Le imprese private apparvero in seguito, beneficiando grandemente dell’acquisizione delle nuove industrie create dallo Stato. Le compagnie bancarie e mercantili si riunirono in cartelli (zaibatsu) ottenendo un’enorme influenza sul governo che ha poi caratterizzato la politica giapponese fino alla Seconda guerra mondiale. Gli zaibatsu, disciolti dagli Statunitensi per il loro appoggio all’imperialismo giapponese (1945), sono risorti nella forma dei keiretsuka, concentrandosi nella sola azione economica, ma conservando la stessa struttura di partecipazioni incrociate attorno a un nucleo bancario-assicurativo. L’ossatura economica giapponese conta poi numerosissime piccole e medie imprese, in gran parte dedite alla produzione di semilavorati. Nella sua ripresa postbellica l’economia industriale giapponese ha goduto di indubbi vantaggi: abbondanza di forza-lavoro a basso costo e al tempo stesso preparata; disponibilità di buoni porti; organizzazione razionale delle imprese; tecnologie sempre aggiornate grazie a grandi investimenti nella ricerca e vivacissimi scambi con l’estero. Il G., data la scarsità di materie prime e l’assoluta insufficienza delle fonti energetiche (per le quali dipendeva totalmente dalle importazioni), si è dotato, specialmente dopo la crisi petrolifera del 1973, di una rete di centrali nucleari che risulta la terza del mondo (55 nel 2008, che producono circa il 30% dell’elettricità); resta però il secondo importatore mondiale di petrolio, per la fornitura del quale hanno sempre maggiore importanza la Cina e i paesi dell’Asia orientale.
Tra le manifatture, al primato delle tessili è storicamente seguito quello delle industrie pesanti, che però negli anni a cavallo dei due millenni sembra essere entrato nella fase conclusiva a causa della concorrenza dei paesi asiatici emergenti. La siderurgia, concentrata vicino a diversi dei maggiori porti delle isole di Kyushu, di Hokkaido e soprattutto di Honshu, solo grazie a enormi sforzi ha nuovamente superato la produzione di 100 milioni di t, assicurandosi così il terzo posto mondiale. Anche la metallurgia dell’alluminio e le raffinerie di petrolio si addensano lungo le aree costiere di Honshu per ridurre i costi di trasporto. La petrolchimica giapponese ha a lungo dominato la scena mondiale e conserva importanti posizioni per la produzione di superfosfati, coloranti e gomme. Molto sviluppate sono le fabbriche di cemento e di vetro. La cantieristica, dopo un eccezionale sviluppo, sta cedendo posizioni alla concorrenza cinese e sud-coreana, ma punta su nuove tecnologie per mantenersi vitale. L’industria automobilistica, sviluppandosi sotto la protezione dello Stato tra Tokyo e Hiroshima, nella seconda metà del Novecento ha guadagnato il primato mondiale, così come quella dei motocicli; ma verso la fine del secolo le maggiori case hanno cominciato una politica di rilocalizzazione, trasferendo produzione e assemblaggio all’estero, sia per eludere barriere protezionistiche (Unione Europea, Stati Uniti) sia, più recentemente, per godere di bassi costi del lavoro (Cina, America Latina, Asia sud-orientale). Ancora saldamente del G. resta il primo posto nei settori di punta della meccanica di precisione, dell’elettronica, della microelettronica e dell’informatica, considerati strategici e sui quali si investe massicciamente in attività di ricerca. Netto è il declino del tessile, con la parziale eccezione dei setifici del G. centrale. Conservano la propria importanza le industrie alimentari e della carta, nonché quella, celebre, della porcellana, concentrata a Nagoya.
La morfologia dell’arcipelago giapponese ha opposto gravi difficoltà alla costruzione di un efficace sistema di vie di comunicazione: solo a partire dalla seconda metà del 20° sec., con l’ausilio di innovazioni tecniche e accorgimenti ingegneristici, è stato possibile connettere l’intero paese con un’unica rete. Le ferrovie (20.050 km, di cui 12.217 elettrificati) trasportano solo il 10% delle merci, ma circa il 35% dei passeggeri. Le strade hanno conosciuto un enorme sviluppo (1.193.000 km, di cui 933.000 asfaltati) e sono state affiancate da 6900 km di autostrade. Oltre un terzo del traffico totale insiste sulla porzione di rete tra Tokyo e Kobe, soprattutto a causa degli intensi movimenti pendolari sviluppatisi all’interno del sistema della megalopoli. Nonostante una forte riduzione della flotta mercantile, il G. continua a dipendere da un vivacissimo traffico marittimo internazionale attraverso numerosissimi porti di cui i principali sono Nagoya, Yokohama, Kobe e Chiba. Il G. dispone di molti aeroporti, tra i quali i frequentatissimi scali di Narita e Haneda che servono Tokyo.
La bilancia commerciale è tradizionalmente in forte attivo, con il valore delle importazioni pari all’80% di quello delle esportazioni; il G. è il terzo paese del mondo per esportazioni di beni e il settimo per esportazione di servizi. I manufatti, di cui il 24% ad alta tecnologia, concorrono per il 93% al valore delle esportazioni; materie prime, generi alimentari e combustibili costituiscono il 70% delle importazioni. Dal 2004 la Cina è la prima controparte commerciale del G., ma per quanto riguarda il solo commercio di esportazione tale primato è detenuto dagli Stati Uniti; scambi molto intensi si svolgono con i paesi dell’Asia sud-orientale. Sviluppatissimo è il sistema bancario, con cinque delle prime dieci banche commerciali mondiali. La borsa di Tokyio è tra le primissime a livello globale.
Le prime notizie storiche sul G. si trovano in resoconti cinesi del 1° sec. d.C. I più antichi testi giapponesi pervenutici sono di molto posteriori: il Kojiki («Memorie degli antichi eventi», 712) e il Nihon shoki («Annali del G.», 720). Alla diffusione di una cultura Jōmon (➔) fece seguito, a partire dal 3° sec., una popolazione di origine mongolica nota come Yayoi, in possesso di un’avanzata tecnica di coltivazione irrigua del riso. La società era divisa in tre gruppi. Al vertice erano gli uji, grandi gruppi di famiglie con vincoli di sangue, al cui interno emergeva la figura del patriarca che aveva la funzione di capo (uji no kami) e di sommo sacerdote. I be, lavoratori manuali dediti all’agricoltura, alla produzione artigianale e artistica, erano parzialmente liberi. C’era poi un limitato numero di yatsuko, ovvero di schiavi.
La fondazione dello Stato Yamato, intorno al 3° sec., avvenne attraverso un processo di assorbimento degli uji più deboli da parte di quelli più potenti. Fu organizzata un’assemblea dei capi degli uji, presieduta da un sovrano, e il paese fu suddiviso in province (kuni). La tradizione fissa nel 552 l’introduzione nell’arcipelago del buddhismo, efficace canale di trasmissione della più evoluta cultura cinese: vennero infatti introdotte la scrittura e tecniche agricole e di irrigazione più avanzate. Ebbe così inizio una serie di riforme ispirate alle concezioni etiche e politiche cinesi. Il mutamento, ispirato da Shōtoku Taishi, che tentò di affermare l’autorità del clan Yamato sui capi degli uji, fu graduale e si compì tra l’inizio del 7° sec. e il 702, anno in cui fu promulgato il Codice Taihō. Le nuove norme stabilivano il principio che le risorse dello Stato erano di proprietà dell’imperatore che provvedeva a dividerle fra i sudditi dediti ai lavori manuali secondo un complesso sistema. Al di sopra dei contadini vi era la classe aristocratica costituita dalla famiglia imperiale e dai funzionari, suddivisi in 12 ranghi. In basso, infine, vi erano i sudditi non liberi.
La necessità di governare il paese, di provvedere alle periodiche ridistribuzioni della terra, di imporre corvée e di organizzare il flusso della tassazione in natura verso la località di residenza della nuova aristocrazia favorì la formazione di una struttura amministrativa e contribuì a porre fine all’uso giapponese di abbandonare la capitale dopo la morte del sovrano. Nel 710 capitale divenne Nara, quindi Nagaoka (784-94) e, dal 794, Heian (l’attuale Kyoto). Verso la fine del 19° sec., all’interno della corte la famiglia Fujiwara estese il proprio potere e lo mantenne per circa un secolo. La loro base economica era costituita dagli shōen, una forma di proprietà privata sorta all’interno del sistema sancito dal Codice Taihō. Già nel 743 la concezione del patrimonio imperiale costituito da tutte le aree coltivabili venne infranta con la concessione che le terre bonificate non entrassero nel sistema di ridistribuzione, ma rimanessero di proprietà dei contadini. Furono poi concesse esenzioni fiscali a monasteri buddhisti, santuari shintoisti e famiglie aristocratiche, quindi si vietò ai funzionari imperiali di esercitare ogni intervento amministrativo e giudiziario negli shōen.
L’uso di inviare i figli cadetti dell’aristocrazia negli shōen come amministratori, la loro progressiva acquisizione di margini di autonomia gestionale e la perdita di potere da parte delle istituzioni imperiali favorirono la formazione di una classe di guerrieri (bushi) che si affermò verso la fine del 12° secolo. L’atto finale del passaggio da una società aristocratica a un sistema di tipo feudale è costituito dal Genpei sensō (1180-85), guerra fra i Minamoto e i Taira. La vittoria della coalizione capeggiata da Minamoto Yoritomo diede a questi la possibilità di instaurare la prima egemonia militare a carattere nazionale, lontano da Heian. Egli consolidò i suoi domini a Kamakura, rafforzando la struttura amministrativa della famiglia. Nel 1192 fu nominato dall’imperatore shōgun (generale supremo), venendo così legittimato a dirigere gli affari politici e militari del paese.
La storiografia suddivide l’età feudale del G. in tre fasi. Nella prima (fino al 1333, periodo di Kamakura), s’individua un sostanziale equilibrio fra la corte di Kyoto (come ormai era chiamata Heian) e il potere dell’aristocrazia militare; nella seconda (fino al 1573) la corte imperiale fu privata di gran parte delle proprietà e dei poteri politici; nella terza fase, da un lato le istituzioni persero molte connotazioni tipiche della feudalità, dando vita a una sorta di feudalesimo centralizzato, dall’altro all’interno dell’economia e della società si svilupparono rapporti di tipo pre- o paleocapitalistico. Dopo la morte di Yoritomo (1199) il suocero, Hōjō Tokimasa, svolse la funzione di reggente dello shōgun. La reggenza degli Hōjō durò oltre un secolo, nel corso del quale il governo fu energico e stabile. Dopo aver respinto due tentativi del mongolo Qūbīlāy di invadere il G. (1274 e 1281), soprattutto grazie ai kamikaze, i tifoni che decimarono le flotte nemiche, gli Hōjō dovettero affrontare endemiche tensioni interne che portarono alla loro fine politica (1333).
Nel tormentato periodo che seguì, contrassegnato fino al 1392 dall’esistenza di due corti, quella del Nord e quella del Sud, governate da due imperatori, emerse la figura di Ashikaga Takauji che conservò il titolo di shōgun dal 1338 al 1358 per trasmetterlo poi ai suoi discendenti. Durante lo shogunato degli Ashikaga sorsero i primi centri mercantili e alcune città portuali avviarono rapporti con l’impero cinese, in concorrenza con il contrabbando dei pirati giapponesi (wakō). La floridezza dei commerci fu minacciata dalla guerra dell’era Ōnin (1467-77). I governatori militari, vassalli dello shōgun, si trasformarono in autorità locali, note con il termine di daimyō (feudatario); scomparvero gli shōen e ovunque la proprietà fondiaria assunse la forma di feudo. Negli anni finali degli Ashikaga si affacciarono sulle coste del G. i missionari portoghesi, fra i quali Francesco Saverio e Gaspar Videla e, sulla loro scia, mercanti che introdussero in G. le armi da fuoco. Alle lotte interfeudali endemiche posero termine i tre ‘unificatori’: Oda Nobunaga, Toyotomi Hideyoshi e Tokugawa Ieyasu. Nobunaga eliminò il potere politico buddhista distruggendo i templi del Monte Hiei, intorno a Kyoto e pose fine al bakufu (governo dello shōgun) degli Ashikaga (1573); disarmò i contadini e formò grandi eserciti permanenti di stanza in città fortificate, favorendo l’abbandono delle campagne da parte dei bushi. L’opera fu ripresa e consolidata da Hideyoshi, che impose al paese riunificato una struttura di governo decentrata. Perseguì inoltre l’obiettivo di conquistare la Cina e organizzò due spedizioni, che si interruppero alla sua morte (1598).
Nel 1600 il potere passò nelle mani di Tokugawa Ieyasu. Assunto il titolo di shōgun (1603) e fissata la propria capitale a Edo (od. Tokyo), Ieyasu dette vita al cosiddetto sistema baku-han, in cui si realizzava la coesistenza di un’autorità a carattere nazionale (il bakufu) con autorità territoriali rappresentate dai quasi 300 daimyō, proprietari dei loro han (feudi). Ieyasu fece dell’etica sociale neoconfuciana la base del potere dei Tokugawa, che avrebbero governato l’Impero fino al dicembre 1867. La classe dominante era costituita dai sanke (le «tre famiglie» Tokugawa), dai daimyō e dai samurai. Accanto a essi vi erano l’imperatore e la sua corte di kuge (nobili), senza potere politico effettivo. I contadini costituivano l’asse portante della società mentre i mercanti, secondo la tradizione confuciana, erano appena tollerati. Venivano poi gli hinin (i «non uomini», discriminati socialmente in quanto erano criminali o svolgevano mestieri ‘impuri’). Dal punto di vista istituzionale, lo shōgun non era altri che il daimyō più potente, il cui governo si fondava su una complessa gerarchia di vincoli feudali. I daimyō governavano i feudi con l’ausilio dei loro dipendenti, cioè dei samurai che, nei due secoli e mezzo di egemonia dei Tokugawa, si trasformarono in amministratori. Nei rapporti con l’esterno dal 1641 i Tokugawa misero in atto la politica del sakoku («paese chiuso»). Tutti gli stranieri furono espulsi, tranne gli Olandesi, confinati nell’isolotto artificiale di Deshima nella baia di Nagasaki, e il commercio estero fu limitato a poche navi all’anno. L’economia e le finanze pubbliche si reggevano sulle rendite fondiarie. Nonostante il disprezzo per i mercanti, i guerrieri – ai quali era vietato commerciare – dovettero ricorrere con sempre maggior frequenza ai loro servigi, favorendo così l’arricchimento di alcuni di essi. Nel corso del Settecento lo sviluppo dei commerci sfociò nella formazione di un mercato nazionale con due poli forti: Edo e l’area di Osaka. Fra Sette e Ottocento, lo sviluppo del mercato consentì l’affinamento delle tecniche commerciali e la creazione di corporazioni mercantili. Nel corso del Settecento mutarono anche le condizioni nelle campagne. In alcune aree del paese, l’introduzione di nuove tecnologie favorì l’incremento della produttività e, nel tempo, gli investimenti da parte dei contadini ricchi in attività legate all’agricoltura. In quelle zone venne così a delinearsi una differenziazione tra pochi contadini ricchi, una massa di contadini a reddito medio e pochi contadini poveri. Questi elementi costituirono le precondizioni endogene che favorirono la transizione del G. dal feudalesimo al capitalismo.
Il dissolvimento del regime dei Tokugawa e il passaggio a un’organizzazione economico-sociale borghese furono determinati anche da cause esterne. Dal 1854, il G. fu costretto ad aprirsi al commercio internazionale con l’imposizione di una serie di trattati ineguali con le maggiori potenze occidentali. A tale pressione esterna corrispose all’interno del G. l’ascesa di un partito favorevole ai rapporti con gli Occidentali, che infine prevalse sui fautori dell’isolamento. La coalizione vincente, costituita da samurai di rango medio-superiore e finanziata dai grandi mercanti, nel 1867 sconfisse l’esercito dello shōgun, ne confiscò le proprietà, decretò la fine del bakufu Tokugawa e avviò un processo riformatore in nome dell’imperatore Mutsuhito (noto con il nome della sua era di regno, Meiji, 1868-1912).
L’oligarchia Meiji perseguì l’obiettivo di salvaguardare l’indipendenza del G. con la trasformazione dell’economia e l’istituzione di un esercito moderno, in grado di competere con quelli occidentali. Lo scopo fu raggiunto in un ventennio attraverso cambiamenti introdotti dall’alto che rivoluzionarono l’organizzazione economico-sociale e le istituzioni dello Stato. In campo sociale furono aboliti i privilegi della classe dei guerrieri e le limitazioni alla mobilità sociale. In economia fu stimolato lo sviluppo industriale con finanziamenti ai privati e la creazione di industrie modello; la riforma più incisiva riguardò le campagne, dove la terra fu distribuita in proprietà a chi era in grado di dimostrarne il possesso. Nel settore dell’istruzione, nel corso di un ventennio fu completato l’intero sistema scolastico. Queste trasformazioni suscitarono una serie di reazioni, in genere di segno conservatore. I contadini diedero vita a sollevazioni, ma il rischio maggiore fu costituito dalla rivolta degli ex samurai guidati da Saigō Takamori, che il nuovo esercito di coscritti soffocò nel 1877.
A favore dell’oligarchia Meiji giocò il rapido processo di nazionalizzazione del popolo giapponese, agevolato dal ricorso a stereotipi collettivi: l’identificazione fra nazione e razza, la riproposizione dell’imperatore quale ‘discendente di un’ininterrotta linea divina’, la priorità della difesa del G. per raggiungere pari dignità con le potenze occidentali. La trasformazione economica si completò nel 1881-85, periodo in cui le industrie moderne di proprietà dello Stato furono vendute a prezzi esigui a uomini d’affari. Con questa decisione, il governo pose le basi dello sviluppo degli zaibatsu, concentrazioni di capitale finanziario, industriale e commerciale a controllo familiare che sarebbero diventati i colossi dell’economia giapponese. In campo sociale, alcuni valori dell’etica confuciana (lealtà e obbedienza, pietà filiale, armonia sociale) furono ribaditi dall’Editto imperiale sull’educazione (1890), ma soprattutto con una capillare organizzazione del consenso. Il primo governo su modello occidentale fu varato nel 1881: secondo la Costituzione (1889), ‘donata’ dall’imperatore ai suoi sudditi, il potere supremo spettava al sovrano, la cui persona era «sacra e inviolabile»; i ministri rispondevano della loro azione di governo all’imperatore e non al Parlamento.
Consolidato il sistema capitalistico, fu avviato un processo di espansione. Nel 1894-95 il G. sconfisse la Cina; con il Trattato di Shimonoseki ottenne Formosa, il riconoscimento dei propri interessi in Corea (finora Stato tributario della Cina) e un’indennità di guerra tale da consentirgli nel 1897 di adottare il gold standard. Dopo aver partecipato (1900) alla spedizione in Cina contro i Boxers, nel 1904-05 il G., forte del riconoscimento di potenza venutogli dall’alleanza siglata con la Gran Bretagna (1902), affrontò una guerra vittoriosa con la Russia. Conquistato Port Arthur nella penisola cinese del Liaodong, con il Trattato di Portsmouth ottenne anche la metà meridionale dell’isola di Sahalin. Nel 1910 fu annessa la Corea.
Entrato in guerra nel 1914 a fianco delle potenze dell’Intesa, negli anni del conflitto mondiale il G., grazie alla penetrazione nei mercati asiatici e alle forniture agli alleati, quadruplicò la produzione industriale e le esportazioni e fu in grado di costruire una flotta transoceanica. Alla Conferenza di pace di Versailles però ebbe come unico risultato tangibile il mandato sulle isole ex tedesche del Pacifico; il contenimento dell’espansionismo giapponese posto in atto dalle altre potenze fu confermato nel 1922 alla Conferenza di Washington, quando le potenze occidentali imposero al G. limitazioni al suo tonnellaggio militare. Sul piano interno, lo sviluppo economico aveva avviato profonde trasformazioni nella società. La creazione di nuove industrie favorì l’inurbamento; il minor controllo sui lavoratori, conseguente alle esigenze di incrementare la produzione, consentì la fondazione delle prime organizzazioni politiche e sindacali del proletariato; i ceti medi urbani si volsero a istanze liberali. Fu una breve parentesi: la classe dirigente, preoccupata dell’allentamento dei controlli all’interno e dell’evoluzione della situazione internazionale (rivoluzione sovietica, proteste antigiapponesi e fondazione del partito comunista in Cina), ben presto fece ricorso a misure repressive.
Nel 1925 il Parlamento concesse il suffragio universale maschile, ma nel contempo approvò la Chian ijihō, legge per il mantenimento dell’ordine pubblico che faceva della difesa del kokutai (sistema nazionale), termine vago che si prestava a ogni interpretazione repressiva, il fondamento dell’attività politica. Sulla base della Chian ijihō furono prima perseguiti gli studenti marxisti (1925), poi i militanti e i dirigenti del partito comunista (1928) e infine, negli anni 1930, esponenti liberali del mondo della cultura. Sul trono imperiale, alla morte di Meiji (1912) era succeduto il figlio Yoshihito (era Taishō), surrogato nel 1921 dalla reggenza di Hirohito, imperatore nel 1926. Il regno di Hirohito (era Shōwa) vide l’affermazione di un blocco di potere formato dalla burocrazia civile e militare, dagli zaibatsu e dalla corte imperiale che impose un regime totalitario fino al 1945. Il tennōsei fashizumu (fascismo del sistema imperiale) si caratterizzò rispetto ai casi italiano e tedesco per l’assenza del dittatore, il cui ruolo fu surrogato dal carisma dell’imperatore.
Al consolidamento del regime fece riscontro una più accentuata spinta imperialista. Nel 1931 il G. invase la Manciuria e vi istituì il regime fantoccio del Manchukuo; nel 1937 invase la Cina e nel 1940 occupò il Vietnam meridionale (fig. 2). All’espansione giapponese tentarono di porre un freno gli USA, che proclamarono l’embargo economico a esclusione dei prodotti petroliferi. La risposta di Tokyo, che, uscita dalla Società delle Nazioni nel 1940 aveva firmato il patto tripartito con Italia e Germania, si sostanziò nell’attacco alla base navale di Pearl Harbor senza che fosse notificata a Washington la dichiarazione di guerra (7 dicembre 1941). Dopo gli iniziali successi (occupazione delle Indie Olandesi, delle Filippine e della Birmania), le sorti del conflitto volsero a sfavore del G., che il 15 agosto 1945, dopo la dichiarazione di guerra dell’URSS (8 agosto) e i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki (6 e 9 agosto), accettò la resa incondizionata, firmata il 2 settembre.
Dopo la resa, il G. fu posto sotto l’occupazione degli Stati Uniti attraverso il Comando supremo delle forze alleate, guidato dal generale D. MacArthur, che si avvalse per l’opera di governo e di amministrazione di politici e funzionari civili giapponesi. Una Commissione per l’Estremo Oriente era preposta a vigilare sull’applicazione del programma di demilitarizzazione e democratizzazione del paese, secondo le linee politiche elaborate dal governo statunitense.
Il primo atto di rilievo politico del Comando fu l’emanazione della Carta dei diritti civili, con cui si affermarono per la prima volta in G. i fondamenti della vita democratica. Furono ricostituiti partiti e sindacati, esteso il diritto di voto alle donne, eletta un’assemblea costituente che approvò una Costituzione (in vigore nel 1947) ispirata da Washington; fu tentato, con scarso successo, lo scioglimento degli zaibatsu e avviata l’epurazione degli elementi compromessi con il passato regime, che toccò in massima parte i militari. Hirohito, con la motivazione che il suo ruolo trascendente la politica gli aveva impedito qualsiasi intervento sulle decisioni del blocco di potere, non fu chiamato a rispondere di fronte al Tribunale di Tokyo che processò i criminali di guerra, e mantenne il titolo imperiale fino alla morte (1989), quando gli successe il figlio Akihito (era Heisei). La difesa dell’imperatore e di innumerevoli sostenitori attivi del sistema imperiale prebellico si inseriva nel disegno conservatore di mantenimento del controllo capillare sulla società, non più imposto con la coercizione, ma attuato con il richiamo al ‘benessere comune’.
Gli obiettivi delle forze conservatrici giapponesi, a partire dal 1948, furono assecondati dall’inversione di rotta nella politica di occupazione attuata dagli Stati Uniti, cui concorse la necessità di stabilizzare l’economia giapponese, attenuare la conflittualità sociale e frenare l’ascesa politica dei socialisti. Né minor peso ebbero mutamenti internazionali come la vittoria dei comunisti in Cina: il G. diveniva il principale alleato degli USA nell’area del Pacifico. In questo quadro si collocarono le decisioni in campo economico, dalla riforma agraria, che cancellò la grande proprietà, all’avvio del piano di ricostruzione e alla fissazione del rapporto di cambio del dollaro con lo yen; nella sfera politica, si dispiegò con maggiore determinazione l’intervento del Comando di occupazione in appoggio alle forze conservatrici. Dopo la firma del Trattato di pace di San Francisco (1951), non sottoscritto da URSS, Cina e India, il G. riconquistò la piena indipendenza (1952).
Nel secondo dopoguerra la vita politica fu lungamente dominata, salvo la breve parentesi del governo socialista nel 1947-48, dai liberali e dai democratici, che nel 1955 diedero vita al Partito liberaldemocratico (PLD). La carica di presidente del partito, consentendo l’automatica elezione a primo ministro, divenne il posto chiave per l’esercizio del potere. Il primo ministro liberale S. Yoshida fu il principale artefice della ricostruzione economica fondata sui principi di un rigoroso protezionismo; dal 1956, quando la produzione raggiunse i livelli massimi del periodo prebellico, l’economia mantenne tassi di sviluppo assai elevati, fino a consentire al G. di divenire la seconda potenza economica mondiale.
Dopo il declino politico di Yoshida, al potere fino al 1954, la carica fu ricoperta tra gli altri da N. Kishi (condannato al carcere dal Tribunale di Tokyo per crimini di guerra, ma riabilitato nel 1952) nel 1957-60, E. Sato (1964-72), K. Tanaka (1972-74), Y. Nakasone (1982-87), N. Takeshita (1987-89), T. Kaifu (1989-91), K. Miyazawa (1991-93). Singolare fu la vicenda politica di Tanaka. Costretto a dimettersi (1974) a seguito di uno scandalo, fu rieletto deputato indipendente nel suo collegio elettorale e fino al 1985 mantenne il controllo della sua fazione, determinando alleanze e influenzando l’ascesa politica dei presidenti del partito.
La stabilità della maggioranza liberaldemocratica fu favorita dal sistema elettorale maggioritario e dalla sovrarappresentazione delle campagne (prevalentemente conservatrici) nella distribuzione dei seggi. Il potere esecutivo fu espresso da governi forti, egemonizzati al loro interno da ministeri chiave (Finanze, Industria e Commercio internazionale). L’aumento delle spese militari negli anni 1980, quando, anche in seguito alle pressioni di Washington, si ebbe una crescita del ruolo politico-militare di Tokyo nell’area del Pacifico, provocò una forte indignazione nei confronti del PLD. L’indebolimento del partito minò la stabilità politica che aveva contraddistinto il G. per oltre un quarantennio, in concomitanza con il manifestarsi di difficoltà economiche che mettevano per la prima volta in discussione il modello nipponico di sviluppo. Nel 1993 subentrò al governo una coalizione guidata dal leader del Nuovo partito giapponese (NPG) M. Hosokawa che, osteggiato dalla potente burocrazia per la sua politica volta a limitarne le prerogative, fu costretto alle dimissioni l’anno successivo. Nel 1994 T. Hata, esponente di punta del Partito del rinnovamento, durò appena due mesi; gli successe T. Murayama, leader del Partito socialdemocratico, promotore di una riforma elettorale che introduceva il sistema proporzionale e prevedeva la ridistribuzione dei collegi elettorali per ridimensionare l’incidenza del voto delle aree rurali, tradizionalmente conservatrici; nel 1996, i liberaldemocratici tornarono alla guida del paese con R. Hashimoto, che pose tra gli obiettivi prioritari del suo governo il risanamento finanziario e un maggiore controllo del potere politico sulla burocrazia ministeriale, screditata da una serie di scandali.
Nel 1998 Hashimoto fu sostituito da K. Ōbuchi, il cui governo varò ulteriori riforme finanziarie. Dopo la morte di Ōbuchi (2000), ebbe l’incarico di primo ministro Y. Mori, il cui governo fu travolto l’anno successivo da una serie di scandali finanziari. Il nuovo capo del governo, J. Koizumi, si rivelò un leader di tipo nuovo, in grado di stabilire un rapporto più diretto con i cittadini e indicare obiettivi chiari a una nazione in fase di stagnazione economica. I successi nel promuovere un nuovo periodo di sviluppo, il cui rovescio della medaglia furono i tagli allo Stato sociale, la crescente flessibilità del mercato del lavoro e la crisi dei settori meno produttivi, gli consentirono di vincere le elezioni anticipate del 2003 e del 2005. Dopo il ritiro dalla politica di Koizumi (2006) gli subentrò alla guida del governo e del Partito liberaldemocratico Shinzo Abe, che confermò gli obiettivi di politica economica ed estera del suo predecessore, ma si dimise nel 2007, dopo la sconfitta del partito nelle elezioni legislative. Meno di un anno durò l’esecutivo del suo successore Y. Fukuda, dimissionario nel 2008 a causa dell’aggravarsi della crisi economica. Gli subentrò l'ex ministro degli Esteri T. Aso, ma le elezioni del 2009 decretarono la fine del dominio liberaldemocratico, passato nella Camera bassa da 300 a 119 deputati, e la vittoria del Partito democratico di Y. Hatoyama, che è divenuto primo ministro di un governo di coalizione formato, oltre che dal suo partito, da quello socialdemocratico e dal Nuovo partito popolare. Ad Hatoyama è subentrato nel giugno del 2010 l'ex primo ministro delle Finanze Naoto Kan, che nel settembre del mese successivo ha ottenuto la leadership del Partito democratico risultando vincente sulle numerose correnti interne a tale formazione politica.
Sul piano internazionale, nel 1992 il varo di disposizioni legislative consentì, per la prima volta dal 1945, l'invio di forze giapponesi all'estero per operazioni di mantenimento della pace nell'ambito ONU. Gli anni successivi videro uno sviluppo della presenza del Giappone nei contesti di crisi internazionali: nel settembre 2001, il Giappone si schierò con la coalizione guidata dagli Stati Uniti a sostegno dell'intervento armato contro l'Afghanistan; nella guerra contro l'Iraq fu inviato (2004-06) un contingente con scopi di peace-keeping.
Dagli anni 1990 il Giappone ha intensificato i rapporti con i paesi dell'area asiatica e in particolare con la Cina e la Corea del Sud, con le quali sono stati firmati trattati economici e commerciali. Sono migliorati anche i rapporti con la Russia, e nel 1998 fu stipulato un accordo per incrementare la cooperazione economica e giungere a una soluzione della controversia riguardante alcune isole al confine tra i due Stati. Problematiche rimangono invece le relazioni con la Corea del Nord, a causa della sua sperimentazione di missili e armi nucleari.
Nel marzo 2011 la regione settentrionale del Giappone è stata colpita dal più violento terremoto mai registrato nel paese, cui ha fatto seguito uno tsunami che ha devastato la costa nord-occidentale; il sisma ha inoltre provocato gravi danni alla centrale nucleare di Fukushima. La catastrofe ha eroso la già vacillante credibilità del Partito democratico, compromessa anche dal declino economico del Paese a fronte dell'avanzata della potenza commerciale cinese e dall'inconcludenza dei premier che nell'arco di due anni si sono avvicendati alla sua guida. Nell'agosto dello stesso anno, travolto dalle polemiche sul ritardo e le difficoltà per la ricostruzione dopo lo tsunami, il primo ministro Naoto Kan ha rassegnato le dimissioni e gli è subentrato Yoshihiko Noda, che è riuscito a battere gli altri quattro candidati alla leadership del Partito democratico. Nel novembre 2012, costretto a dimettersi dall'opposizione - il cui appoggio gli era indispensabile per l'approvazione della finanziaria e altri provvedimenti alla camera alta, dove non deteneva la maggioranza - e visti erosi i consensi a vantaggio del Partito liberaldemocratico guidato dall'ex premier Abe, Noda ha sciolto la camera bassa convocando elezioni anticipate. Alle consultazioni, tenutesi nel mese di dicembre, i liberaldemocratici hanno ottenuto 294 dei 480 seggi della Camera bassa, mentre il partito democratico ha subìto una netta sconfitta, conquistandone solo 57 seggi, meno di un quinto rispetto al 2009; dopo aver governato dal 1955 al 2009, con soli undici mesi di interruzione, il Partito liberaldemocratico ha dunque assunto nuovamente il potere e Abe ha ottenuto un secondo mandato dopo quello ricoperto dal 2006 al 2007. La coalizione guidata dal premier si è imposta nel luglio 2013 anche alle consultazioni per il rinnovo della Camera alta, dove ha ottenuto la maggioranza assoluta conquistando 135 su 242 seggi, e alle elezioni anticipate tenutesi nel dicembre 2014 dopo lo scioglimento della Camera bassa deciso dallo stesso Abe il mese precedente a seguito della notizia che il Paese era entrato in recessione, alle quali il Partito liberaldemocratico del premier ha ottenuto in coalizione con il Kōmeitō 325 seggi su 475. Il governo di Abe ha dimostrato un certo grado di iniziativa: la politica economica adottata dall’esecutivo, ribattezzata Abeconomics, si è rivelata relativamente efficace, anche se persistono i problemi tipici dell’economia giapponese, in particolare l’enorme debito pubblico del Paese. Nei tre anni alla guida del governo Abe ha impresso una notevole accelerazione al processo di evoluzione della politica di sicurezza giapponese, promuovendo il concetto di pacifismo attivo, secondo il quale il G. non dovrebbe limitarsi ad astenersi da ogni tipo di ricorso alla forza, ma diventare contributore attivo per la pace e la stabilità. Alle elezioni tenutesi nel luglio 2016 per il rinnovo parziale della Camera Alta il Partito liberaldemocratico del premier ha conquistato la maggioranza assoluta assicurandosi con due partiti minori 77 dei 121 seggi in palio e ottenendo la maggioranza di due terzi necessaria per approvare una nuova costituzione da sottoporre a referendum; tra gli altri punti, la modifica costituzionale offrirebbe alle forze armate nipponiche la legittimazione a compiere azioni militari anche non in presenza di una minaccia diretta contro i propri confini nazionali e in difesa di alleati sotto attacco. Nel settembre 2017, al fine di ottenere un mandato forte e avviare le riforme costituzionali, Abe ha sciolto formalmente la Camera bassa e indetto elezioni anticipate fissate al mese successivo, alle quali ha riportato una netta affermazione, ottenendo una maggioranza di oltre i due terzi, mentre alle consultazioni svoltesi nel luglio 2019 il partito del premier ha ottenuto 71 dei 124 seggi della Camera alta, di poco al di sotto della maggioranza necessaria per le modifiche costituzionali propugnate dall'uomo politico, mentre il Partito costituzionale democratico, principale forza di opposizione, ha ottenuto 53 seggi. Costretto da problemi di salute, nell'agosto 2020 il premier Abe si è dimesso, subentrandogli dal mese successivo Y. Suga, a seguito delle cui dimissioni ha assunto la carica nell'ottobre 2021 l’ex ministro degli Esteri F. Kishida; alle consultazioni svoltesi nello stesso mese per il rinnovo della Camera bassa il partito del neoeletto premier si è aggiudicato la maggioranza assoluta che gli garantisce un’ampia maggioranza a sostegno del suo governo. Nel luglio 2022, in un Paese sconvolto dall'uccisione di Abe durante la campagna elettorale del Partito liberaldemocratico, tale formazione politica ha rinsaldato la sua posizione ottenendo la maggioranza assoluta (76 seggi su 125) alle elezioni per il rinnovo parziale della Camera alta.
Il 1° maggio 2019, a seguito dell'abdicazione dell'imperatore Akihito, gli è succeduto il figlio primogenito Naruhito, la cui intronizzazione ha dato inizio all'èra Reiwa.
Nel giugno 2022 il Paese è stato eletto membro non permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per il biennio 2023-2024.
L’abitazione tradizionale giapponese, a causa dei terremoti, è quasi tutta di legno. Nelle città essa ha di regola due piani, nelle campagne uno. Solo uno o due lati delle pareti esterne sono in muratura, il resto è costituito da verande o da finestre a metà altezza che danno luce agli ambienti. Questi, spesso numerosi, sono separati da pareti mobili (fusuma) che permettono di variarne il numero e l’ampiezza. A eccezione del vestibolo, della cucina e del bagno, le varie stanze non sono destinate a usi particolari e, fatto tipico, sono fornite di scarsissimi mobili, che appaiono solo quando occorrono. All’ora del pasto, si porta a ciascun commensale un cuscino, sul quale s’inginocchia, e un piccolo tavolino, alto circa 20 cm, su cui trova o pone l’occorrente. Finito il pasto, tutto scompare nei todana (ripostigli). Alla sera, da questi si tolgono dei sottili materassi, che servono da letto, e si distendono sul pavimento, sempre coperto da stuoie (tatami). Il guanciale degli uomini è lungo e stretto, quello delle donne è di legno e ha superiormente un’imbottitura su cui poggiano la guancia per non rovinare l’acconciatura. Caratteristico della casa giapponese è il tokonoma, specie di nicchia dal piano rialzato, nella quale si pongono oggetti d’arte. Sul fondo, il tokonoma ha un kakemono, pittura su seta, che si cambia di quando in quando per armonizzare il tutto con la stagione o con momenti particolari della vita familiare. Esso funge anche da sacrario domestico: vi si pongono le tavolette con il nome degli antenati e dinanzi a esso si ricevono gli ospiti. La civiltà europea ha introdotto case e mobilio occidentali, e tutte le città hanno ormai interi quartieri costruiti all’europea.
L’abbigliamento tradizionale consiste per gli uomini in una camicia (juban) di cotone o di seta, su cui, d’inverno, si indossa una sottoveste (dügi), sopra la quale è il vestito vero e proprio (kimono), sostituito, d’inverno, da due abiti imbottiti, tenuti a posto da una cintura (obi). Le donne legano ai fianchi due piccoli grembiali (koshimaki), su cui vestono uno o due kimono, stretti da una striscia di stoffa (shita-jime), e, sopra, dall’obi, larga fascia di seta damascata, tenuta stretta alle reni da una piega (obiage) e sostenuta da un cordone (obidome). L’acconciatura femminile dei capelli è curata e complicatissima e muta con l’età e la condizione. I costumi europei si sono ormai diffusi ovunque e in tutti i ceti dando origine a un ibridismo nippo-europeo.
L’alimentazione è basata sul riso, sostituito alla mensa del povero dall’orzo o da altri cereali di minor prezzo; vengono poi i legumi, il pesce, le uova; la carne, sotto l’influenza del buddhismo e per deficienza dei pascoli, è poco diffusa. Lo shüyu, salsa nazionale preparata con la soia, entra quasi in ogni cibo. Le bevande principali sono il sakè, acquavite ottenuta per fermentazione del riso e bevuta calda prima dei pasti, la birra e il tè verde assunto senza latte né zucchero. I pasti sono di regola tre e la posateria europea va sempre più sostituendosi ai vecchi hashi, corte bacchette manovrate con la mano destra e usate per portare i cibi alla bocca.
L’etica confuciana ha influenzato e influenza ancora oggi la morale familiare. Gli uomini si sposano a 25-27 anni, le donne a 20-22. Il matrimonio è di regola organizzato e condotto dal nakodo (mediatore), persona amica o di fiducia, cui il padre (fino all’ultima guerra capo assoluto della famiglia) assegna l’incarico di trovare una sposa conveniente per il proprio figlio. La cerimonia è semplice e consiste nel passaggio della donna nella casa dello sposo, di cui entra a far parte; abbastanza frequente è però anche il rito religioso celebrato nei templi shintoisti. Alle volte, quando i genitori hanno una figlia unica, è l’uomo che entra nella casa della sposa, di cui in tal caso assume il cognome. L’etica confuciana, imperniata sulla perpetuazione della discendenza familiare affinché sia mantenuto vivo il culto degli antenati, ha dato sviluppi caratteristici all’adozione, divenuta istituzione sociale importantissima. Chi non ha figli ne adotta uno, chi ne ha troppi ne cede uno o due a un amico che non ne ha. Un artista celebre adotta quasi sempre il suo miglior allievo perché il carattere della propria arte possa perpetuarsi. Anche il lutto è fortemente influenzato dalla morale cinese. La sua durata varia da 3 a 50 giorni e comporterebbe anche l’astensione dal lavoro, ma questa, per gli inconvenienti cui darebbe luogo nella pratica, si suol limitare alle occupazioni private. Una vecchia istituzione, che tende a scomparire, è l’inkyo (letteralmente «stare nell’ombra»), per cui, alle soglie della vecchiaia, il padre si ritira con la moglie, cedendo cure, diritti di capofamiglia e tutti i suoi averi o parte di essi al figlio maggiore, per trascorrere in tranquillità il periodo rimanente della vita.
La storia della religione giapponese si articola nei rapporti tra lo shintoismo (➔) e il buddhismo. Questo, giunto in G. nel 6° sec. non nella forma originaria, ma in quella che attraverso un complesso sviluppo storico aveva acquisito in Cina, fu in un primo momento accolto soltanto da ristrette minoranze delle classi più elevate, senza intaccare la sostanziale e radicale aderenza popolare alla religione tradizionale e solo a partire dal 7° sec., e specialmente nei due successivi, la sua penetrazione nel paese cominciò a prendere consistenza, ma a condizione di una profonda shintoizzazione che culminò con la costituzione del sistema shinto-buddhistico nel cosiddetto Ryübu-shintü (inizio del 9° sec.). Durante tutto il Medioevo il sincretismo shinto-buddhista rimase nella sfera della cultura cinese cui il G. era soggetto, fino a quando si ebbero movimenti orientati verso un ritorno al buddhismo originario. Attualmente il buddhismo è la religione predominante. Lo shintoismo, che i Giapponesi non considerano un culto religioso in senso stretto, è praticato dalla grande maggioranza della popolazione, convivendo con la fede buddhista.
Il confucianesimo apparve nel 5° secolo. Nel 17° sec., nella sistemazione razionalistico-formalistica datagli da Zhu-Xi (1130-1200), fu grandemente favorito dai Tokugawa, i quali vi scorsero un prezioso strumento di governo. Oggi è generalmente preferito il confucianesimo soggettivo-intuitivo di Wang Yangming (1472-1528).
Il cristianesimo fu introdotto da s. Francesco Saverio e dai suoi confratelli nel 1549. Sullo scorcio del 16° sec., giunsero nell’arcipelago anche i francescani, i domenicani e gli agostiniani, ma presto (1587) cominciarono le persecuzioni. Nel 1624 il paese fu chiuso agli stranieri, religiosi e laici, e soltanto nel 1889, con l’istituzione della libertà dei culti, i missionari poterono riprendere la loro opera. I protestanti, comparsi in G. dopo il trattato del 1859 con gli Stati Uniti, hanno superato i cattolici in molte iniziative, soprattutto perché hanno presto nazionalizzato le loro chiese, eleggendone a capo degli indigeni. Quanto agli ortodossi, la guerra russo-giapponese ha inferto loro un colpo mortale. I cristiani sono oggi circa l’1% della popolazione.
La lingua nazionale è il giapponese (nihongo), parlato dalla stragrande maggioranza degli abitanti dell’arcipelago; tuttavia coesistono la lingua della minoranza etnica ainu, che viene considerata una lingua isolata, e i cosiddetti dialetti delle isole Ryukyu che, benché relati geneticamente al giapponese, mostrano diversità fonologiche e grammaticali che li rendono inintelligibili ai madrelingua giapponesi. Le relazioni genetiche del giapponese sono oggetto di un dibattito scientifico ancora aperto, ma le teorie più accreditate considerano possibile una doppia relazione: con le lingue altaiche, per le affinità sintattiche, e con quelle maleopolinesiache, per gli aspetti lessicali.
Il sistema fonologico è costituito da cinque fonemi vocalici (/a i u e o/), dodici consonantici (/k g s z t d n h b p m r/), due approssimanti semivocaliche (/j w/), più due fonemi speciali (/N/, uvulare sillabica nasale, e /Q/, che indica geminazione consonantica), per un totale di ventuno fonemi. L’accentazione si basa su un sistema a picchi, che consiste nell’elevare o abbassare la potenza dell’emissione fonica su determinate unità prosodiche che costituiscono la parola (more).
La frase giapponese segue l’ordine Soggetto-Oggetto-Verbo (SOV) e la sua struttura canonica si articola secondo la distribuzione: Soggetto-Avverbio-Oggetto indiretto-Oggetto diretto-Verbo. È permessa una certa libertà in tale distribuzione, ma non per la collocazione del predicato verbale, che deve rimanere in fine di frase. Si tratta di una lingua che si sviluppa a sinistra, nel senso che ciò che qualifica deve precedere sempre il qualificato; perciò l’aggettivo attributivo precede il nome, il genitivo il sostantivo cui si riferisce, la preposizione secondaria quella principale. Non esiste articolo e i sostantivi non sono declinabili, né hanno genere e numero, anche se la pluralizzazione può essere talvolta indicata mediante l’aggiunta di suffissi o con la ripetizione del sostantivo stesso. La funzione grammaticale dei sostantivi viene marcata da posposizioni. La distinzione tra nomi di esseri animati e nomi di oggetti inanimati regola la scelta del verbo di esistenza; i verbi, costituiti da una radice e da una parte flessiva, sono divisi in due gruppi principali: a radice consonantica e a radice vocalica terminante in -i o -e. Gli aggettivi sono, per alcuni aspetti morfosintattici, simili ai verbi e, come questi ultimi, hanno una parte flessiva, che muta indicando il tempo (presente/passato), l’aspetto (dubitativo, avverbiale, condizionale), la forma (affermativa/negativa) ecc.
Il lessico è stato influenzato, almeno dal 3° sec. d.C., dalla lingua cinese; l’arrivo dei Portoghesi alla metà del 16° sec. ha esteso il numero di prestiti così come la presenza in G. degli Olandesi (1639-1853) e, dalla seconda metà del 19° sec., la ripresa delle relazioni con l’Occidente.
Il sistema di scrittura è costituito da logogrammi cinesi (kanji) e da due alfabeti sillabici detti kana (hiragana e katakana). Alcune parole (sostantivi, nomi propri) vengono scritte generalmente in kanji, altre parti del discorso (proposizioni, parole funzionali, verbi ausiliari) solo in kana e altre ancora (aggettivi, verbi) con entrambi i sistemi (la radice della parola viene rappresentata dai caratteri cinesi e la parte flessiva in kana); viene anche utilizzato l’alfabeto latino per termini specifici o per acronimi; sono quindi quattro i sistemi utilizzati nella lingua scritta. La difficoltà della lettura dei logogrammi cinesi, nella lingua giapponese scritta, è costituita dal fatto che ogni segno può essere letto secondo due pronunce: una di origine cinese (on yomi), l’altra giapponese (kun yomi). Generalmente il giapponese si scrive dall’alto in basso e da destra a sinistra, anche se di recente, specialmente in pubblicazioni di tipo scientifico, si procede come per le lingue europee.
Due avvenimenti dominano la letteratura: l’introduzione della civiltà e cultura cinesi, soprattutto dal 5° sec. in poi, e quella della civiltà europea, ufficialmente adottata nel 19° secolo. Si distinguono comunemente 6 periodi.
Verso il 400 d.C., la scrittura cinese fu introdotta nell’arcipelago dalla Corea e coltivata per scopi pratici. Successivamente, con l’introduzione del buddhismo (552) e del confucianesimo, subentrò la consapevolezza che essa era anche un prezioso veicolo di pensiero politico, filosofico e religioso, strumento indispensabile alla classe dominante. I soli documenti giunti a noi di quest’epoca sono alcune poesie di rozza ispirazione contenute nel Kojiki e nel Nihongi, e 27 norito, enfatiche allocuzioni religiose, contenute nell’Engishiki.
Sebbene asservita a quella cinese, la civiltà indigena fu favorita nel suo sviluppo dallo stabilirsi della capitale a Nara. La cultura era, però, monopolio della nobiltà e del clero buddhista, mentre il popolo era mantenuto nell’ignoranza, in cui rimase per molti secoli ancora. Di quest’epoca, oltre a documenti burocratici scritti, come d’uso, in cinese, ci rimangono: due opere storiche, il Kojiki e il Nihongi; i semmyō o miktonori, proclami letti al popolo in varie occasioni e scritti nella lingua ufficiale del tempo: ne abbiamo 62 inseriti nello Shoku Nihongi (seguito al Nihongi), opera storica scritta nel 797; i fudoki, scialbe monografie delle varie province, di cui abbiamo per intero solo quella della prov. di Izumo; gli uji-bumi, genealogie di famiglie nobili, di cui ci è giunta solo quella della famiglia Takahashi. Ma l’epoca di Nara è soprattutto l’età d’oro della poesia, che nel Manyōshū ci ha conservato un monumento unico e insuperato per sincerità d’espressione e freschezza d’ispirazione. Le principali forme poetiche rappresentate nel Manyōshū sono la «poesia lunga» (chōka) che alterna versi di 5 e 7 sillabe, e la «poesia breve» (tanka), forma abbreviata della precedente, composta da soli cinque versi di 5-7-5-7-7 sillabe. Fra i principali autori rappresentati all’interno dall’antologia, si ricorda Kakinomoto no Hitomaro, che compose chōka e tanka sia in veste di poeta ufficiale di corte sia su temi personali (l’amore, il distacco dall’amata, lamento per la morte della moglie), utilizzando una sintassi molto articolata e complessa per arricchire al massimo il tessuto poetico. Accanto a Hitomaro, meritano un cenno Yamabe no Akahito, famoso per le poesie brevi ispirate alla natura e alla bellezza del paesaggio, Yamanoue no Okura, le cui liriche rivelano la profonda influenza del buddhismo e un reale interesse per gli eventi umani quotidiani, e, fra le donne, Nukata no Ōkimi.
Con il trasferimento della capitale a Heian (od. Kyoto) nel 794, inizia l’epoca d’oro della letteratura giapponese classica, nata nell’ambiente aristocratico, elegante e frivolo della corte imperiale, donde la sua ricercatezza formale e il suo delicato estetismo, dominato dall’ideale del mono no aware, la capacità di comprendere e trasmettere il «sentimento che ispirano le cose» con la loro bellezza, seppur transitoria ed effimera. Molti generi letterari (come il monogatari e il diario) e molte istituzioni letterarie (come i concorsi poetici o utaawase) nacquero in questo periodo, ricchissimo di risultati in campo artistico, come del resto in campo politico, sociale e religioso. Il mondo letterario dell’epoca Heian, almeno nella seconda parte, appare dominato dalla presenza della donna che partecipa all’attività creativa e impone i propri ideali e atteggiamenti. Una delle figure più eminenti fu il monaco Kūkai (meglio conosciuto come Kōbō Daishi), autore tra l’altro di un trattato sulla poetica cinese, il Bunkyo hifuron («Lo scrigno segreto dello specchio della poesia», 810-20). Con il 10° sec., l’influenza della cultura cinese si avviò al declino per l’insorgere di una emancipazione nazionale che doveva avere importanti riflessi anche sulla letteratura. La poesia conta diverse raccolte ufficiali, tra le quali la più importante resta il Kokinshū («Raccolta di poesie antiche e moderne», 920 ca.). Il principale compilatore, Ki no Tsurayuki, è anche autore della prefazione in lingua giapponese, che rappresenta non solo il primo, compiuto tentativo di critica poetica, ma il manifesto della lirica intesa come genere normativo.
Nel campo della prosa emerge il monogatari («racconto», «romanzo», «storia»), che nei primi esempi contiene ancora un gran numero di composizioni poetiche. Rappresentativo di questo genere di prosa e poesia è lo Ise monogatari («Racconti di Ise»), forse risalente alla metà del 10° sec., forse più antico, di autore anonimo. All’inizio del secolo risale anche il Taketori monogatari («Storia di un tagliabambù»), che presenta una struttura narrativa più compatta e articolata ed è ritenuto da una lunga tradizione «l’archetipo e l’iniziatore di tutti i monogatari». Lo Utsubo monogatari («Racconto di un albero cavo») e l’Ochikubo monogatari («Storia di Ochikubo»), entrambi di autore sconosciuto, rappresentano un genere di racconto molto più lungo, misto di elementi fantastici e folcloristici, e di descrizioni della vita dell’aristocrazia del tempo. La strada era ormai aperta verso la creazione del Genji monogatari («Storia di Genji»), l’opera più rappresentativa del periodo Heian e, forse, dell’intera storia letteraria giapponese. Scritto dalla dama di corte Murasaki no Shikibu attorno al 1001, composto di 54 capitoli, ha come protagonista Hikaru Genji, il «principe splendente», ideale uomo di corte, raffinato esteta, delicato poeta e sensibile amante; l’opera è popolata da numerosissimi personaggi, tutti con una propria individualità. L’autrice interviene liberamente nel corso della narrazione, passando dal dialogo alla descrizione o alle riflessioni dei protagonisti senza soluzione apparente di continuità, controllando il dispiegarsi della storia attraverso una serie di anticipazioni, riprese e riferimenti.
Anche il genere del diario privato, inaugurato da un uomo, il già citato Ki no Tsurayuki, con il Tosa nikki («Diario di Tosa», 935 ca.), fu presto adottato dalle donne. Ben poco si sa dell’autrice del Kagerō nikki («Diario di un’effimera»), conosciuta solo con l’appellativo di «madre di Fujiwara no Michitsuna». Il diario riguarda il periodo che va dal 954 al 974 e tratta delle vicende private dell’autrice, dei suoi difficili rapporti con il marito incostante e infedele, ma soprattutto del significato della sua esistenza. A S. Izumi, poetessa fra le più sensibili e originali del tempo, è attribuito anche l’Izumi Shikibu nikki («Diario di Izumi Shikibu»), dedicato in massima parte alla storia del suo amore per il principe Atsumichi. Alla penna di Sei Shōnagon, terza delle grandi dame di corte del periodo Heian, è invece dovuto il Makura no sōshi, una raccolta di aforismi, pensieri e riflessioni, preziosa per l’acuta osservazione delle abitudini e delle convenzioni sociali ed estetiche del tempo.
Nel tardo periodo Heian emerge ancora una figura femminile, conosciuta come «la figlia di Sugawara no Takasue» (n. 1008), autrice del Sarashina nikki («Diario di Sarashina»), dove la società, il cui potere politico (se non culturale) cominciava a declinare, è tuttavia ricordata dalla donna, figlia e moglie di governatori di provincia costretti a vivere lontano dalla capitale, con sognante nostalgia. Alla stessa persona è anche attribuita un’opera del tutto diversa, lo Hamamatsu chūnagon monogatari («Storia del Consigliere di Mezzo di Hamamatsu»), scritto verso il 1053-58, dove il tema buddhista della reincarnazione e la dominante presenza dei sogni si mescolano alle numerose avventure del protagonista in G. e in una Cina immaginaria.
Altri monogatari scritti in questo periodo rivelano una sempre maggiore consapevolezza della tradizione letteraria e culturale, una crescente nostalgia verso un’epoca idealizzata che si allontana nel passato, oltre che un’incondizionata ammirazione per il Genji monogatari, di cui si presentano come imitazioni. Un cenno merita lo Tsutsumi chūnagon monogatari («Storie del Consigliere di Mezzo di Tsutsumi», 1055 ca.) di autore anonimo, composto di 10 brevi racconti in cui dominanti sembrano essere l’umorismo, l’ironia e una innegabile unità di scrittura.
La tradizione di raccolte di leggende edificanti ispirate al buddhismo si era stabilita con il Nihon ryōiki («Storie miracolose di bene premiato e di male punito in questa vita in Giappone») del 9° sec., redatto in cinese e primo di una lunga serie di raccolte di storie aneddotiche o setsuwa. È tuttavia con il Konjaku monogatari («Racconti del tempo che fu»), verso la fine dell’11° sec., che i setsuwa, sebbene impregnati di elementi religiosi, cominciano a trattare temi non esclusivamente di carattere edificante. I racconti del Konjaku monogatari (più di 1200) variano moltissimo come qualità, stile e soggetto, trattando vite di santi e racconti di miracoli, ma anche biografie di personaggi famosi, avventure grottesche, racconti fantastici, aneddoti di tipo documentaristico. Monaci e gentiluomini di corte restano i personaggi preferiti, ma fanno la loro comparsa anche guerrieri e gente comune, finora quasi del tutto ignorati all’interno dei monogatari.
Nell’ultima parte del periodo Heian si sviluppa inoltre un altro genere in prosa, costituito dai «racconti storici» (rekishi monogatari), ispirati da una nuova consapevolezza del passato e dal desiderio di conservare il ricordo dello splendore della corte nel momento in cui il suo declino appariva inevitabile. Date e autori sono spesso incerti, ma il nuovo interesse storico diede vita a una serie di opere importanti che avrebbero rappresentato anche un momento di congiunzione fra l’epoca Heian e la successiva epoca Kamakura (1192-1333), con cui si inizia il Medioevo. Lo Eiga monogatari («Storia di splendori») tratta di numerosi personaggi storici, ma è di fatto la celebrazione di Fujiwara no Michinaga (966-1027), attraverso il quale il potere della famiglia Fujiwara e lo splendore della corte Heian raggiunsero il massimo livello. Allo Eiga monogatari fece seguito l’Ōkagami («Il grande specchio», 1119 ca.), che differisce dal precedente sia nella struttura sia nello spirito con cui è trattata la storia dei protagonisti, con un maggior risalto dato al carattere transitorio ed effimero della gloria, della prosperità e del potere politico. Nella stessa linea storica si collocano lo Ima kagami («Lo specchio del presente»), il Mizu kagami («Lo specchio d’acqua»), che fu composto tra la fine dell’epoca Heian e l’inizio dell’epoca Kamakura, e il Masu kagami («Lo specchio immenso») che è sicuramente un prodotto del 14° secolo.
Il periodo è contraddistinto da intermittenti guerre che investirono l’intero paese e segnarono l’ascesa al potere della classe militare e il declino politico della nobiltà di corte; accanto ai generi tradizionali, che mantengono uno stretto legame formale con il passato, si fanno strada elementi originali: lo spirito cavalleresco e l’influsso delle nuove scuole religiose buddhiste, in particolare dello zen (➔) che, introdotto in G. nel 12° sec. e protetto dalla nuova classe al potere, agì in modo determinante sullo sviluppo delle arti e della letteratura.
Nel campo della poesia breve domina la figura di Fujiwara no Shunzei, giudice di gare poetiche e compilatore dell’antologia Sanzaishū («Raccolta di mille anni», 1187), che diede forma ai nuovi ideali poetici dello yūgen («mistero» e «profondità», ottenuti con raffinate tecniche di associazioni e allusioni) e del sabi (la bellezza che si accompagna a immagini di solitudine e malinconia), sostenendo inoltre la necessità di ricorrere, nell’espressione poetica, al linguaggio codificato dalla tradizione ma rinnovato da nuovi sentimenti. Allievo di Shunzei fu il monaco Saigyō, di origine samuraica, uno dei maggiori poeti giapponesi, la cui figura è stata circondata da numerose leggende. La sua opera principale, Sankashū («Raccolta dell’eremo sul monte»), comprende circa 2000 tanka, dedicati in parte al repertorio ormai convenzionale della poesia del suo tempo, ma che raggiungono risultati eccellenti nei temi d’amore e nell’esprimere il sentimento della fugacità delle cose umane. L’epoca di Saigyō, di Shunzei e del figlio di questo, Fujiwara no Teika, a sua volta celebre poeta, coincise con il regno dell’imperatore Gotoba, patrono di molte arti. A lui si deve la compilazione dell’antologia poetica Shin kokinshū («Il nuovo Kokinshū», 1201), affidata a Teika, una raccolta composta di circa 2000 poesie che costituiscono come un’unica sequenza di lirica narrativa.
Fra gli altri poeti dell’epoca si ricorda Kamo no Chōmei, il cui nome è soprattutto legato a un testo in prosa, lo Hōjōki («Ricordi della mia capanna», 1212), un breve, perfetto saggio della sua visione del mondo e della vita umana. A lui è attribuito anche il Mumyōshō («Trattato senza titolo», 1209-10), indispensabile strumento per comprendere i principi poetici del tempo. Il genere, costituito da annotazioni e brevi riflessioni (che già aveva dato pregevoli risultati con Sei Shōnagon e Kamo no Chōmei), trova inoltre una delle sue massime espressioni nello Tsurezuregusa («Ore d’ozio»), scritto intorno al 1333 da Kenkō Hōshi, monaco ed eremita. Costituito da un insieme di considerazioni personali, di citazioni, aneddoti e aforismi religiosi o filosofici, esso rispecchia le concezioni estetiche non solo dell’autore ma della sua intera epoca. La narrativa in prosa comprende anche alcuni diari scritti da dame di corte: il Kenreimon´in ukyō no Daibushū («Raccolta della dama di compagnia di Kenreimon´in», forse del 1157), lo Izayoi nikki («Diario della luna calante», 1282) e ancora il Towazugatari («Racconto non richiesto», 1313) della dama Nijō, che tratta delle sue storie d’amore con vari gentiluomini di corte e quindi, dopo il suo ritiro dal mondo, della sua vita di reclusa interrotta solo da qualche viaggio.
Nel campo dei monogatari, la produzione più originale e vivace del periodo è costituita dai cosiddetti gunki monogatari («racconti guerreschi»), ispirati alle sanguinose guerre civili che devastarono il paese e alle grandi famiglie militari che si contesero il potere politico. Lo Hōgen monogatari («Storia dell’era Hōgen») e lo Heiji monogatari («Storia dell’era Heiji»), di autore ignoto, sono molto simili nel soggetto, nel linguaggio e nella struttura; del più celebre dei racconti di questo genere, lo Heike monogatari («Storia della famiglia Taira»), esistono tre tipi di testi, ognuno in più versioni; quella a cui in genere ci si riferisce è in 12 parti, scritta in un linguaggio misto di parole ed elementi in puro giapponese e altri di derivazione cinese; nella sua versione popolare era declamato da monaci girovaghi e, riprendendo il tema della lotta fra i clan guerrieri dei Taira e dei Minamoto, insiste sulla caducità di ogni trionfo e di ogni grandezza, elemento che costituisce in sostanza la filosofia dell’opera. Lo Heike monogatari esercitò un’influenza grandissima su tutta la letteratura posteriore, a cominciare dai gunki monogatari apparsi durante il 14° sec.: il Taiheiki («Cronaca della grande pace», 1372), che descrive circa 50 anni di guerra civile (1318-67), culminati con l’ascesa al potere della famiglia degli Ashikaga; il Soga monogatari («Storia dei Soga»), dedicato a una delle più celebri vendette della storia giapponese, quella compiuta dai fratelli Soga, che nel 1193 uccisero, dopo 15 anni di attesa, l’assassino del padre; e infine il Gikeiki («Storia di Yoshitsune»), versione romanzata della vita del più celebre eroe dell’epopea medievale, Minamoto no Yoshitsune.
Nel 14° sec. nasce anche il teatro nō (➔), sviluppatosi lentamente da altre forme di spettacolo, molte delle quali comiche o popolari; esso raggiunse la sua forma compiuta, il suo carattere del tutto originale e livelli artistici insuperati grazie soprattutto all’attività di due persone, entrambi uomini di teatro nel senso più completo della parola: Kan´ami e il figlio Zeami. Considerato tra le più originali forme drammatiche, il nō rappresenta una geniale sintesi di tutti i generi letterari dei secoli precedenti, creando altresì nuovi valori estetici. A guidare in parte il linguaggio del nō fu anche un genere poetico che si stava perfezionando più o meno nello stesso periodo, ossia la cosiddetta «poesia a catena» (renga), originata dal tanka classico, nata come passatempo e poi sviluppatasi in forma artistica; era in genere composta da più poeti, che proponevano a turno una parte ‘superiore’ (composta da una successione di 5-7-5 sillabe), e una ‘inferiore’ (7-7 sillabe), concepite in modo che ciascuna di esse formasse un’unità poetica con la precedente. Ben presto codificata da regole precise che ne fissavano lessico, ritmo e contenuti, poteva raggiungere anche un centinaio di versi e annovera fra i suoi maggiori poeti N. Yoshimoto (14° sec.), Sōgi (15°-16° sec.) e J. Satomura (16°-17° sec.), al quale è dovuto uno stile che dava la massima enfasi a una progressione ininterrotta di immagini.
Infine, nel periodo compreso fra gli ultimi decenni del 15° sec. e l’inizio del 17°, fa la sua comparsa e si sviluppa un ultimo genere letterario: una narrativa composita, prolungamento a un tempo dei vecchi monogatari, dei racconti epici e della letteratura aneddotica. I testi, anonimi, che all’inizio circolarono oralmente e trovarono una diffusione a stampa solo nei secoli successivi, sono stati raggruppati sotto la definizione generale di otogizōshi e includono storie d’amore, parabole buddhiste a sfondo didattico, leggende eroiche e di destini meravigliosi, storie di animali. Oltre ad avere, direttamente o meno, influenzato la letteratura successiva e formato un nuovo genere drammatico, il jōruri, essi permettono di cogliere con chiarezza il momento di passaggio tra i monogatari del passato e il nuovo romanzo che si sarebbe sviluppato durante il periodo Tokugawa.
Nel 1603, la creazione di un nuovo governo a Edo (od. Tokyo) per opera di I. Tokugawa portò la pace e l’ordine nel paese che era stato devastato dalla guerra civile. Edo diveniva il centro politico, economico e culturale del G., ma, per un certo periodo ancora, la culla della cultura continuò a essere il kamigata, ossia l’area attorno all’antica capitale Kyoto, anche se la letteratura non era più esclusivo prodotto della nobiltà militare, ma passava nelle mani di scrittori professionisti, samurai senza padrone e membri della nuova, emergente borghesia artigiana e mercantile. La prima metà del 17° sec. appare come un periodo di transizione: i tre generi della poesia, del romanzo e del dramma sono rappresentati al meglio rispettivamente da Bashō, S. Ihara e M. Chikamatsu. Il primo portò alla perfezione il genere poetico dello haikai, che si sarebbe presto sviluppato secondo nuove prospettive. Composto, nella sua forma più essenziale, di sole 17 sillabe (secondo lo schema 5-7-5), lo haikai acquistò con Bashō l’inconfondibile carattere ellittico ed evocativo dato dalla ricchezza delle allusioni, da una tecnica impressionistica e dalla necessità, impressa dall’autore, di dissolvere le emozioni umane nell’essenza impersonale dell’universo e della natura. Ne consegue che condizione dello haikai è la presenza non di una struttura logica ma della capacità di percepire ed esprimere l’oggetto della poesia eliminando ciò che non è essenziale. Bashō è celebre per i suoi «diari lungo la via» (michi no nikki), opere in prosa costellate da haikai, scritte in occasione dei numerosi viaggi che lo portarono a percorrere il paese. Il più famoso resta Oku no hosomichi («La stretta via verso il nord», postumo, 1703), relativo al viaggio compiuto nelle regioni settentrionali del Giappone. Come autore di haikai ottenne inizialmente fama anche S. Ihara, che tuttavia ha legato il suo nome soprattutto al romanzo, creando un genere nuovo, gli ukiyozoshi («racconti del mondo fluttuante»), dedicati alla vita, ai timori, alle aspirazioni e ai fallimenti del ceto mercantile al quale egli stesso apparteneva. Spesso cinico, beffardo e spregiudicato, Ihara riassume nei suoi romanzi l’edonismo, e soprattutto la vitalità prorompente e fisica dei suoi tempi. I suoi racconti più famosi, Kōshoku ichidai otoko («Vita di un libertino», 1682), Kōshoku ichidai onna («Vita di mondana», 1686) e Kōshoku gonin onna («Cinque donne che amavano l’amore», 1686), pur sottolineando la fuggevolezza dei piaceri, si concentrano su passioni quali il sesso e il denaro. Ihara ebbe molti imitatori (fra i più brillanti, K. Ejima), ma nessuno fu in grado di eguagliarlo per l’inventiva, la capacità di cogliere le aspirazioni dei suoi contemporanei, il linguaggio duttile e brillante.
Nel corso del 17° sec. due nuove forme drammatiche popolari si svilupparono in contrapposizione al teatro nō, ormai forma d’arte monopolizzata dalla nobiltà militare al potere: si tratta del jōruri, o teatro dei burattini, e del kabuki, che la tradizione vorrebbe iniziato da una donna, Okuni, ma che presto si trasformò in uno spettacolo interpretato da soli attori uomini anche in vesti femminili. Il jōruri deve il suo straordinario successo soprattutto a M. Chikamatsu, che iniziò probabilmente a scrivere i suoi drammi attorno al 1677 a Kyoto, e quindi dal 1706 a Osaka. Eccelse soprattutto nei cosiddetti sewamono, drammi ispirati a vicende contemporanee e a personaggi tratti dalla vita di ogni giorno, mercanti e prostitute, che acquistano una dimensione tragica nel conflitto fra le passioni e i valori etici imposti dall’ordine sociale, conflitto che spesso li conduce al suicidio. A questo genere appartengono Sonezaki shinjū («Gli amanti suicidi di Sonezaki», 1703), Meido no hikyaku («Il corriere dell’oltretomba», 1711) e Shinjū Ten no Amijima («Gli amanti suicidi di Amijima», 1720); ma Chikamatsu fu anche applaudito autore di drammi storici grandiosi e melodrammatici tra i quali domina Kokusen´ya Kassen («Le battaglie di Coxinga», 1715). Il secolo che seguì la morte di Chikamatsu (1724) è stato definito da molti come il periodo d’oro della letteratura di Edo, città che divenne il centro della produzione attiva. La tradizione dello haikai fu portata avanti da Yosa (o Taniguchi) Buson, da I. Kobayashi e da altri minori. Il periodo fu caratterizzato soprattutto da una grandissima varietà di generi in prosa, prodotti da numerosi autori di notevole mestiere e talento.
Un discorso a parte merita l’intensa attività di studiosi e intellettuali volti a riesaminare e interpretare il patrimonio classico. Definiti kokugakusha («cultori di studi nazionali»), essi annoverano fra i nomi di maggior rilievo Kamo no Mabuchi e Motoori Norinaga. A quest’ultimo si deve il più completo commento filologico del Kojiki di epoca Nara, oltre agli studi sul Genji monogatari, che rivelano un nuovo approccio metodologico. A sua volta filologo e studioso fu A. Ueda, autore anche di due opere di narrativa di singolare interesse: lo Ugetsu monogatari («Racconti di pioggia e di luna», 1769), una raccolta di 9 storie di fantasmi, e lo Harusame monogatari («Racconti della pioggia di primavera», 1808), brevi storie dalla perfetta struttura drammatica, erudite riflessioni filologiche e considerazioni sulla storia del passato. Tra gli scrittori che furono attivi a Edo, G. Hiraga, uomo di mondo, frequentatore dei quartieri di piacere, stravagante scienziato e inventore oltre che uomo di lettere, è autore di un libro ironico e dissacratorio, Fūryū Shidōken den («La bella storia di Shidōken», 1763). Nell’ultimo periodo, si ricorda il nome di S. Tamenaga, rappresentante del genere definito ninjō-bon («storie d’amore»), destinato a esercitare una profonda influenza sulla narrativa del periodo successivo.
Jippensha Ikku e S. Shikitei furono i più applauditi autori di romanzi comico-picareschi, mentre Kyokutei (o Takizawa) Bakin si dedicò per circa 28 anni al suo capolavoro, il Nansō Satomi hakkenden («La storia degli otto eroi della famiglia Satomi», 1814-42), diviso in 98 parti e comprendente circa 400 personaggi. Nel secolo di Edo trionfa anche il teatro kabuki, più drammatico rispetto al jōruri e che, al posto della purezza e della dignità del primo, utilizza al massimo l’energia che si sprigiona dalla personalità degli attori principali. Fra gli scrittori attivi a Edo, ricordiamo G. Namiki e soprattutto N. Tsuruya, le cui opere sono caratterizzate da una spiccata predilezione per le tinte fosche. Orrore e perversione dominano la scena dei suoi drammi più celebri, Tōkaidō Yotsuya kaidan («Storia di spettri a Yotsuya lungo il Tōkaidō», 1825) e Sakura hime Azuma bunshō («La principessa Sakura, documenti dall’est», 1817), marcati da un aperto erotismo. Non molto diverse sotto questo aspetto si presentano le opere di M. Kawatake, animate da una grande capacità di creare personaggi credibili e da un linguaggio di profonda poesia.
Il programma di modernizzazione del G. prese le mosse dalla cosiddetta restaurazione Meiji (1868) e investì tutti i campi portando con sé profonde e radicali trasformazioni, spesso ispirate ai modelli dell’Occidente, gli unici che sembravano in grado di permettere la realizzazione dell’ambizioso progetto di inserirsi a pieno titolo fra le grandi potenze. Anche la vita culturale e la letteratura furono profondamente rinnovate. La poesia e il teatro, in particolare il nō, vantavano una tradizione di prestigio e un’elaborazione teorica ricca e sofisticata, che avrebbero permesso alle vecchie forme di procedere di pari passo con le nuove, in qualche modo ispirate all’Occidente. Per il romanzo, invece, si rendeva necessaria non solo una rivalutazione sul piano artistico, ma anche un’adeguata formulazione teorica. Il programma fu portato avanti da molti intellettuali illuminati che operavano nel campo della critica e della saggistica, oltre che della narrativa. S. Tsubouchi scrisse il saggio Shōsetsu shinzui («L’essenza del romanzo», 1885), in cui rivendicava la natura autonoma del romanzo e la sua necessità di ispirarsi unicamente alla realtà. Il discorso fu tradotto in pratica da S. Futabatei, autore di Ukigumo («Nuvole fluttuanti», 1887-89), ritenuto oggi il primo vero esempio di romanzo moderno giapponese.
Il periodo a cavallo fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento fu caratterizzato dal sorgere di numerose scuole che almeno formalmente si ispiravano a correnti di pensiero occidentali (Realismo, Romanticismo, Naturalismo), ma che avrebbero ben presto impresso ai loro romanzi svolte del tutto originali, attingendo anche al patrimonio tradizionale. Tra i nomi di maggior rilievo si ricordano quelli di Ō. Mori e di S. Natsume, che spaziò dal racconto fantastico al diario al romanzo realistico: le sue opere più note sono rivolte all’esame dei nuovi intellettuali e al loro cammino verso l’affermazione di un individualismo che si traduce in solitudine ed emarginazione. La poesia si espresse soprattutto attraverso A. Yosano, sensibile interprete di un nuovo tipo di tanka, e S. Masaoka, che rinnovò lo haikai, mentre originali forme poetiche erano sperimentate da H. Kitahara e S. Hagwara.
Negli anni 1920 e 1930 emergono nuove avanguardie e si afferma una letteratura matura e capace di offrire modelli e suggerimenti. Nel campo del teatro, K. Ōsanai, fondatore del «piccolo teatro di Tsukiji», resta una figura chiave nella creazione di un teatro giapponese moderno, che conta fra gli autori di rilievo del periodo antecedente la Seconda guerra mondiale S. Kubo, J. Miyoshi, K. Kishida e Y. Mafune. Nella narrativa, J. Tanizaki, R. Akutagawa, Y. Kawabata sono gli esponenti principali del romanzo giapponese del 20° sec., ognuno con una personalità precisa, una grande originalità e ricchezza d’immaginazione. Contemporaneamente, si segnala l’eccezionale fioritura di una letteratura popolare con saldi legami con il giornalismo, il cinema, la radio, il fumetto (ricchissimo quest’ultimo nei suoi sviluppi) e più tardi, nel secondo dopoguerra, con la televisione. Questa letteratura si è presto articolata in diversi generi – dal romanzo giallo a quello di fantascienza, al dramma sentimentale – ma ha trovato i suoi esiti più originali nel romanzo d’avventura d’ambiente storico, dominato dalle grandi battaglie del passato o dalla figura del maestro d’armi che percorre il paese in cerca di duelli. K. Nakazato con Daibosatsu tōge («Il passo del grande bodhisattva», 1913-41) ed E. Yoshikawa con Miyamoto Musashi (1933-39) sono gli indiscussi maestri di questo tipo di racconto.
Nel periodo bellico prevale il genere del diario e delle relazioni di guerra, ma le opere più interessanti nacquero dalla penna di uno scrittore, A. Nakajima, che volutamente rifiutò ogni riferimento diretto alla realtà preferendo opere ambientate in luoghi ed epoche lontane e privilegiando brevi racconti dominati dall’elemento fantastico e magico. Dopo la Seconda guerra mondiale la produzione letteraria ha avuto una straordinaria ripresa. Accanto ai vecchi scrittori, che appaiono nuovamente dopo un periodo di forzato silenzio o di volontario isolamento, si fanno strada altri autori: O. Dazai e A. Sakaguchi, esponenti principali di una generazione ribelle, velleitaria e nichilista fino all’autodistruzione. Poco dopo, Y. Mishima si sarebbe imposto con i suoi romanzi Kamen no kokuhaku («Confessioni di una maschera», 1949) e Kinkakuji («Il tempio del padiglione d’oro», 1957), due opere che riassumono il complesso estetismo dello scrittore, l’identificazione della bellezza con la distruzione e la morte, l’esaltazione dell’atto eroico.
Negli anni 1960, l’interesse del mondo letterario si concentra su due scrittori, K. Abe e K. Ōe, maggiori esponenti di una letteratura impegnata, spesso provocatoria e intellettualistica, che tenta di contrapporre all’immagine del nuovo G., ormai lanciato sulla via della prosperità economica e industriale, l’esistenza di problemi di disadattamento e incomunicabilità. A sua volta l’esperienza ancora recente della guerra e della sua tragica conclusione, il bombardamento atomico, diventa tema di una letteratura che ne analizza il significato e s’interroga sulla possibile distruzione dell’umanità. Il teatro del dopoguerra si evolve attraverso le opere di J. Kinoshita, che propone un genere collegato al folclore e alla cultura regionale; più tardi, gli esperimenti d’avanguardia di S. Terayama, J. Kara e M. Betsuyaku proporranno nuovi indirizzi.
Negli anni 1980, in vistoso contrasto con il progressivo smarrimento di una letteratura ideologicamente orientata, si segnala il trionfo clamoroso di giovani scrittori, i cui bestseller superano senza difficoltà il milione di copie. È il caso di due scrittrici, M. Tawara e B. Yoshimoto (autrice la prima di poesie, la seconda di romanzi) e di uno scrittore, H. Murakami, che hanno suscitato enormi consensi di pubblico (se non di critica) per la freschezza e l’immediatezza del linguaggio, la capacità di utilizzare al meglio un ben controllato sentimentalismo, un discreto edonismo e un’accettazione non troppo problematica dell’attuale società affluente e consumistica.
Nell’ultimo ventennio del 20° sec., il grande sviluppo economico e sociale del G. e la conseguente formazione di una cultura di massa e di un pubblico sulle cui scelte i mass media svolgono un ruolo determinante hanno inciso sensibilmente sulla produzione letteraria in termini sia quantitativi sia qualitativi. L’ondata di fermenti, di entusiasmi e di proposte controcorrente che aveva investito il mondo culturale giapponese a partire dagli anni 1960 trova ancora riscontro nelle opere di alcuni scrittori che condividono una posizione di marginalità e di negazione della cultura ufficiale e dei valori da essa proposti. Tra essi spicca il citato K. Ōe, autore lontano dal grosso pubblico, nonostante il riconoscimento internazionale ottenuto nel 1994 con il Premio Nobel per la letteratura: la ricchezza immaginativa, la polivalenza del linguaggio, il carattere sperimentale connotano il ciclo di 3 romanzi, Sukuinushi ga nagurareru made («Quando il Salvatore sarà percosso», 1993), Yureugoku-Vacillation («Vacillare-Vacillation», 1994) e Ōinaru hi ni («Nel sole immenso», 1995), che hanno in comune il sottotitolo Moeagaru midori no ki («Verde albero in fiamme»), ispirato a W.B. Yeats.
Accanto a Ōe sono da ricordare: il citato K. Abe, che ha affrontato in chiave surrealistica il problema dell’emarginazione e dell’isolamento dell’individuo in una società efficientista e tesa all’esclusivo conseguimento del profitto; M. Inoue, mosso da una costante e rabbiosa volontà di difesa contro ogni forma di sfruttamento e ingiustizia sociale: la sua ultima opera, Jiyū o warera ni («A noi la libertà», 1992), strutturata come un insieme di lettere, poesie, interviste e memorie, è ambientata nel 2001 in un penitenziario situato nell’isola di Seihō, dove sono rinchiusi 400 prigionieri che hanno commesso un delitto in nome di una vera o presunta difesa della propria libertà. Sugli aspetti più scomodi e inquietanti della società giapponese si è soffermato anche il più giovane K. Nakagami, proveniente da Shingū, un villaggio della regione di Wakayama, in cui vivono gruppi socialmente emarginati e conosciuti con il nome di burakunin («gente di villaggio»); sullo sfondo di una natura liricamente evocata, Nakagami ha rappresentato le violente discriminazioni e i delitti di cui l’uomo è capace (da Misaki «Il promontorio», 1975, a Izoku «Razze diverse», postumo, 1993).
Occorre anche ricordare scrittori di più antica generazione che hanno svolto un ruolo di diversa ma non minore importanza. J. Ishikawa ha legato la sua fama al romanzo Kyōfūki («Cronaca di un vento folle», 1971-80), dove una solida visione della realtà contemporanea si mescola alla rievocazione di un passato indefinito e inquietante, in una scelta a favore dell’irrazionale e del fantastico che rappresenta un aspetto tra i più felici della letteratura giapponese contemporanea. M. Ibuse è conosciuto anche fuori del G. soprattutto per il romanzo Kuroi ame (1963; trad. it. La pioggia nera, 1993), dedicato al bombardamento di Hiroshima. Y. Inoue è stato autore di apprezzati racconti che privilegiano spesso la storia del continente, la Cina, l’Impero mongolo; ambientato in G. è invece Honkakubō ibun («Le memorie del monaco Honkaku», 1981), dedicato alla figura del famoso maestro della cerimonia del tè Sen no Rikyū (16° sec.). S. Endō ha affrontato il difficile tema dell’inserimento della religione cattolica in G. e, più in generale, del confronto tra culture profondamente diverse. Un posto a sé meritano infine alcuni scrittori come S. Kuroi e Y. Furui, esponenti di ‘una generazione introversa’, portata a esaminare episodi quotidiani e marginali e a rifiutare ogni ideologia definita.
La letteratura femminile, già illustrata negli anni 1960 dall’inquietante e complessa narrativa di T. Kōno, vanta una personalità di spicco come quella di Y. Kurahashi, che dai racconti d’impronta metafisica scritti negli anni 1960 è passata alle storie raccolte in Otona no tame zankoku dōwa («Fiabe perverse per adulti», 1984) e in Kurahashi Yumiko no kaiki shōhen («Brevi racconti fantastici di K. Y.», 1986), in bilico tra un ricercato intellettualismo e uno humour nero. La produzione delle scrittrici della sua generazione privilegia i temi più specifici della condizione femminile, quali il rapporto di coppia e il legame con la famiglia e con i figli. Oltre a T. Tomioka e A. Hikari, va ricordata Y. Tsushima, che ha conseguito uno dei suoi esiti migliori con Kagayaku mizu no jidai («L’epoca dell’acqua splendente», 1994), 4 storie distinte che ruotano intorno alle esperienze di una donna divorziata, narrate con il linguaggio terso proprio della scrittrice, ricco d’implicazioni simboliche ed elementi onirici. Una segnalazione a parte merita H. Setouchi (nota anche come Setouchi Jakucho) che ha legato il suo nome a una fortunata versione in giapponese moderno (1996) del capolavoro dell’11° sec. Genji monogatari.
Fenomeno dominante degli anni 1990 è la nascita di sempre nuovi bestseller (mirion serā), le cui vendite raggiungono vette ragguardevoli. Il successo più spettacolare riguarda non tanto opere letterarie in senso stretto quanto un genere di saggistica popolare, divulgativa, immediatamente collegata alla cronaca. Si possono citare due titoli significativi: Nihon o dame ni shita kyūnin no seijika («I sette uomini politici che hanno rovinato il Giappone», 1993), opera di un noto personaggio televisivo, K. Hamada, e Nōnai kakumei («La rivoluzione del mondo del cervello», 1995) di S. Haruyama, che ha venduto nel 1996 ben 13 milioni di copie. Anche il romanzo può vantare un notevole riscontro di pubblico, e talvolta di critica. Alcuni scrittori, che già hanno alle spalle una lunga carriera di successi, sono riapparsi con opere di sicuro interesse. S. Maruya, noto per romanzi di critica sociale come Tatta hitori no hanran («La rivoluzione del singolo», 1972), ha tentato in Onnazakari («L’età forte», 1993) un esame della società giapponese contemporanea, filtrato attraverso l’esperienza di un’avvenente giornalista alle prese con le pressioni politiche provocate dalla pubblicazione di alcuni suoi articoli. N. Ikezawa, dopo il successo di Still life (1978), ha pubblicato Mashiasu Giri no shikkyaku («La caduta di Macias Guili», 1993), ambientato nell’immaginaria Repubblica di Navidad nei mari del Sud, dove l’esistenza umana si muove all’unisono con le forze della natura ed è scandita da rituali e cerimonie. Dopo un esordio brillante con racconti vagamente fantascientifici, H. Murakami ha consolidato il proprio successo anche a livello internazionale con romanzi in cui mescola con intelligenza e mestiere avventura e fantasia, cinismo e note sentimentali. Anche R. Murakami, dopo il folgorante successo del romanzo d’esordio Kagirinaku tōmei ni chikai burū (1976; trad. it. Blu quasi trasparente, 1993), si è rivolto a temi d’attualità come quello dell’AIDS (Kyōko, 1995). Ispirato a un fatto di cronaca è Kobe shinsai no nikki («Diario del terremoto di Kobe», 1996) di Y. Tanaka, autrice del provocatorio Nantonaku kurisutaru («In qualche modo cristallo», 1980), romanzo dalla trama quasi inesistente ma corredato da un prodigioso apparato di note (ben 442) dedicato a illustrare negozi, ristoranti, vestiti e in genere tutti i prodotti di consumo.
Uno dei fenomeni più rilevanti degli ultimi anni del secolo è la presenza di scrittrici che raccontano senza pudore la sessualità femminile; tra esse E. Yamada, R. Matsuura, autrice di racconti spregiudicati al limite del grottesco che esplorano la natura di una sessualità primitiva, Yu Miri, di origini coreane, che descrive le contraddizioni della cultura e della società giapponese contemporanea. Ben diversa l’atmosfera lieve che caratterizza le opere della citata Yoshimoto, autrice di romanzi costruiti su storie esili, su immagini lievi e stati d’animo appena tratteggiati, che occupano i primi posti nelle classifiche nazionali e riscuotono un enorme successo anche all’estero, da Kitchin (1988; trad. it. Kitchen, 1991) a Umi no futa (2004; trad. it. Il coperchio del mare, 2007).
Il Paleolitico giapponese ebbe inizio intorno al 50.000 a.C. e terminò verso il 13.000 a.C., con la comparsa della ceramica, che segna la transizione al periodo Jōmon. La tradizione culturale Jōmon giunge fino alla piena affermazione dell’agricoltura, risalente al periodo Yayoi (ca. 300 a.C.-300 d.C.), durante il quale furono gettate le basi della civiltà giapponese. L’adozione della risicoltura fu accompagnata da innovazioni in campo tecnologico: coltelli per la mietitura, zappe, vanghe e forconi, giare d’immagazzinamento, vasi, piatti, fusaiole per la tessitura, armi, specchi e campane di bronzo. Sono documentati, in questo periodo, frequenti contatti con la Cina e la Corea. Nel periodo Kofun (ca. 300-700) le aristocrazie dettero vita a diverse entità regionali protostatali. La fine di tale periodo, caratterizzato dalla realizzazione di grandi tombe a tumulo, fu segnata principalmente dalla diffusione del buddhismo, che prevedeva la cremazione dei corpi. Con la successiva divulgazione della scrittura ebbe inizio il periodo storico, coincidente con l’unificazione territoriale e politica dell’arcipelago.
Inizialmente limitata alla sfera religiosa (templi buddhisti, iscrizioni e stele), l’archeologia storica si è poi estesa anche ad altri settori e periodi. Le indagini hanno stabilito complesse cronologie delle ceramiche dei periodi Asuka, Nara e Heian; sono state inoltre recuperate tavolette di legno scritte (palazzo di Heijo, palazzo di Fujiwara), di particolare importanza per lo studio dei sistemi amministrativi. Sono stati intrapresi anche scavi in città medievali e premoderne, castelli, tombe ecc., ma l’archeologia storica dopo il periodo medievale non è così consolidata quanto quella del periodo storico antico.
La fase di formazione della civiltà in G. copre un lungo periodo, ed è la produzione fittile che contraddistingue le culture neolitiche. La cultura Jōmon, già presente in età paleolitica, si protrae dal 7000 ca. al 300 a.C., ed è caratterizzata dalla creazione di manufatti ceramici e vasellame dalle originali ornamentazioni. I pezzi, d’aspetto grezzo e modellati a mano, presentano un variegato repertorio di decori, realizzati imprimendo con corde o funi l’argilla ancora fresca, che risaltano con forte rilievo su forme semplici, ma robuste. Le modalità di decorazione permangono sostanzialmente costanti con il passare del tempo, tuttavia si possono individuare quattro distinte fasi in cui si riconoscono modifiche nello stile adottato per vasi, recipienti, ornamenti e figurine in pietra o in argilla. Queste ultime, di epoche più tarde e chiamate dogū, raffigurano solitamente immagini femminili, con funzione forse di amuleto; alcune hanno fortemente sottolineati i contorni degli occhi, tanto da venir definite ‘dogū con occhiali’.
Con la cultura Yayoi (ca. 300 a.C.-300 d.C.), riconducibile a una sfera sociale più evoluta, si assiste all’introduzione dei metalli e alla coltivazione del riso, forse per un’influenza continentale. Le tecniche ceramiche si affinano, a discapito dell’esuberanza decorativa e delle qualità figurative. I pezzi, caratterizzati sovente da una tipica dicromia rosso-nerastra, mostrano una ricercata semplicità ed eleganza e si indirizzano verso l’esaltazione delle qualità intrinseche del materiale; lavorati al tornio, hanno pareti sottili e forme accurate. Nella stessa epoca fanno la loro comparsa le dōtaku, sorta di grandi ‘campane’ in bronzo dai particolari motivi decorativi, la cui funzione rimane oscura; forse emblema di potere, in rapporto con la tradizione coreana.
Tra il 4° e la prima metà del 6° sec. d.C. si conclude la fase preistorica e si assiste sempre più chiaramente all’affermazione di modelli autoctoni. L’epoca è contrassegnata dalla realizzazione di imponenti tombe a tumulo (kofun), utilizzate sino agli inizi del 700. Da un’originaria pianta di forma circolare, assumeranno poi un aspetto tipico ‘a toppa di serratura’; paradigmatica la grandiosa tomba dell’imperatore Nintoku a Osaka, risalente al 5° secolo. Dall’esame di alcuni corredi funerari dell’epoca si osserva la presenza di oggetti di provenienza cinese, particolarmente specchi in bronzo, ai quali se ne associano altri giapponesi insieme a varie tipologie di armi e gioielli. In alcune tombe a tumulo sono presenti pitture murali caratterizzate dall’impiego di motivi geometrici o di figurazioni stilizzate in cui risalta l’impiego deciso del nero e del rosso. Sempre in relazione alle pratiche funerarie, risale a questo periodo la produzione di statuine in ceramica, di forma tubolare e cave internamente, dette haniwa; esse assumono nel maggior numero dei casi forme umane con fori per occhi e bocca. La loro esatta funzione non è mai stata chiarita; infitte esternamente al tumulo sepolcrale, non dovettero, però, sostituire la pratica di sacrifici umani, come invece è attestato per la Cina antica. In questo arco di tempo s’impostano le strutture religiose legate allo shintoismo, anche se l’articolazione architettonica degli edifici di culto giunti ai nostri giorni, come i celebri santuari di Izumo e di Ise, si aggira intorno alla seconda metà del 7° secolo. Le caratteristiche tipologiche, inalterate nel corso dei secoli, dei semplici e ‘naturali’ sacrari dello Shintō, dove si manifestano i kami (divinità), mantengono un modello architettonico prebuddhista, con tetti di paglia o di canne, elementi portanti in legno e una piattaforma basamentale rialzata. L’accesso all’area sacra è preceduto da un portale ligneo (torii), di forma architravata, forse di derivazione indiana.
Il periodo compreso tra il 552 circa e il 645, denominato comunemente Asuka, vede la penetrazione della religione buddhista e delle sue espressioni artistiche, secondo modelli figurativi cinesi e, in particolare, coreani. Le strutture lignee che formano il complesso templare dell’Hōryūji presso Nara, fondato nel 607 ca. e completato alla fine del 7° sec., rappresentano la più antica testimonianza architettonica dell’arte buddhista in Giappone. Nei templi, salvo alcune varianti, si ripropone uno schema rigoroso, secondo un asse NS, in cui ricorrono alcuni elementi costanti: il portale meridionale d’accesso (nandaimon), il kondō (la sala d’oro che ospita le immagini devozionali in legno o in bronzo), il kōdō (sala dei sermoni, o delle assemblee), la pagoda (tō), per le reliquie, costruita secondo la trasformazione operata in Cina dell’originario stūpa indiano, quindi la torre della campana (shurō) e, infine, il deposito delle scritture (kyōzō). Il complesso dell’Hōryūji ospita anche opere legate all’evoluzione dell’arte giapponese, ma anche testimonianze dei risultati raggiunti in Cina e Corea; il reliquario Tamamushi («dalle elitre di scarabeo») compendio di architettura, scultura e pittura del 7° sec., mentre le statue di Tori Busshi, autore anche della Triade di Shaka in bronzo, del 623, conservata nel kondō, si ricollegano alla tradizione coreana, pur manifestando tendenze sempre più sensibili al gusto nipponico. Altrettanto importanti sono le statue lignee della Kudara Kannon, sempre nello stesso monastero, e del bodhisattva Miroku, del Chūgūji di Kyoto.
L’arte buddhista raggiunge il culmine tra il 645 e il 794; l’epoca prende il nome dalla città di Heijō (od. Nara), edificata seguendo il modello della Chang’an dei Tang (618-907) in Cina. Il trasferimento della capitale a Heijō avvenne nel 710; la fase compresa tra il 645 e il 710 è anche indicata con il nome Hakuhō, mentre parte di quella successiva fino al 748 è detta anche Tempyō. In architettura si assiste alla costruzione di complessi templari sempre più elaborati, tra cui s’impongono alla metà dell’8° sec. il Tōshōdaiji e il Tōdaiji, con la Sala dal doppio tetto del Grande Buddha (Daibutsu-den), consacrato nel 752. Il rapporto con la tradizione continentale si avverte ancora, ma forme e soluzioni stilistiche si svincolano sempre più dai modelli; nelle arti figurative si perviene a una più consapevole resa naturalistica nel trattamento dell’immagine. Nella produzione scultorea, all’uso del legno e del bronzo si affiancano l’argilla e la lacca secca. In lacca sono capolavori come il Ritratto di Ganjin nel Tōshōdaiji, del tardo 8° sec., testimoniante il crescente interesse per la ritrattistica, e l’Ashura a tre teste e sei braccia del Kōfukuji di Nara, del 734. Nel kondō dell’Hōryūji sono realizzati, tra la fine del 7° sec. e l’inizio dell’8°, dipinti murali, di ascendenza stilistica cinese, di altissima qualità, danneggiati da un incendio nel 1949, mentre nello Yakushiji, sempre a Nara, si conserva il finissimo dipinto dell’8° sec. con la dea Kichijōten. A partire dal 756 sono raccolti, e da allora gelosamente conservati, nello Shōsōin (magazzino dei tesori nel Tōdaiji, gioiello architettonico dalla struttura a incastro) più di 10.000 opere provenienti dai percorsi carovanieri dell’antica Via della Seta, dall’Occidente alla Cina, insieme con contemporanee produzioni giapponesi (maschere, tessili, strumenti musicali).
Il trasferimento nel 794 della capitale a Heian (od. Kyoto) coincide con l’inizio del lungo periodo Heian (tra il 794 e il 1185), divisibile in più fasi. In un primo momento, quando ancora si mantengono stretti rapporti con la Cina dei Tang, almeno fino all’894, si concretizza la diffusione del buddhismo esoterico, con il predominio delle sette mistiche Tendai, Shingon e amidiste, che fondano conventi e monasteri tra i monti. Nella pittura del 9° sec. dominano raffigurazioni simboliche dai complessi significati, dalla struttura compositiva schematica, incentrata sulla rappresentazione del Buddha, nei cosiddetti mandara. Nella statuaria ricorrono immagini imponenti, spesso scolpite su legni ricavati da un unico tronco d’albero. In seguito si osserva un distacco dagli influssi cinesi e le soluzioni estetiche si allineano ai modelli espressi nell’ambito della raffinatissima corte imperiale; le soluzioni architettoniche si conformano allo stile detto shindenzukuri in cui padiglioni e giardini si fondono armoniosamente, come testimoniano esempi della metà dell’11° sec., come il tempio buddhista Byōdōin a Uji, con la famosa Sala della Fenice (Hōōdō); in ambito shintoista si ricorda il Sacrario di Itsukushima a Miyajima. In campo pittorico si sviluppa lo stile propriamente giapponese (yamato-e); lunghi rotoli orizzontali da svolgere da destra verso sinistra (emakimono) raffigurano romanzi famosi (esempio illustre il Genji monogatari, prima metà del 12° sec.), storie edificanti di santi monaci e suggestivi soggetti caricaturali. Nella statuaria s’incontrano scultori dall’identità riconoscibile, come Jōchō, autore verso il 1053 del Buddha ligneo Amida Nyorai nel Byōdōin.
Il periodo Kamakura (1192-1333) deriva il nome dallo spostamento effettivo del potere a Kamakura, sotto la guida dello shōgun, mentre l’imperatore rimane con la sua corte a Kyoto, svolgendo una funzione puramente nominale. Se in pittura prosegue l’arte di corte, nella scultura religiosa s’incontrano, tra il tardo 12° sec. e i primi decenni del 13°, tre grandi figure: Kōkei, Unkei e Kaikei, maestri nella lavorazione del legno, e dalla sensibilità improntata a un potente realismo. L’attenzione al dato reale ricorre anche nei ritratti, sia in sculture, sia in pitture, tra cui spiccano i rotoli verticali (kakemono) dei rappresentanti del clan dei Minamoto. Si perfezionano le tecniche autoctone della lavorazione degli oggetti in lacca, mentre compare sempre più frequentemente l’uso di invetriare i prodotti ceramici, seguendo i modelli cinesi, ma con una predilezione per una resa semplice e disadorna. In ambito buddhista, sempre dalla Cina, perviene la pratica del Chan, diffondendosi rapidamente con il nome di zen e divenendo nella società, nella cultura e nelle arti uno dei principali modelli di riferimento. A Kyoto e a Kamakura sono eretti i primi templi, le cui forme dipendono da modelli Song (960-1279) e il cui ‘stile cinese’, detto karayō, si riconosce nello shariden (sala delle reliquie) dell’Engakuji del 1283. Pur provenendo ugualmente dalla Cina, si utilizza anche uno ‘stile indiano’ (tenjikuyō) documentato nella ricostruzione del Tōdaiji. Un ultimo esempio della vitalità del periodo è il colossale Grande Buddha in bronzo (1252) all’esterno del Kōtokūin a Kamakura.
Il periodo Muromachi (1338-1573), o Ashikaga dal nome del clan dominante, comprensivo del cinquantennio Nanbokuchō (1336-1392), vede la più completa espressione delle componenti estetiche legate allo zen nelle arti visive, nei giardini e negli oggetti correlati alla cerimonia del tè (chanoyu). Minori capacità di rinnovamento si riscontrano nella scultura religiosa, ma al contrario si realizzano splendide maschere destinate al teatro nō per il quale si confezionano anche sontuosi costumi in seta; inoltre le arti applicate, dalla ceramica alla lacca alla bronzistica, eccellono per qualità e finezza decorativa. Nella pittura a inchiostro (sumi-e o suibokuga), che reinterpreta modelli cinesi, s’incontrano i capolavori di monaci-pittori dello zen, o di maestri estranei a questa pratica religiosa ma influenzati dalle sue tecniche e modalità espressive. Nel 15° e 16° sec. s’impongono alcune figure di grande rilievo; nella seconda metà del 15° sec. si formano la Scuola Tosa e la Scuola Kanō. Presso Kyoto l’architettura conta due celebri opere ricollegabili allo zen: il Padiglione d’oro (Kinkakuji, ricostruito dopo un incendio doloso del 1950 ma ideato nel 1397), e il Padiglione d’argento (Ginkakuji) del tardo 15° secolo. Il più illustre esempio nell’arte dei giardini, per risultati simbolici ed espressivi, è il ‘giardino secco, o asciutto’ (karesansui) del tempio Riōanji di Kyoto (1473 ca.).
Nel periodo Momoyama (1573-1615) si configurano nuove tendenze nell’architettura con la creazione di imponenti castelli, spesso destinati a breve vita, seguendo le sorti dei loro fondatori. Veri e propri fortilizi a carattere feudale svolgono funzione di difesa e ostentazione del potere; singolare è la differenziazione tra il fastoso aspetto interno e quello solido e sobrio dell’esterno, che spesso occulta le reali disposizioni interne. Tra i pochi esempi rimasti emerge il Castello di Himeji, del 1609, definito ‘airone bianco’. Ricche sono anche le soluzioni decorative delle pitture per porte scorrevoli (fusuma) e paraventi (byōbu) eseguite dai grandi maestri della Scuola Kanō che riescono, in una profusione d’oro e colori brillanti, a compenetrare la linearità propria del sumi-e con la tradizione dello yamato-e. La produzione ceramica, sempre più legata al chanoyu, perviene a risultati di straordinaria modernità espressiva e figurativa, come attestano i pezzi Raku, Shino, Karatsu e Oribe, mentre tecniche complesse e ornamentazioni elaborate caratterizzano le lacche (particolarmente pregevoli quelle di Kōetsu) e i tessuti. Il contatto con gli Europei, giunti sin dal 1543, porterà, infine, alla creazione di una particolare forma d’arte, detta nanban (dei «barbari del Sud»), dove si assumono aspetti figurativi stranieri, o si utilizzano tecniche eminentemente europee, nella realizzazione di paraventi, nella forma e nel decoro di oggetti, nella foggia di alcune armature.
L’epoca detta Tokugawa, dal nome della casata dominante, è più spesso indicata periodo Edo (1603-1867), dal nome dell’antica Tokyo che diviene il più stimolante polo artistico dell’arcipelago. Malgrado l’isolamento politico e culturale dal resto del mondo, si assiste a una grande fioritura in tutti i campi dell’arte, come tessuti e abiti, lacche, intagli in legno, avorio e osso, quali i rinomati netsuke (piccolo oggetto per trattenere sulla cintura altri oggetti) e okimono (statuine). Si realizzano pregiate lame, armature e accessori, mentre, dopo l’introduzione dalla Corea all’inizio del 1600 delle tecniche per la produzione della porcellana, si moltiplicano le manifatture che producono anche per il mercato dell’esportazione in Europa; ai capolavori Nabeshima e Kutani si affiancano i pezzi Kakiemon, Imari, Satsuma ecc., che documentano tra 17° e 18° sec. un’inesauribile fantasia compositiva, mentre nella produzione della ceramica s’impongono Ninsei e Kenzan.
Due importanti complessi architettonici sono realizzati intorno alla metà del 17° sec.: la Villa imperiale di Katsura, di cui si nota la purezza di linee, il rigore formale e la raffinata semplicità; le tombe degli shōgun Tokugawa a Nikko, dall’elaborata ornamentazione. Due artisti del legno, Enkū e Mokujiki Myōman riportano ad alti livelli la scultura. In pittura continua la produzione dei Kanō presso la corte shogunale, pur con un certo inaridirsi della vena creativa, compensato dalla crescente diffusione della pittura di genere; scuole come la Rinpa, che si riallaccia alle tradizioni antiche, la Nanga, di ispirazione cinese, la Zenga, propria dei pittori zen, raccolgono uno stuolo di maestri di altissimo livello. Fama mondiale è, infine, riconosciuta alle stampe e ai dipinti dell’Ukiyo-e («pittura del mondo fluttuante»).
Nel periodo Meiji (1868-1912), dopo secoli di governo shogunale, l’imperatore riprende il dominio della nazione, improntando il sistema statale e culturale nel segno di una profonda modernizzazione che guarda all’Occidente. Già tra 1700 e 1800 alcuni pittori avevano guardato al realismo occidentale, ma è in questa fase che nasce e giunge a maturità la pittura in stile e con materiali occidentali Yōga. Dopo il 1876, grazie alla chiamata ufficiale di artisti italiani, tra cui emerge A. Fontanesi (a Tokyo nel 1876-78), la pittura presenta un’impronta dettata dalla lezione fontanesiana; successivamente, attraverso la permanenza in Francia di alcuni artisti, si riscontra un profondo influsso legato a tendenze pittoriche francesi. Negli stessi anni V. Ragusa è docente nella Scuola di belle arti di Tokyo. Tra i pionieri spiccano Naganuma Moriyoshi, che studiò a Venezia, e Ogiwada Morie, che si formò a Parigi. In architettura, molti stranieri (americani ed europei) realizzano importanti opere in larga parte perdute; tra il 1875 e il 1898, inoltre, lavora a Tokyo l’incisore E. Chiossone. Nel contempo, però, inizia a manifestarsi una riflessione critica e conoscitiva sul valore della produzione nazionale; l’americano E.F. Fenollosa e Okakura Tenshin rivalutano il patrimonio artistico, le tecniche e le forme espressive proprie della tradizione ed esaltano il valore e l’originalità della pittura in stile giapponese (Nihonga).
Nell’età moderna, compresa tra i periodi di regno Taisho (1912-26), Showa (1926-89) e l’attuale regno Heisei (1989-), le forme espressive dell’arte giapponese partecipano direttamente ai vari movimenti e correnti dell’arte contemporanea, per quanto riguarda sia la produzione Yōga, sia le tendenze Nihonga. Tutte le avanguardie storiche (compreso il futurismo italiano) alimentano il processo creativo degli artisti giapponesi tra le due guerre; molti intraprendono viaggi all’estero, o si trasferiscono in Europa; alcuni aderiscono alla cosiddetta Scuola di Parigi. Alle soglie della Seconda guerra mondiale un esasperato nazionalismo conduce alla repressione di associazioni e gruppi che, peraltro, dopo il conflitto si inseriscono a pieno titolo nel panorama dell’arte contemporanea. Tra i movimenti di respiro internazionale, con mostre, eventi-spettacolo, performance e scritti teorici, vanno ricordati il movimento Gutai («Concreto»), nato nel 1950 e per poco più di un ventennio modello di riferimento sugli esiti dell’informale e della pop-art, e il gruppo Monoha («Scuola delle cose»), che negli anni 1970 ha promosso la ricerca sui materiali dell’opera d’arte e le relazioni tra questa e l’ambiente. Sia in pittura, sia in scultura, ma anche nella grafica e nell’industrial design, gli artisti giapponesi sperimentano nuove forme e nuovi linguaggi. L’identità culturale della tradizione interviene nella formulazione di proposte e ricerche che pure utilizzano, come mezzi e forme espressive, gli strumenti della grafica computerizzata, la videoarte, i sistemi di realtà virtuale e le installazioni.
Fra il 1917 e il 1922 F.L. Wright costruisce a Tokyo l’Albergo Imperiale, primo grande esempio del suo incontro con l’architettura giapponese. Notevole influenza esercita anche la permanenza in G. di A. Raymond (1888-1976), che interpreta le forme dell’architettura giapponese attraverso lo spirito del movimento moderno. Nel periodo fra le due guerre si stabiliscono contatti fra gli architetti giapponesi e i maggiori maestri europei: W. Gropius, L. Mies van der Rohe, B. Taut (che lavora in G. dal 1933) e Le Corbusier. I risultati sono proficui, in quanto sono propri della tradizione architettonica giapponese quegli stessi elementi di razionalità proposti dal razionalismo occidentale. Alla fine della Prima guerra mondiale i giovani, influenzati dall’architettura moderna internazionale, si allontanano dalla tendenza che imita i gusti europei più tradizionali: Shin’ichirō Okada e Riki Sano seguono la corrente razionalista, mentre Kikuji Ishimoto, Sutemi Horiguchi e Mamoru Yamada sono più vicini all’espressionismo. Vanno ricordati, inoltre, Bunzō Yamaguchi, Isoya Yoshida e Tōgo Murano. L’involuzione del regime arresta le tendenze verso il movimento moderno, anche se non mancano tentativi di conciliare l’architettura giapponese con quella occidentale per opera, tra gli altri, di Shin’ichirō Okada e Chūta Itō. A Yoshida Isoya va il merito di aver modernizzato con gusto e intelligenza il tradizionale stile sukiya dell’architettura residenziale.
Nel secondo dopoguerra riprende il dibattito sull’architettura per opera di Tōgo Murano, dello statunitense A. Raymond e di giovani, quali Junzō Sakakura, Kenzō Tange, Kunio Maekawa, Kiyonori Kikutake: l’opera di questi ultimi non si pone come continuità ma come critica rottura con gli stessi ideali del funzionalismo, in una ricerca che s’impone come originalissima e autonoma di fronte all’architettura mondiale. Il nuovo atteggiamento, dagli anni 1950, si coglie non soltanto in singole costruzioni o in complessi di profondo significato spirituale (parco della pace a Hiroshima, stadio olimpico e cattedrale di Tokyo, di Tange; centro civico di Kyoto di Maekawa) ma nell’ardita visione della città nuova, elaborata soprattutto da Tange e dal suo gruppo, cui si deve anche il nuovo municipio di Tokyo. Oltre a esempi di pianificazione urbanistica progressivamente realizzati in G., vanno ricordate le proposte (città marina, città spaziale ecc.) di gruppi d’avanguardia come Metabolism e, nell’ultimo quarto del 20° sec., di Fumihiko Maki, Arata Isozaki, Kazuo Shinohara, Kisho Kurokawa, Tadao Andō, Toyo Itō. Anche in seguito al rallentamento della crescita economica degli anni 1990, in G. si è interrotta la stagione dei grandi concorsi e delle architetture futuribili che facevano perno sulle soluzioni tecnologiche più avanzate e sui materiali più innovativi, così come hanno avuto un freno le iniziative d’avanguardia che avevano richiamato in G. anche i più qualificati architetti occidentali. Accanto alle realizzazioni più vistose di Makoto Sei Watanabe, Shin Takamatsu, Itsuko Hasegawa e Kurokawa, legate a un’architettura enfatica ancora di derivazione tecnologica, si sono via via affermate tendenze originali che hanno recuperato la tradizionale essenzialità del gusto architettonico locale. Ne sono interpreti Teronobu Fujimori (Museo storico Jinchokan Moriya, Nagano, 1991; Museo Akino Fuku, Shizuoka, 1998), Shoei Yoh (Children training house, Kanada, 1994; centro comunitario e asilo nido, Naiju, 1997), Kengo Kuma (centro culturale Hayaa, Kanagawa, 1999), Hiroshi Naitō (Sea-Folk Museum, Shima, 1995). Le stesse architetture di Isozaki hanno risentito di questo cambiamento (Museo d’arte contemporanea, Nagi, 1994; casa da tè, Tokyo, e padiglione per il culto nella prefettura, Toyama, 1996) come anche gli ultimi lavori di Itō, Andō e Maki. Tra gli esponenti della generazione più giovane vanno citati Hiroyuki Wakabayashi, Mika Koizumi, Shigeru Ban, noto per le sue costruzioni d’emergenza in tubi di cartone (chiesa di carta, Kobe, 1995) e lo studio Sanaa di Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa, entrambi un punto di riferimento a livello internazionale della corrente minimalista.
La musica giapponese è il risultato dell’influenza di musiche provenienti da vari paesi asiatici su un materiale autoctono del quale si conservano poche testimonianze; l’apprendimento e la prassi esecutiva, caso quasi unico nella storia della musica colta, sono basati più sulla tradizione orale che sulla lettura dei testi. La musica giapponese può essere divisa in otto generi principali: gagaku (musica di corte); shōmyō (canti buddhisti); musica per biwa (genere narrativo); musica del teatro nō; sōkyoku (musica per koto); musica per shamisen (teatro kabuki e teatro dei burattini bunraku); musica per shakuhachi; musica popolare. La teoria musicale e la notazione si basano su vari sistemi, basati su scale pentatoniche e, talvolta, eptatoniche. Un altro sistema trae origine da quello cinese del 6° sec. a.C., costituito da una scala cromatica non temperata composta da dodici semitoni. L’ultimo, infine, è usato esclusivamente nel teatro nō e si fonda su tre suoni (acuto, medio, grave) posti fra loro a distanza di quarta giusta. Il concetto occidentale di intonazione assoluta, così come quello di tonalità, sono estranei alla prassi giapponese.
Dal punto di vista armonico, si parla abitualmente di multifonia, in cui più strumenti entrano in successione in una sorta di stile imitativo, creando un effetto caotico. Il ritmo è assai vario; sono frequenti l’alternanza di moduli ritmici diversi e la variazione di durata degli accenti in uno stesso modulo; il tempo tende generalmente ad accelerare nel corso dell’esecuzione. La forma varia a seconda dei generi ma è generalmente riconducibile a una struttura tripartita: jo (introduzione), ha (esposizione), e kyū (conclusione); nei brani lunghi, ciascuna sezione può contenere a sua volta due o più sezioni (dan).
Fra gli strumenti del gagaku ricordiamo: lo hichiriki, oboe a nove fori, il ryūteki, flauto traverso a sette fori, lo shō, organo a bocca con diciassette canne di bambù recanti un’ancia, il taiko, tamburo verticale, il kakko, tamburo a clessidra, lo shōko, piccolo gong. Altri strumenti: la biwa, liuto piatto a quattro o cinque corde, e il koto, cetra orizzontale a tredici corde; lo shamisen, banjo a tre corde; lo shakuhachi, flauto dritto. Il timbro, sia vocale sia strumentale, tende a essere fortemente nasale; l’emissione vocale è spesso ingolata.
Con l’avvento del periodo Meiji, il G. ha introdotto dall’Occidente anche la musica, attualmente insegnata nelle scuole ed entrata a far parte del patrimonio culturale. Tra i compositori più eminenti che cercarono di conciliare la tradizione musicale del G. con le correnti occidentali emerge Matsudaira Yoritsune (1907-2001), T. Takemitsu e T. Ichiyanagi (n. 1933). L’apertura della cultura giapponese alle acquisizioni della musica occidentale, avviata negli anni 1960, è maturata nei decenni successivi fino a fare del G. un polo imprescindibile della ricerca musicale della fine del Novecento.