Fenomeno collettivo che ha il suo tratto distintivo nella violenza armata posta in essere fra gruppi organizzati.
Le trasformazioni cui è stata soggetta la g. tradizionale nel 20° sec. vanno portando a un profondo ripensamento di tutte le categorie con le quali tradizionalmente gli studiosi delle varie discipline hanno affrontato i temi della g., delle sue cause, della sua legittimità, del suo contesto, del suo rapporto con la politica e dei possibili modi per costruire la pace attraverso il diritto e le organizzazioni internazionali.
Nel suo significato tradizionale la g. è un conflitto armato tra due o più comunità politiche in vario modo strutturate e sovrane (città-Stato, imperi, Stati) che si svolge secondo una precisa linea di demarcazione tra ‘interno’ ed ‘esterno’. In quanto tale la g. fra Stati si distingue dalla g. civile, che coinvolge gruppi appartenenti a una medesima entità politica, dalla g. coloniale e dalla g. di liberazione nazionale, in cui si confrontano in modo asimmetrico attori politici e militari di natura diversa, e da altre forme di violenza organizzata, come il terrorismo. La g. è uno degli strumenti cui i gruppi umani fanno da sempre ricorso, di regola in ultima istanza, per risolvere le proprie controversie e realizzare i propri fini.
Il tipo classico della g. internazionale ha avuto le sue più significative espressioni nelle innumerevoli g. tra Stati che hanno costellato l’età moderna e contemporanea e sono culminate nei due conflitti mondiali del Novecento. Strettamente legata alla vicenda dello Stato moderno, questa forma di g. ha conosciuto imponenti mutamenti nel corso dei secoli, i quali in ultima analisi hanno trasformato le ‘g. limitate’ dell’età moderna nelle ‘g. assolute’ o ‘totali’ dell’età contemporanea, in cui si è fatto un uso di armi sempre più sofisticate e distruttive, hanno combattuto eserciti di popolo e non più solo o prevalentemente di professionisti, nel quadro di un crescente coinvolgimento dei civili nell’evento bellico; in cui, infine, le logiche tradizionali della politica di potenza si sono sposate con le retoriche di massa della nazione e dello Stato nazionale, del nazionalismo e dell’imperialismo espansionistico e bellicista. Le ‘g. assolute’ hanno avuto il proprio archetipo nelle g. napoleoniche e la loro più compiuta manifestazione nelle due guerre mondiali.
Dopo il secondo conflitto mondiale si è aperta una nuova fase nella storia della g. con l’avvento della contrapposizione tra Stati Uniti e Unione Sovietica e tra i loro rispettivi blocchi. Le prospettive della g. si sono sganciate dall’orizzonte tradizionale dello Stato-nazione per svilupparsi in una dimensione sovranazionale o transnazionale, caratterizzata dal confronto-scontro tra due sistemi di alleanze militari (NATO e Patto di Varsavia) cementati dalle due ideologie del capitalismo liberaldemocratico e del comunismo. Questo confronto-scontro ha dato luogo a un’inedita condizione intermedia tra la pace e la g. definita, in relazione all’età del bipolarismo (1945-91), come g. fredda. A questo esito ha contribuito in modo paradossale l’avvento dell’era nucleare. Con la creazione di giganteschi arsenali di armi atomiche e poi termonucleari in grado di annientare in pochi minuti la gran parte del genere umano, senza distinzione tra vincitori e vinti, USA e URSS hanno infatti finito per rendere impensabile la possibilità stessa di una g. generale e per impostare la propria coesistenza su un ‘equilibrio del terrore’.
Tra il 1989 e il 1991, la caduta dei comunismi e dell’URRS ha suscitato l’illusione che il mondo si stesse avviando verso un’era di progressiva pacificazione e che la g. stesse diventando in qualche modo ‘obsoleta’. La serie pressoché ininterrotta di conflitti che ha segnato gli anni 1990 e i primi del 21° sec., oltre a dimostrare il contrario, ha evidenziato anche che i tradizionali conflitti tra Stati – già in declino nell’epoca bipolare – stanno cedendo il passo a nuove forme di conflittualità che non hanno più il proprio attore essenziale nello Stato, progressivamente eroso nella sua sovranità dai processi di globalizzazione. In un tale contesto si è assistito a forme diffuse di ‘privatizzazione della g.’ e a un proliferare di ‘nuove g.’ che rendono irriconoscibili i confini tradizionali tra g. internazionale, g. civile e altre forme di violenza organizzata e che si alimentano alle retoriche vecchie e nuove del nazionalismo etnico, del fondamentalismo religioso o dello scontro delle civiltà.
Il diritto di ricorrere alla g. ha costituito per secoli una manifestazione della sovranità statale. Le varie teorie sul bellum iustum che si sono succedute nelle diverse epoche storiche non ne mettevano in discussione la legittimità giuridica, ma il carattere ‘giusto’ o ‘ingiusto’, e sono definitivamente tramontate nel 19° secolo con l’affermarsi del positivismo giuridico che, fondandosi sul diritto effettivamente osservato in una società, ha evidenziato che gli Stati consideravano sempre legittimo il ricorso alla guerra.
Tale situazione ha cominciato a modificarsi dopo la g. del 1915-18, quando sono stati adottati i primi trattati internazionali che hanno stabilito limitazioni al ricorso alla g. come mezzo per la composizione dei conflitti e la soluzione delle controversie internazionali (in particolare, il Patto della Società delle Nazioni del 1919 e il Patto Briand-Kellog del 1928). La creazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, nel 1945, ha segnato un punto di svolta al riguardo; nella Carta dell’ONU, infatti, non solo è vietato l’uso unilaterale della forza armata (Uso della forza. Diritto internazionale), e quindi la g., ma anche la semplice minaccia dell’uso della forza (art. 2.4), ad eccezione delle azioni collettive militari intraprese dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Sicurezza collettiva) e dell’esercizio della legittima difesa individuale e collettiva da parte degli Stati (Legittima difesa. Diritto internazionale). Gli Stati sono così privati dello ius ad bellum contemplato dal diritto internazionale classico.
Le disposizioni contenute nella Carta riflettono lo scenario geopolitico della seconda g. mondiale (conflitti inter-statali); ma a partire dalla fine della g. fredda, negli anni 1990 si è assistito ad un’escalation di conflitti interni e g. civili (ex Iugoslavia, Ruanda, Sudan, Somalia).
La g. come crimine internazionale Se prima della Carta l’uso della forza era una delle forme correnti in cui poteva concretarsi l’autotutela e se probabilmente nel 1945 esisteva ancora una divergenza tra il sistema dell’ONU e il diritto internazionale generale, si è poi realizzata invece una perfetta coincidenza fra i due ordinamenti. In tal senso si è espressa la Corte internazionale di giustizia nella sentenza sulle attività militari e paramilitari in Nicaragua e contro il Nicaragua (1986).
Il divieto del ricorso alla g. è stato in seguito affermato in Dichiarazioni di principi adottate dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, quali la Dichiarazione del 1970 sulle relazioni amichevoli e la cooperazione tra gli Stati, la Dichiarazione sulla definizione di aggressione contenuta nella risoluzione 3314 (XXIX) del 1974 e la Dichiarazione delle Nazioni Unite sul rafforzamento dell’efficacia del principio del non ricorso alla minaccia o all’uso della forza nelle relazioni internazionali, annessa alla risoluzione 42/22 del 1987. Oggi la dottrina prevalente riconosce che il divieto del ricorso alla g. nelle relazioni internazionali è contemplato da una norma imperativa del diritto internazionale (Ius cogens. Diritto internazionale) e che, in particolare, l’attacco armato contro l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di uno Stato da parte di un altro Stato (Aggressione. Diritto internazionale) costituisce un crimine contro la pace (Crimini internazionali).
Il diritto applicabile nei conflitti armati Pur vietando il ricorso alla g., il diritto internazionale disciplina le situazioni di conflitto armato, sia internazionale che non internazionale, con un insieme di regole applicabili nei rapporti tra i belligeranti (ius in bello), di origine consuetudinaria e codificate da convenzioni internazionali adottate già alla fine del XIX secolo (Convenzioni dell’Aia) e nel 1949 (Convenzioni di Ginevra, con i protocolli addizionali del 1977) (Diritto umanitario). Ad esse si aggiungono altre convenzioni su aspetti specifici dei conflitti armati, come la Convenzione dell’Aia del 1954 sulla protezione dei beni culturali in tempo di g., la Convenzione di New York del 1981 sulla proibizione delle armi che provocano sofferenze eccessive, con il Protocollo del 1995 sul divieto dell’impiego di armi laser accecanti e il Protocollo del 1996 sul divieto dell’impiego di mine, la Convenzione di Parigi sull’interdizione delle armi chimiche (Armi chimiche e batteriologiche), la Convenzione di Ottawa del 1997 sul divieto di produzione e uso di mine antiuomo.
Lo sviluppo dell’organizzazione bellica presso i popoli di interesse etnologico e l’importanza che tra essi assume la g. dipendono, oltre che da fattori economici, ecologici e demografici, dalla complessità dell’organizzazione sociale e politica, nonché dal tipo di orientamento culturale e dalle stesse loro vicende storiche. Combinandosi in diversa misura, tali fattori possono dar luogo a forme istituzionalizzate di espressione delle tendenze aggressive e a situazioni in cui alcuni gruppi si trovano a vivere in continua ostilità con quelli limitrofi; per es., i Dani dell’Irian Jaya praticavano, fino a tempi recenti, due tipi di g.: una g. rituale incentrata su prove di forza e finalizzata alla solidarietà sociale interna, e una g. sanguinosa vera e propria.
La pressione demografica è all’origine di molti conflitti e un’economia fiorente è la condizione per mantenerli oltre un certo periodo. Per tali motivi, molti conflitti fra gruppi tribali sono contenuti per intensità e per durata e molte comunità di interesse etnologico (per lo più numericamente esigue e gravitanti su vasti territori scarsamente popolati) si sono rivelate poco bellicose, e talune tra esse, per es. i Vedda, ignoravano la g. e furono costretti a farvi ricorso solo in risposta alle violenze dei colonizzatori bianchi. Per la maggior parte di questi popoli la g. non assumeva aspetti eccessivamente sanguinari: pochi morti e feriti bastavano a porre termine alle ostilità, anche se le uccisioni richiamavano spesso la vendetta del sangue versato. Le sorti di un conflitto potevano anche essere risolte, come nell’antichità classica, da un combattimento fra due campioni scelti dalle parti avverse. La tattica più di frequente seguita nella g. era l’agguato e l’aggressione improvvisa. Certi gruppi, invece, facevano precedere le ostilità da una regolare dichiarazione di guerra.
Una maggiore familiarità con la g. e una superiore elaborazione di strumenti e tecniche bellici si accompagnano usualmente a un maggior grado di complessità sociale e culturale, come tra i navigatori e pescatori della Polinesia e, in modo esemplare, tra i popoli di allevatori, che l’elevata mobilità e la costante ricerca di nuovi pascoli spingono a un atteggiamento spesso aggressivo nei confronti dei gruppi confinanti; si pensi, in proposito, ai gruppi pastorali dell’Africa orientale e ai gruppi di lingua nguni dell’Africa meridionale, tra cui gli Zulu, che conquistarono, anche a spese degli Europei, fama di invitti guerrieri. In molti resoconti occidentali, la bellicosità e l’aggressività dei gruppi nativi non è riconducibile tanto alla reale situazione o indole delle popolazioni incontrate, quanto a falsi stereotipi che nutrono i nostri immaginari; allo stesso modo, l’idea che molti dei cosiddetti ‘conflitti etnici’ siano fondati su un odio atavico e ‘primitivo’ tipico dei gruppi tribali non aiuta a comprendere le vere motivazioni economiche e geo-politiche di tali conflitti, molto più moderni di quanto si è portati a pensare.
G. biologica. - Consiste nell’uso a scopo bellico di microrganismi (batteri, virus, rickettsie, funghi, protozoi), tossine (microbiche, animali, vegetali), insetti vettori di agenti patogeni; parassiti che colpiscano specie animali domestiche o colture agricole. La diffusione degli agenti biologici può avvenire per mezzo di artiglierie, missili, velivoli con bombe o spruzzatori. Tra gli agenti biologici che possono essere impiegati per la produzione di questo tipo di armi vi sono anche microrganismi che, come Variola major (vaiolo), Bacillus anthracis (antrace o carbonchio), Yersina pestis (peste) e vari virus, possono essere disseminati agevolmente e trasmessi da persona a persona, causando alta morbilità e mortalità e richiedendo azioni speciali per essere fronteggiati. La pericolosità di questi agenti è incalcolabile: possono provocare la morte o alterazioni funzionali o strutturali tali da indurre invalidità di diverso grado e durata; si disperdono nell’acqua e nel terreno producendo effetti contaminanti di difficile rimozione e attenuazione; esplicano la loro azione sia direttamente sia indirettamente attraverso la contaminazione dell’acqua e degli alimenti. Le armi biologiche, inoltre, sono in grado di provocare, accanto a quelli propriamente fisici, ingenti danni psicologici tali da suscitare destabilizzanti fenomeni di panico collettivo. Se la scoperta e l’identificazione di questi agenti sono particolarmente difficoltose, la loro produzione è relativamente semplice, richiedendo un impegno tecnologico modesto; è inoltre molto difficile controllarne la proliferazione.
G. chimica. - Consiste nell’impiego di sostanze chimiche per ottenere un’azione sul nemico non legata all’effetto delle armi bianche o da fuoco. Gli agenti chimici sono caratterizzati in genere da facilità di produzione, stabilità alla conservazione, attività anche a concentrazioni molto basse, facilità di applicazione, difficoltà a essere rilevati nell’ambiente. Si trovano, nella maggior parte dei casi, allo stato liquido o solido; possono penetrare attraverso la pelle o essere dispersi in forma di aerosol così da agire per inalazione. Dal punto di vista degli effetti fisiopatologici, si distinguono in neurotossici (sarin, soman ecc.), vescicanti (iprite, lewisite, mostarde ecc.), tossici sistemici e del sangue (acido cianidrico, cloruro di cianogeno), soffocanti (fosgene, cloro, bromo ecc.), irritanti (lacrimogeni: cloroacetofenone ecc.; starnutatori: adamsite ecc.; orticanti: ossime), incapacitanti psichici (neurodeprimenti: benzolati; neurostimolanti: LSD). A differenza degli agenti biologici (che spesso danno luogo a effetti ritardati nel tempo), le vittime degli agenti chimici manifestano in genere effetti immediati e, pertanto, è di fondamentale importanza pianificare una risposta rapida all’attacco secondo una corretta articolazione degli interventi: identificazione degli agenti chimici tramite tecniche di rilevamento pronte e sensibili anche a concentrazioni molto basse; valutazione dei rischi connessi con la diffusione degli agenti chimici in base alle condizioni meteorologiche e alla direzione e velocità del vento; evacuazione delle zone a rischio; decontaminazione delle vittime e allestimento della catena di trasporto nei centri di ricovero; decontaminazione dei siti colpiti (tramite lavaggio con detergenti o trattamenti termici). Le moderne tecnologie non solo hanno aumentato la potenza delle armi chimiche, ma ne hanno reso anche più facili la conservazione e il maneggio, come nel caso degli aggressivi chimici binari, che diventano pericolosi solo al momento della miscelatura dei componenti.