tattica Branca dell’arte e della tecnica militare che indica i principi e studia le modalità per schierare le truppe e farle manovrare sul campo di battaglia allo scopo di sopraffare il nemico. Non è una parte della strategia ma si sviluppa da essa, quando i due eserciti contrapposti vengono a contatto dando luogo alla battaglia. La t. si applica a tutte le forme di lotta, terrestre, navale e aerea, con formulazioni del tutto particolari in relazione alle caratteristiche del combattimento.
La t. militare ha subito e subisce continue evoluzioni nel tempo in conseguenza del mutare dei mezzi di combattimento e anche della mentalità e attitudine fisica dei combattenti. Sono riconoscibili tuttavia alcuni principi rimasti immutati nel tempo: a) la concentrazione dei mezzi e degli sforzi nel punto e nel momento critico; b) il movimento o manovra, che deve essere rapido e agile per realizzare la concentrazione; c) la sorpresa, ossia il vantaggio che si ottiene piombando sul nemico nel momento e nel punto più inaspettato; d) lo sfruttamento del terreno e degli appigli che esso offre, in particolare per la difesa.
Quanto alle fasi tattiche, esse si possono ricondurre essenzialmente alla preparazione della battaglia, per predisporre uomini e mezzi nello schieramento più opportuno e allo scontro diretto, nel corso del quale si portano, con la manovra, le forze concentrate a esercitare nel punto critico lo sforzo principale. Fin dai tempi più lontani è stata inoltre riconosciuta l’importanza di poter colpire il nemico a distanza, prima ancora, cioè, dello scontro ravvicinato, mediante armi da getto. La manovra vera e propria ha di massima utilizzato sempre due diversi procedimenti tattici: t. di sfondamento, tendente a rompere il fronte dello schieramento avversario; t. di aggiramento, tendente ad avvolgere il nemico sui fianchi per attaccarlo a tergo. In genere le due t. si sviluppano successivamente con lo sfruttamento del successo da parte del vincitore e con il ripiegamento da parte del vinto. Grande importanza inoltre, nelle procedure tattiche, hanno sempre avuto le modalità e i mezzi atti a dar corso e controllare lo svolgimento della manovra, attraverso la trasmissione degli ordini da parte del comandante e lo scambio di informazioni da parte degli esecutori, in modo che il comandante stesso riesca ad avere una situazione per quanto possibile chiara dell’andamento delle operazioni sul campo. Le diverse modalità tattiche di schieramento e di manovra hanno, infine, incidenza notevole sulla composizione stessa degli eserciti e la loro articolazione in unità combattenti di vario tipo.
Antichità. Non si conosce molto sulle procedure tattiche più antiche degli Egizi, dei Sumeri e degli Assiri: poiché i loro eserciti comprendevano fanterie, arcieri, lancieri, frombolieri, cavalleria e carri, le t. impiegate dovevano essere complesse e notevolmente evolute. Più nota è la falange oplitica, composta da guerrieri con armatura pesante (opliti) e largamente affermata in Grecia nella prima metà del 7° sec. a.C. I fanti erano disposti in schiere compatte al riparo della muraglia dei loro scudi e della selva di punte delle loro aste. Qualche progresso fu conseguito da Epaminonda, che incominciò a valersi della cavalleria in organico collegamento con la fanteria. I Macedoni, con Filippo e Alessandro, conservarono la falange; inoltre si servirono di norma della cavalleria nell’azione tattica conclusiva, spingendo all’estremo l’inseguimento e la distruzione del nemico.
I Romani svilupparono e perfezionarono t. similari, basate inizialmente su formazioni manipolari (➔ manipolo) appoggiate sui fianchi dalla cavalleria. Successivamente, l’ordinamento tattico si fondò sulla insuperata legione (➔) romana, articolata in dieci coorti uniformemente armate, compatte e tetragone all’occorrenza, sia in attacco sia in difesa.
Medioevo ed età moderna. Nel periodo medievale il generale decadimento politico si accompagnò al venir meno degli ordinamenti organici e dei procedimenti tattici che avevano caratterizzato il periodo imperiale. In particolare, durante il feudalesimo le formazioni militari videro il progressivo prevalere della cavalleria, mentre perdevano di importanza le fanterie, spesso composte da turbe di contadini senza ordine e senza disciplina, armate alla meglio con archi, balestre, picche, alabarde, spiedi e anche semplici bastoni. Nel periodo comunale, invece, la fanteria ricominciò a guadagnare importanza anche perché dalla popolazione contadina non era possibile trarre cavalieri in quantità sufficiente a costituire consistenti corpi militari. Strette intorno al Carroccio, le truppe comunali riuscirono in molti casi a resistere e prevalere sulla cavalleria nemica.
L’inizio del trapasso dalla t. medievale a quella moderna è senz’altro da attribuire agli Svizzeri, portati dalla natura del terreno e dagli ordinamenti politici ad affidare la loro difesa non già ai cavalieri, ma ai fanti, che seppero inquadrare in un corpo veramente organico, il battaglione svizzero. Sempre seguendo l’esempio degli Svizzeri, si incominciarono a mettere in campo le artiglierie, la cui capacità di fuoco e di offesa a distanza contribuì non poco a rivalutare le fanterie. In virtù dei brillanti risultati conseguiti dagli Svizzeri, nel 14° e 15° sec. altri Stati seguirono nell’ordinamento dei loro eserciti il modello svizzero. Ulteriori progressi nell’arte della t. furono conseguiti per merito di grandi condottieri, quali Gustavo Adolfo, Eugenio di Savoia, Federico II.
Dalla Rivoluzione francese al 1914. Mutamenti radicali si ebbero però soltanto a seguito della Rivoluzione francese, con il ritorno degli eserciti nazionali e quindi delle masse al posto dei mercenari. Le armate rivoluzionarie, dopo qualche successo iniziale, misero ben presto in luce tutti i difetti degli organismi improvvisati e fu necessario rielaborare t. che, conservando i vantaggi dell’audacia e dell’emulazione caratteristici del periodo iniziale, consentissero la necessaria compattezza e continuità d’azione. Si tornò a ordinamenti organici più precisi, alla preparazione dei quadri direttivi nelle scuole di guerra, a una più consapevole disciplina, fermi restando lo spirito offensivo, la pronta ricerca della battaglia, il movimento a forze riunite nel punto cruciale, caratteristiche, queste, che il genio di Napoleone riuscì a esaltare nelle campagne vittoriose della sua epoca. La t. di Napoleone deriva direttamente dagli stessi principi che informavano la sua strategia: concentramento dello sforzo per provocare sul fronte di battaglia del nemico un cedimento locale tale da estendere il disordine sul rimanente del fronte. Nel punto di frattura viene lanciato l’attacco decisivo, preceduto sempre da una preparazione di fuoco concentrato di molte batterie. Ottenuta la vittoria, Napoleone ordinava subito l’inseguimento del nemico con la cavalleria e con l’appoggio di artiglieria a cavallo e truppe leggere. A questa t. classica Napoleone alternò altri tipi di manovre ugualmente geniali.
La pace di cui l’Europa godette fra il 1815 e il 1866-70 non consentì sviluppi nell’impiego tattico delle forze in campo, in quanto le campagne di Crimea (1854-56) e quelle d’Italia non videro in azione masse superiori alle 180.000 unità. Il progresso riprese nella seconda metà del secolo e fu conseguenza sia dei molti ritrovati tecnici escogitati durante la guerra di secessione americana (1861-65), sia dell’opera di H.K. von Moltke, che si rifece agli insegnamenti napoleonici sull’impiego delle grandi masse di combattenti. Sul piano operativo egli avvertì come gli eserciti fossero diventati ormai così numerosi da rendere difficile farli marciare e manovrare concentrati in massa unica: di qui la necessità di suddividerli in più masse, cioè in armate, pur sempre di notevole entità, ma maggiormente agevoli e rapide da manovrare per la loro decisiva concentrazione nella lotta.
La Prima e la Seconda guerra mondiale. Allo scoppio delle ostilità nella Prima guerra mondiale (1914) si pensava che i grandi progressi tecnici delle armi e dei mezzi consentissero rapidi successi, agevolando la manovra per linee interne o esterne. Ma lo sviluppo enorme del fuoco e, in particolare, l’avvento della mitragliatrice, dopo una fase iniziale manovrata, che in Francia si esaurì entro i primi due mesi, condussero in tutti i fronti alla paralisi della guerra di trincea. Per lunghi anni i più potenti eserciti del mondo si affrontarono in una serie di sanguinose battaglie con guadagni minimi di terreno, in genere subito perduto a seguito delle inevitabili controffensive, senza che si riuscisse a trovare la via del movimento e della battaglia risolutiva. Ogni tentativo di introdurre elementi nuovi nel contrasto (da segnalare al riguardo l’apparizione dei primi carri armati) risultò vano e la guerra si concluse in pratica per esaurimento.
Nel ventennio fra le due guerre, i vari Stati Maggiori procedettero a un approfondito riesame delle cause che avevano determinato la staticità nelle operazioni del primo conflitto, elaborando nuove idee e promuovendo lo sviluppo di mezzi nuovi. Si distinsero in questo i Tedeschi che, dovendo praticamente ricostruire ex novo il loro esercito dopo il ripudio delle clausole di Versailles, si trovarono nelle migliori condizioni per realizzare quanto di nuovo si veniva teorizzando. La grande novità che dominò il primo biennio delle ostilità nel secondo conflitto mondiale fu il binomio aerei-carri armati. I Tedeschi avevano compreso che, per uscire dalla guerra statica di posizione, bisognava adoperare i carri, non come appoggio delle divisioni di fanteria, ma in vere e proprie armate autonome, seguite da aliquote di fanteria scelta. Di qui i loro strepitosi successi nel 1939-40 e ancora nel 1941. Ma proprio durante la prima campagna di Russia la t. tedesca dei blindati entrò in crisi. Da allora, da parte sia dei Tedeschi sia degli Alleati, ci si accinse alla messa a punto di una t. nuova. Attraverso fasi intermedie, di cui le divisioni tedesche e quelle britanniche di Cirenaica, stile 1942, furono i prodotti più significativi, si giunse alla divisione tedesca stile 1943 e a quelle alleate stile 1944 (invasione della Normandia) che rimasero sostanzialmente immutate fino alla conclusione della guerra. La divisione blindata tedesca del 1943-44 vide ulteriormente diminuito il numero dei carri, migliorati però nella corazzatura, nell’armamento, nella velocità e nella maneggevolezza. Il reggimento blindato della nuova divisione corazzata tedesca era sempre integrato da due reggimenti di fanti trasportati su mezzi cingolati, nei quali il terzo battaglione era sostituito da una nuova unità tattica autonoma, quella dei Panzergrenadieren, incaricata di estendere, sfruttare e consolidare il successo conseguito dai carri. Era eliminato in tal modo il vuoto tattico fra il binomio aerei-carri armati del 1931-41 e la fanteria che lo seguiva, ed era insieme creata una replica alla nuova divisione mista di fanteria inglese e alla brigata meccanica dell’esercito sovietico. La divisione degli Alleati del 1944-45, con la sua dotazione organica di carri medi, di bombe a carica cava, di cannoni senza rinculo, di mortai pesanti, di proietti a razzo, di cannoni controcarri, poteva partecipare con efficacia risolutiva a tutte le fasi del combattimento. A questa concentrazione dinamica dell’offesa non si poteva che contrapporre analogo procedimento da parte della difesa: concentrarsi, condensarsi, raccogliersi in blocchi. Sorse così la difesa a caposaldi: difesa straordinariamente profonda, caratterizzata da reattività a giro d’orizzonte, da intensa reazione di movimento, da largo uso di difese campali di calcestruzzo e di postazioni metalliche, da ricorso su vasta scala all’ostacolo e soprattutto alla mina. Dopo che le posizioni avversarie erano state indebolite dall’azione di fuoco lontana, si sviluppava l’azione vicina d’infiltrazione per l’apertura dei varchi, a opera del genio, mentre la fanteria occupava le posizioni sminate e i carri eliminavano i nidi di resistenza. Attraverso una serie di conquiste e di consolidamenti successivi, si allargavano e si approfondivano le brecce, creando i presupposti per l’intervento delle unità destinate alla manovra sul tergo e al rapido sfruttamento del successo in profondità: unità meccanizzate, batterie di cannoni automotori e cingolati, aviazione, truppe aviotrasportate.
La t. contemporanea. Dalla seconda metà del 20° sec., gli eserciti sono caratterizzati dalla disponibilità di mezzi di combattimento di elevate velocità e mobilità, potentemente armati e protetti; dotati di armi da getto (artiglierie e missili) di notevole portata (da 20 a 120 km) con grande forza distruttiva (teste nucleari) e con amplissima capacità di dirigere il loro fuoco in ogni direzione, hanno anche la possibilità di movimento nelle tre dimensioni, per mezzo di aerei da trasporto e truppe aviotrasportabili, e sono muniti di mezzi sofisticati di comunicazione e d’informazione. Per essi il problema tattico fondamentale è, in battaglia, quello di sottrarsi il più a lungo possibile all’offesa nemica per concentrarsi rapidamente, sia con l’urto diretto sia con il fuoco convenzionale e nucleare, là dove è possibile colpire il nemico. L’artiglieria d’appoggio è o altamente mobile (semovente) al seguito delle formazioni blindo-corazzate, o capace di ampia manovra delle traiettorie, da postazioni decentrate. Armi insidiose attive (missili anticarro a corta gittata, guidati sul bersaglio, in dotazione alla fanteria meccanizzata) o passive (mine, sparse o in ‘campi’) sono utilizzate per limitare la possibilità di movimento dei carri, mentre a più largo raggio (fino a 120 km) sistemi missilistici possono svolgere azioni di fuoco sia convenzionali sia nucleari con carattere d’interdizione su retrovie e basi nemiche. L’offesa aerea lenta (elicotteri) e veloce (aerei d’attacco) rende poi necessaria la protezione di un ‘ombrello’ contraereo a comando centralizzato costituito sia da aerei intercettori sia da armi contraeree (missilistiche o artiglierie) schierate a difesa di addensamenti di truppa e di punti di passaggio obbligato, e poste a disposizione delle stesse unità minori operanti oppure lasciate, quelle di maggiore portata e potenza, a un’organizzazione a più alto livello.
Tali principi e concetti tattici si applicano, e forse in maniera più esaltata, alle forme di guerra minore (guerriglia) in cui sorpresa, rapidità di concentrazione, presenza di una riserva, capacità di sganciamento e di diluizione diventano fattori principali di successo specie se impiegati contro forze pesanti rigidamente inquadrate e scarsamente mobili. In ogni caso (guerra o guerriglia), tempestività e rapidità d’intervento costituiscono il problema fondamentale della t. moderna avente riflessi ordinativi e logistici non indifferenti.
Antichità. Fin da tempo molto antico la t. navale delle navi a remi si basò sull’impiego del rostro: si trattava di manovrare in modo da investire e speronare le navi nemiche, aprendo falle sulla loro fiancata e procurandone l’affondamento. Ma fino al 5° sec. a.C. l’azione decisiva era di solito affidata ai guerrieri imbarcati in gran numero sulle navi; essi usavano dapprima le armi di lancio, poi, dopo che la nave nemica veniva accostata, si lanciavano all’arrembaggio. In seguito, venne adottata una t. nuova, originaria dei mari d’Oriente e consistente nell’usare la propria nave come un proiettile lanciato a tranciare e danneggiare il palamento delle navi nemiche: private della capacità di governare, le navi erano più facile preda dell’attacco con il rostro, sul fianco o a poppa. Questa t., adottata dai Greci in varie occasioni, richiedeva equipaggi perfettamente addestrati e manovratori abilissimi.
I Romani, che pure impiegarono largamente la t. dell’attacco con il rostro, nella prima guerra punica perfezionarono quella dell’abbordaggio. Il console Caio Duilio escogitò addirittura il cosiddetto corvo, ponte abbattibile fornito di arpioni e di apposita cerniera, collocato a prora alla base di un albero, che lo sosteneva in posizione verticale. Calandolo sulle navi nemiche, le agganciava con gli arpioni e permetteva ai soldati romani imbarcati, superiori nella lotta corpo a corpo, di andare più agevolmente all’arrembaggio.
Medioevo ed età moderna. Per gran parte del Medioevo, finché il remo rimase, nel Mediterraneo, il mezzo essenziale di propulsione, il nerbo delle marine militari fu costituito dalle galee. Fino all’invenzione della polvere, la tattica delle galee non differiva granché da quella delle navi dell’antichità: azione a distanza (limitata a poche decine di metri) con armi da getto, balestre, archi ecc., oltre al famoso fuoco greco; urto con il rostro, o, di preferenza, manovra per fracassare il palamento delle navi avversarie; infine, la fase risolutiva con l’arrembaggio.
Con l’avvento delle armi da fuoco, la t. delle galee non mutò molto fino a quando le navi a vela, che già nel Medioevo costituivano il grosso delle forze marittime degli Stati atlantici, non cominciarono a far la loro comparsa anche nel Mediterraneo. Così le galeazze (primo abbozzo dei grandi vascelli del Settecento), che, con prevalenza di vele sui remi, potevano disporre di numerose artiglierie anche sui fianchi, cominciarono a essere impiegate in battaglia, disposte anteriormente al fronte di combattimento, perché ricevessero il primo urto del nemico e ne spezzassero la linea con l’intenso fuoco dei cannoni sui fianchi. Ciò comportava che il traverso (la direzione perpendicolare alla chiglia) era la direzione della massima offesa, e imponeva di conseguenza la formazione delle forze navali in linea di fila, che prese il nome di ‘linea di battaglia’ o ‘linea di bolina’ (donde il nome di nave di linea rimasto alle navi da battaglia), perché permetteva di avere sgombro il campo di tiro e proteggeva le navi dal tiro d’infilata. Dal fatto poi che la galeazza fosse completamente soggetta, nei suoi movimenti, alla direzione e alla forza del vento derivava, fra le altre conseguenze, l’importanza della posizione di sopravvento, che permetteva a una flotta di raggiungere rapidamente le navi sottovento, e d’imporre o rifiutare il combattimento quando e come voleva. La forza navale di sottovento poteva godere dell’unico vantaggio di concentrare il tiro contro le navi che venivano all’attacco prendendole d’infilata, in pratica un vantaggio illusorio perché, data la modesta gittata delle artiglierie, la convergenza del fuoco non poteva effettuarsi a distanza di tiro efficace. Nella maggior parte dei casi, la flotta di sottovento preferiva ‘mettere in panna’ (ossia orientare le vele in modo da tenere le navi quasi ferme) e attendere il nemico. Si ritornava così praticamente a opporre nave contro nave, ovvero al combattimento su linee di fila.
Dalla fine del Settecento ai primi del Novecento. La codificazione della linea di fila raggiunse l’acme intorno alla metà del 18° sec. e fu solo nel 1782, con la battaglia della Dominica o delle Saintes, che la t. navale segnò una svolta significativa. La flotta inglese di G. Rodney s’incuneò tra le due frazioni casualmente formatesi nella flotta francese di F.-J. De Grasse, riuscendo a mettere l’avversario tra due fuochi con la cooperazione della retroguardia. Da allora la linea di battaglia cessò di essere intesa rigidamente, e la condotta tattica mirò a trarre vantaggio dalla posizione per cercare di dividere la flotta nemica in due o tre parti, così da poter concentrare su di una la totalità delle proprie forze. Su tali concetti s’imperniò la t. navale dal 1782 in poi, perfezionandosi ulteriormente con P.-A. Suffren e con H. Nelson. Il passaggio dalle flotte a vela a quelle a vapore, dalle navi di legno a quelle di ferro e corazzate, il progresso delle armi, degli strumenti, dei metodi di direzione e di condotta del tiro, l’evoluzione dei tipi di navi di linea, resero assai complessa la t. navale. In linea generale le fasi e le forme di un combattimento navale diurno erano quelle della presa di contatto, dello spiegamento e dello sviluppo del combattimento.
La Prima e la Seconda guerra mondiale. La guerra russo-giapponese del 1904-05 segnò la fine di ogni influenza della ‘jeune école’ francese, che dal 1885 aveva sostenuto la necessità di rinunciare alle costose grandi navi da battaglia per affidarsi esclusivamente all’impiego, in gran numero, di unità leggere, minuscole e insidiose (la poussière navale) e alla guerra di corsa.
Dal 1905 la Gran Bretagna, nel suo contrasto con la Germania sul piano degli armamenti navali, puntò risolutamente alla supremazia delle grandi navi, mettendo in linea unità che avevano decisiva preponderanza in fatto di capacità offensiva e di protezione rispetto a tutti i tipi esistenti. Nacquero così la dreadnought, dotata di potenti artiglierie monocalibro, poderosa protezione anche nella parte immersa dello scafo, velocità sufficiente a imporre la forma dell’azione tattica, e gli incrociatori da battaglia, anch’essi potentemente armati, ma meno protetti e più veloci, per l’impiego in appoggio alle corazzate e in operazioni in acque lontane, contro formazioni nemiche dedite alla guerra di corsa.
Durante la Prima guerra mondiale si ebbero importanti battaglie sul mare (Coronel, Falkland, Dogger Bank): tutte, compresa quella che fu senza paragone la più importante, cioè la battaglia dello Jütland, furono combattute secondo le norme classiche della tattica. Ma il contrasto marittimo assunse forme del tutto nuove per la presenza dell’arma sottomarina. Questa, se non pregiudicò sostanzialmente la piena capacità operativa delle navi da guerra moderne, assunse invece la massima importanza nella lotta contro il traffico mercantile: mentre la guerra di corsa tradizionale, cioè di superficie, si concludeva con la rapida sconfitta dell’attaccante, i sommergibili potevano avvicinarsi, invisibili, e colpire la preda, sottraendosi alla reazione avversaria mediante l’immersione. Ma con l’abbandono del metodo delle rotte pattugliate, che disperdeva i mezzi di protezione, e con il ritorno all’antico metodo dei convogli, che ne imponeva invece la concentrazione, e con l’attacco alle basi dei corsari (di Zeebrugge e di Ostenda), si riuscì a debellare la nuova minaccia.
Nella Seconda guerra mondiale, la caratteristica rivoluzionaria delle azioni tattico-navali fu data dalla partecipazione, sovente risolutiva, delle forze aeree alla battaglia (navi portaerei), così che gli scontri ebbero carattere aeronavale. Nel Mediterraneo e nell’Atlantico le portaerei inglesi ebbero funzione solo ausiliaria rispetto alle corazzate. Nelle battaglie fra navi di superficie nel Pacifico, invece, l’aviazione navale dei contrapposti gruppi di portaerei assunse presto carattere preminente rispetto alle artiglierie delle navi di linea, al punto che molte delle battaglie più importanti si conclusero senza che le corazzate avessero sparato un colpo solo di cannone. Dopo l’impiego dell’arma aerea nella battaglia navale, l’altro aspetto dominante della guerra sul mare fu dato dalle azioni dei sommergibili, che riuscirono a infliggere perdite notevoli alle stesse navi da guerra, ma soprattutto colsero successi quasi decisivi per le sorti del conflitto nella guerra al traffico. All’inizio gli attacchi furono condotti prevalentemente da unità isolate, ma a partire dal marzo 1941 ebbe applicazione su grande scala la t. della ‘muta’ o del ‘branco di lupi’, consistente nella concentrazione di numerosi sommergibili contro un convoglio. Peraltro gli aerei a grande autonomia e il radar, nel 1943, riuscirono quasi a neutralizzare l’efficacia delle mute dei sommergibili ‘di superficie’. Si rispose da parte dei Tedeschi con la creazione dei sommergibili di profonità, costieri (U-Boote XXIII) e d’alto mare (U-Boote XXI), che peraltro ebbero impiego solo nei primi mesi del 1945, quando le sorti della guerra erano ormai decise. La cooperazione dei vari mezzi operanti sul mare (aerei, portaerei, navi di superficie e sommergibili) assicurò il successo degli Alleati nella battaglia del traffico, mentre la cooperazione fra portaerei, sommergibili e mezzi speciali d’assalto assicurò agli uni o agli altri belligeranti grandi successi nel cuore stesso dei porti nemici: a Taranto (1940), a Pearl Harbour (1941), ad Alessandria (1941). Da un punto di vista generale della t. navale, gli Americani, all’inizio delle ostilità, sostituirono ai raggruppamenti navali omogenei del tempo di pace i complessi di navi diverse, bilanciati secondo le necessità operative (task forces). Le portaerei ne erano le protagoniste, ma, essendo molto vulnerabili, unità di varie specie cooperavano prestandosi mutuo appoggio. Così, le flotte aventi il predominio aeromarittimo poterono eseguire operazioni anfibie e sbarchi per costituire, come a Gela, a Salerno e in Normandia, fronti terrestri, o per giovare a essi, come ad Anzio. In queste operazioni talora le tre forze agirono di stretto concerto: la battaglia di Normandia è rimasta fondamentale nella storia della guerra tridimensionale.
Il secondo dopoguerra. Nel corso della seconda metà del 20° sec., alle navi portaerei si sono affiancati i sommergibili nucleari, sottomarini capaci di operare a lungo nelle profondità oceaniche, limitati praticamente più dalla resistenza umana che dalle capacità intrinseche del mezzo. Queste due classi di unità hanno acquistato importanza preponderante e costituiscono di fatto la gerarchia tra le flotte. La comparsa del missile navale superficie-superficie ha poi rivoluzionato profondamente la t. navale. L’importanza della nuova arma è dovuta alla sua capacità di conferire, anche a unità di modeste dimensioni, possibilità di offesa prima possedute soltanto dalle artiglierie delle grosse unità o da aerei. Con l’avvento delle nuove armi si è reso sempre più necessario il ricorso a mezzi radioelettrici e particolarmente al radar; di pari passo si sono sviluppate contromisure elettroniche (ECM), rinnovando il classico e inesauribile contrasto fra mezzi di offesa e mezzi di difesa, che la storia del progresso militare ha conosciuto da sempre nei campi più svariati. Passi notevoli, in questo quadro, hanno compiuto le tecniche optoelettroniche (sistemi ad amplificazione di luce e a raggi infrarossi). Il notevole costo delle nuove armi sofisticate e dei sistemi difensivi ha imposto alle potenze la riduzione delle grandi unità e contemporaneamente ha favorito l’incremento del numero dei mezzi minori dotati di missili. Importanza notevole per le azioni tattiche presentano oggi anche le unità intermedie del naviglio militare quali il sommergibile d’attacco, la fregata (nome con cui viene oggi spesso classificato il cacciatorpediniere), particolarmente attrezzata per la lotta antisom, e le unità destinate alle operazioni anfibie e di rifornimento. L’appoggio a navi maggiori e il controllo di zone aeromarittime limitate sono oggi affidati a unità intermedie, dette incrociatori tuttoponte, in grado di portare un discreto numero di elicotteri o di aerei a decollo verticale. L’aumento della velocità dei mezzi con l’uso di aliscafi e di hovercraft, con unità che raggiungono anche 3000 t, e l’impiego sempre più diffuso dei mezzi antisom, hanno ridotto notevolmente il dominio del sottomarino, che sembrava incontrastato; inoltre l’impiego di missili superficie-superficie e superficie-aria di notevole gittata e precisione, installati anche su naviglio sottile, ha ristretto la schiacciante superiorità tattica delle marine che disponevano di grandi portaerei con gran numero di velivoli d’attacco.
L’Italia è stata la prima nazione a impiegare gli aerei in operazioni di guerra (Libia, 1911-12), seguita dai belligeranti balcanici del 1912-13, in particolare Bulgari e Greci, sì che l’arma aerea entrò nel quadro della futura guerra del 1914. L’aereo si era presentato come ottimo mezzo di ricognizione, di osservazione del tiro oltre che di bombardamento e mitragliamento.
Nel corso della Prima guerra mondiale ebbe inoltre spettacolare sviluppo l’impiego degli aerei nella caccia ai velivoli nemici, che dette luogo a emozionanti duelli fra spericolati pionieri del volo bellico. Alla fine del conflitto era chiara a tutti la potenziale capacità del nuovo mezzo per ulteriori e più vasti impieghi in campo tattico, che portarono al perfezionamento del mezzo stesso e dei sistemi di cui esso veniva via via dotato. Dai primi monomotori a elica, con ali di tela e strumentazione minima, affidati essenzialmente all’abilità del pilota, si passò, nell’arco di meno di un secolo, alle poderose e sofisticatissime macchine moderne, dotate di armi e apparecchiature di precisione (per la condotta del volo a ogni tempo, l’identificazione e il danneggiamento degli obiettivi) e di sistemi di comunicazione che ne consentono il controllo e la guida continua da centri operativi a terra.
I progressi tecnici e organizzativi realizzati nei 20 anni fra le due guerre e l’esperienza maturata nelle guerre di Spagna e di Etiopia furono tali da consentire l’elaborazione di una t. aerea ben delineata: la diversificazione degli aerei disponibili permetteva all’aviazione da bombardamento vera e propria di perseguire i suoi scopi distruttivi, di logoramento e di interdizione con azione a massa, concentrata nel tempo e nello spazio, e all’aviazione d’assalto, distinta dalla prima perché composta da aerei più piccoli e agili, di essere anch’essa impiegata nel bombardamento, nel mitragliamento e nell’erogazione di aggressivi chimici, a volo radente. La t. dell’aviazione da caccia doveva imperniarsi sull’azione di massa, in modo da acquisire al più presto la supremazia nei cieli, mentre la t. dell’aviazione da ricognizione prevedeva l’impiego di velivoli isolati o al massimo in coppia.
Durante la Seconda guerra mondiale il principio dell’impiego di massa non ha perduto nulla della sua fondamentale importanza, ma si è attuato in forme molto diverse dalle previste. Per liberarsi della scorta dei cacciatori, che ne mortificavano decisamente il rendimento (a causa del diverso raggio d’azione), l’aviazione da bombardamento passò dall’impiego diurno al notturno, adeguandosi alla comparsa e al perfezionamento del radar. Si costruirono aerei da caccia a grande autonomia per conferire, con la scorta, maggiore efficacia ai bombardieri; soprattutto di questi si aumentò la potenza motrice per trasportare maggior peso sotto forma di corazzatura, di armamento difensivo e di bombe. In tal modo il bombardamento pesante in quota e a massa, che per le perdite e la scarsa efficacia aveva ceduto il posto al bombardamento in picchiata e a tuffo e all’attacco degli aerosiluranti contro navi, tornò a predominare nel 1944, contribuendo al crollo della Germania e del Giappone. La caccia, sorta da principio con il compito precipuo di difesa del territorio, salvò l’Inghilterra nel 1940: quindi aumentò le sue possibilità tattiche con l’esaltare la velocità, l’armamento, l’autonomia, trasformandosi infine in specialità da combattimento tipicamente difensiva, ma insieme suscettibile di multiformi impieghi offensivi, anche notturni. L’azione aerea ha avuto nel campo logistico dei rifornimenti e delle comunicazioni efficacia anche maggiore che in quello tattico, dove pure fu elemento decisivo di successo nelle campagne tedesche del 1939-41, anglo-americane in Normandia e nelle Ardenne e nelle controffensive e offensive dei Russi del 1943-45. L’impiego tattico degli aerei, specie in coordinazione con forze di terra e di mare nei vari tipi di operazioni previsti dai conflitti moderni, è da considerare determinante, specie nel caso di guerre limitate, nelle quali il raggio d’azione dei caccia-bombardieri (la moderna versione dell’aviazione d’assalto) comprende tutta o quasi tutta la superficie interessata dalle operazioni militari. Il caccia-bombardiere monoposto (detto anche d’attacco) si presta sia per le offese rapide agli obiettivi di superficie, sia per il compito di difesa da attacchi aerei avversari: esso ha caratteristiche intermedie di peso e di dimensioni tra il bombardiere pesante strategico e il caccia e svolge egregiamente il compito di bombardiere tattico, utilizzando le moderne armi provviste di congegni e calcolatori automatici adatti alla ricerca del bersaglio. Tra gli impieghi tattici dell’aviazione sono poi da ricordare quelli per il trasporto di uomini e materiali in prossimità del campo di battaglia; per queste operazioni è stato in larga misura usato, a partire dagli anni 1960, l’elicottero, che meglio si presta per servire località accidentate e impervie.