Ramo della fisiologia che studia i fenomeni connessi con l’attività degli elementi del tessuto nervoso, sia in senso ampio (n. generale), sia con riguardo a singoli raggruppamenti animali o a particolari suddivisioni del sistema nervoso (n. speciale degli Invertebrati, dei Mammiferi, dell’Uomo, del sistema vegetativo ecc.), sia mediante un confronto del diverso funzionamento degli organi nervosi nelle varie specie (n. comparata o comparativa).
La conoscenza funzionale del sistema nervoso seguì nel passato vie di sviluppo peculiari, entro larghi limiti diverse da quelle battute dal progresso degli altri campi della fisiologia. Considerando comparativamente i fatti, si nota che l’applicazione del metodo sperimentale portò alla n. i suoi frutti molto più tardi rispetto alla fisiologia degli altri sistemi organici, tanto da giustificare gli studiosi che ritengono non potersi parlare di n. in senso moderno prima della fine del 19° secolo. Fu allora che C.S. Sherrington (1857-1952) pose le basi del concetto di integrazione nervosa e, con esso, diede inizio a quella continuità di pensiero in cui ancora la n. si muove; e fu negli stessi decenni che I.P. Pavlov, con la scoperta dei riflessi condizionati, restrinse lo hiatus tra funzioni viscerali, somatiche e psichiche del sistema nervoso, aprendo alla ricerca psicofisiologica linee d’indagine tuttora perseguite.
Una data assai importante per l’evoluzione della n. moderna è rappresentata dal 1752, anno di pubblicazione delle memorie in cui l’anatomico e fisiologo svizzero A. von Haller dà conto dei suoi esperimenti rivolti allo studio dell’eccitabilità dei tessuti (De partibus corporis humani sensibilibus atque irritabilibus). Haller dimostra per primo che i muscoli possiedono in grado eminente la capacità di reagire a stimoli portati direttamente su di essi, indipendentemente dalla loro innervazione motrice. Non è più possibile, dopo Haller, pensare alla contrazione muscolare come alla conseguenza dell’ingresso nel muscolo di ‘spiriti animali’ riversati in esso dal nervo motore; l’innervazione motrice promuove la contrazione muscolare in quanto con la sua influenza scatena il manifestarsi di una proprietà funzionale intrinseca del muscolo, e non in quanto lo rigonfia di spiriti animali. Questa influenza viene da Haller spiegata come vis nervosa.
Nello stesso periodo, dopo una stasi di secoli si rinnovava allora nel campo della fisica l’interesse verso i classici fenomeni di elettrificazione da strofinio, permettendo con il loro studio sperimentale e sistematico di gettare le basi dell’elettrostatica. L’eccellente capacità del ‘fluido elettrico’ di agire come stimolo sui muscoli, rilevata dallo stesso Haller e da tutti confermata, la rapidità fulminea della sua propagazione attraverso i tessuti, le risposte muscolari ottenute per stimolazione elettrica di nervi, non potevano non colpire gli osservatori, che presero a fare largo uso dell’‘elettricismo’ per provocare contrazioni muscolari stimolando sia nervi sia muscoli, in preparati anatomici freschi, in animali vivi, e anche direttamente sull’uomo vivente. Si innesta in questa atmosfera la ben nota serie di esperimenti di L. Galvani, che furono iniziati verso il 1780 e interessarono tutto il mondo scientifico dell’ultimo decennio del secolo, proiettando le loro conseguenze in pieno Ottocento. Gli esperimenti galvaniani portarono effettivamente alla prima dimostrazione della reale esistenza di fenomeni bioelettrici attivi, ottenuta osservando che il contatto reciproco tra i nervi di due preparati neuromuscolari di rana, se stabilito tra i loro capi recisi e la loro superficie intatta, provoca la contrazione dei due muscoli.
L’effetto stimolante era da Galvani riferito genericamente a «elettricità in moto» attraverso il circuito stabilito tra punti carichi di elettricità animale di opposto segno. A parte le questioni interpretative, restava da dimostrare se veramente esistesse identità di natura tra questa ‘elettricità animale’ (o ‘fluido galvanico’) e l’elettricità studiata dai fisici nei corpi non viventi. Non si tardò infatti a rilevare, ripetendo in questo vecchie osservazioni di Haller, che il danneggiamento meccanico dei nervi impedisce loro di condurre l’eccitamento fisiologico ma non modifica la loro capacità di trasmettere il fluido elettrico: solo la misurazione strumentale dei fenomeni elettrici neuromuscolari poteva sciogliere ogni dubbio riguardo alla loro natura.
Intorno al 1830 L. Nobili introdusse il galvanometro astatico (o moltiplicatore): si trattava del primo strumento in grado di misurare direttamente le debolissime correnti bioelettriche. Con questo strumento, nel 1842 C. Matteucci individuò e descrisse esattamente la differenza di potenziale esistente tra parti lese e parti integre del muscolo e del nervo (potenziale di lesione); e nel 1843 E. Du Bois-Reymond compì con esso la fondamentale osservazione, secondo la quale durante la conduzione nervosa il potenziale di lesione si abbassa temporaneamente, dando luogo a quella oscillazione negativa (negative Schwankung o potenziale d’azione) la cui scoperta fornì le basi dell’elettrofisiologia moderna. Ben a ragione Du Bois-Reymond poté scrivere che, di fatto, la sua osservazione realizzava il sogno secolare dei fisiologi, vale a dire la prova dell’identità tra fluido nervoso e fluido elettrico.
Gli anni intorno alla metà del 19° sec. segnano un’altra data storica nello sviluppo della n. generale: quella della prima misurazione della velocità di conduzione del nervo, eseguita nel 1850 da H.L. Helmholtz. Prima di lui si riteneva infatti che la conduzione nervosa fosse istantanea; sicché ammettere l’identità tra il fluido nervoso e quello elettrico significava anche ammettere un’analogia tra la conduzione nervosa e quella dell’elettricità nei conduttori metallici: una concezione contro la quale era facile opporre buoni argomenti teorici (scarsa conduttività elettrica e scarso isolamento del nervo) e sperimentali (la già ricordata dissociazione, nel nervo danneggiato meccanicamente, tra la perdita della capacità di condurre eccitamenti fisiologici e la conservazione della sua capacità di condurre correnti elettriche). La constatazione sperimentale che la velocità di conduzione nervea è finita e accertabile, e anzi piuttosto lenta, permise di eliminare l’ultimo ostacolo verso una soddisfacente sistematizzazione teorica dei processi di conduzione e di eccitamento. Essa infatti si fonda su tre dati sperimentali, e cioè: a) la velocità finita della conduzione misurata da Helmholtz; b) l’esistenza di un potenziale di «lesione», accertata da Matteucci; c) la scomparsa di detto potenziale durante il passaggio dell’eccitamento, accertata da Du Bois-Reymond. Ciò consente di inferire che la membrana delle fibre nervose è, a riposo, elettricamente polarizzata, e che lo stato di eccitamento consiste nella temporanea scomparsa di questa polarizzazione; scomparsa che, una volta determinatasi in un punto della membrana, si propaga via via a tutti gli altri così come la fiamma si propaga lungo una striscia di polvere pirica.
Nella seconda metà del 19° sec. ulteriori sviluppi si dovettero a E.F. Pflüger, che nel 1859 osservò gli effetti elettrotonici di stimoli subliminali; a L.H. Hermann (1838-1914) e M. Cremer (1865-1935), alla cui opera si deve il concetto di propagazione dell’eccitamento per circuiti locali (1872, Hermann; 1899, Cremer); a W.H. Nernst, che nel 1899 fornì le basi chimico-fisiche al concetto di potenziale di membrana; a J. Bernstein (1839-1917), che nel 1902 propose una completa e formale teoria della propagazione dell’eccitamento come un’onda di depolarizzazione. Si entrò decisamente, dopo questi aspetti, nella n. generale contemporanea: l’indagine svolta successivamente sui meccanismi della conduzione nervosa ha infatti apportato ai concetti esposti modificazioni e integrazioni di rilievo, specialmente in seguito all’introduzione dell’oscillografia a raggi catodici e delle tecniche microfisiologiche di derivazione unitaria intracellulare, ma non ne ha scosso i fondamenti, che sussistono e si sono anzi trasformati da ipotesi di lavoro in solidi fatti sperimentalmente accertati.
La neuroanatomia del Seicento e di buona parte del Settecento non ebbe modo di spingersi oltre il generico riconoscimento e la descrizione di aree e di regioni di diversa colorazione, di fasci midollari affioranti alla superficie come rilievi o grossolanamente disseccabili in materiali induriti dal freddo. Quando poi, a partire dagli ultimi decenni del Settecento, si realizzarono i primi tentativi di applicazione del microscopio alle indagini neuroanatomiche, i risultati che ne derivarono non ebbero lo sviluppo che avrebbero meritato, essendo ancora prematuri i tempi per la concezione cellulare dei tessuti. È questo il caso delle osservazioni di F. Fontana, che nel 1781 descrisse e raffigurò con chiarezza i cilindrassi dei tronchi nervosi e studiò acutamente, 70 anni prima di A. Waller, le caratteristiche morfologiche della loro rigenerazione. Considerazioni analoghe possono essere fatte per le osservazioni di A. Monro (1733-1817), che per la prima volta nel 1783 descrisse nella sostanza grigia ‘corpi sferoidali’, che con ogni probabilità possono identificarsi con i pirenofori delle cellule nervose.
La n. localizzatoria è una fisiologia sui generis, in quanto non si preoccupa di meccanismi e di processi, ma solo di ‘sedi’: può essere quindi direttamente ricondotta alla neuroanatomia, e nei suoi stadi iniziali trova riscontro, nel campo della fisiologia non nervosa, in quelle attribuzioni di funzione tipicamente galeniche, secondo le quali il cuore sinistro è la ‘sede’ del calore animale, il fegato la ‘sede’ dello spirito naturale e così via. Una questione a lungo dibattuta nel Settecento, per es., concerneva l’identificazione delle strutture nervose ‘indispensabili alla vita’, seguendo una problematica già suggerita un secolo prima da T. Willis (1621-1675) e nella quale si attardarono a lungo Haller e vari suoi discepoli, in singolare contrasto con la ricchezza di prospettive funzionali della scoperta halleriana dell’eccitabilità. Meritano tuttavia di essere ricordati i risultati di A.C. Saucerotte (1741-1814), che provocò nel cane paralisi motorie all’arto anteriore o posteriore di un lato trapanando in punti diversi il lato opposto del cranio (1786); quelli di W.C. Cruikshank, che sempre nel cane sottolineò il significato del midollo cervicale per la respirazione (1795), aprendo così la via alle osservazioni che 20 anni dopo J.J.C. Legallois (1770-1814) avrebbe fatto sul nœud vital del bulbo; quelli di R. Whytt, che nel 1751 notò la scomparsa della risposta pupillare alla luce dopo la distruzione dei corpi quadrigemini.
Sul cammino che avrebbe portato alla scoperta della funzione riflessa si devono ricordare le osservazioni di A. Stuart (1673-1742), di S. Hales e Whytt, che approfondirono l’analisi dei movimenti osservabili negli arti e nel tronco di animali decapitati. Hales, Stuart e Whytt rilevarono nella rana la stretta dipendenza di detti movimenti dall’applicazione di stimoli, e notarono la loro scomparsa dopo la distruzione del midollo spinale. Sul finire del 18° sec. il concetto di atto riflesso diviene ipotesi di lavoro, con l’opera di I.A. Unzer (1727-1809) e del suo allievo G. Prochaska (1749-1820). È il 1822 l’anno dell’effettivo riconoscimento sperimentale della specializzazione funzionale delle radici spinali; tale riconoscimento fu opera di F. Magendie, e fu autorevolmente confermato nel 1844 da J. Müller (1816-1858) col suo celebre preparato di rana sottoposta da un lato a rizotomia completa dorsale, dall’altro a rizotomia completa ventrale, e quindi colpita da paralisi diversa, rispettivamente sensitiva e motoria.
Su questo sfondo si innesta l’opera del medico londinese M. Hall, che segna un notevole progresso rispetto a quella di Prochaska, poiché non si limita a descrivere singoli «atti riflessi», ma giunge a teorizzare una dottrina organica della «funzione riflessa» del midollo spinale: è con Hall che la reflessologia assume quella forma che nei decenni successivi avrebbe dovuto promuovere il concetto di circuito neuronico, vale a dire il concetto-base della n., applicabile a qualunque livello del sistema nervoso centrale, e non soltanto a quello segmentario (spinale). Hall sperimentò sul midollo: grazie ai risultati ottenuti in varie specie animali egli affermò decisamente (1833) l’esistenza di movimenti muscolari «diversi da tutti quelli (fino allora) notati», e cioè indipendenti dalla volontà, dovuti alla stimolazione delle terminazioni nervose sensitive, e trasmessi attraverso «archi» spinali o bulbari con meccanismo riflesso. Col lavoro di Hall il midollo spinale acquistò decisamente, oltre alle funzioni di conduzione già riconosciutegli da Galeno, anche quella di «catena segmentaria, le cui unità funzionali sono archi riflessi separati che interagiscono tra loro e con i centri superiori del sistema nervoso per assicurare un movimento coordinato». Questa nuova funzione di «centro riflesso» è localizzata esattamente nella sostanza grigia (1850).
Nel giro di un trentennio, fra sostanza bianca e sostanza grigia del midollo venne dunque affermandosi una sostanziale differenza funzionale: alla prima cominciarono ad attribuirsi funzioni di conduzione, all’altra funzioni di «riflessione» ed elaborazione. La comprensione del substrato strutturale di questa specializzazione richiese un tempo assai più lungo: a tale scopo, occorreva poter trasferire anche al tessuto nervoso la teoria cellulare, e rendersi conto che l’esistenza delle due sostanze non costituiva ostacolo al trasferimento; occorreva cioè fondare la neuroanatomia microscopica. Il progresso delle metodiche istologiche (che fu notevole a partire dal terzo decennio dell’Ottocento) e l’introduzione del microscopio composto con correzione acromatica (che cominciò a entrare in uso in quel periodo) fornirono elementi tecnici indispensabili all’impresa, ma di per sé non furono sufficienti. Di fatto le vecchie osservazioni a fresco di corpi sferoidali nella sostanza grigia, delle quali, come si è detto, fu autore Monro nel 1783, furono confermate e precisate rispettivamente nel 1824 e nel 1833 da H.-J. Dutrochet (1776-1847) e da C.G. Ehremberg; le cellule nervose furono sistematicamente studiate su materiale fissato e colorato, e descritte insieme coi loro prolungamenti, da J.E. Purkyně nel 1837-38; nel 1838 R. Remak suggerì per primo la continuità anatomica tra cellule nervose e fibre amieliniche.
L’evidente eterogeneità anatomica fra sostanza grigia e sostanza bianca richiedeva un profondo sforzo interpretativo per comprendere i rapporti strutturali; solo la scoperta della degenerazione secondaria in cui incorrono i tronchi nervosi separati dal neurasse, eseguita da Waller nel 1850, diede l’impulso per generalizzare le prime intuizioni e per riconoscere le fibre della sostanza bianca come niente altro che i prolungamenti mielinizzati delle cellule: la teoria cellulare poté così applicarsi anche al tessuto nervoso, e fu aperta la via per la parte più fertile del pensiero neurofisiologico.
È del 1865 la pubblicazione postuma dell’opera classica di O. Deiters, in cui sono riprodotte le prime illustrazioni di cellule nervose di aspetto moderno, con una chiara differenziazione morfologica tra i dendriti e l’assone; dopo la scoperta (1873) del metodo d’impregnazione cromoargentica da parte di C. Golgi e il conseguente moltiplicarsi delle descrizioni di cellule nervose complete dei loro prolungamenti, e dopo le osservazioni sistematiche eseguite tra il 1880 e il 1890, con questo e con altri metodi, da numerosi autori (tra cui R. Kölliker, A. Forel, F. Nissl, e molti altri), si giunse nel 1891 all’enunciazione della dottrina del neurone da parte di W. Waldeyer-Hartz. Secondo questa dottrina il tessuto nervoso è composto dall’insieme di singole cellule, i neuroni, che sono unità morfologiche, embriologiche, trofiche e funzionali. Essi sono tra loro collegati per contiguità, e non per continuità, e formano catene a conduzione unidirezionale, essendo provvisti di un prolungamento cellulifugo (l’assone o neurite) e, tipicamente, di vari prolungamenti cellulipeti (i dendriti); il numero e la disposizione dei dendriti e delle ramificazioni terminali dell’assone determinano la realizzazione dei tipi più vari di circuiti neuronici.
La dottrina del neurone, nata dall’interpretazione speculativa di osservazioni morfologiche, fornì per la prima volta ai fisiologi l’unità funzionale del sistema nervoso e il substrato con cui costruire gli archi riflessi e ipotizzare i vari fenomeni integrativi. Malgrado la necessità di opportune integrazioni e correzioni (si sa, per es., che l’unidirezionalità di conduzione non va ascritta a una proprietà intrinseca delle cellule nervose, ma è la conseguenza dell’effetto polarizzante delle sinapsi, che tipicamente permettono la trasmissione in un unico senso), la dottrina del neurone ebbe ed ha un immenso valore euristico. È significativo il fatto che le generalizzazioni di S. Ramón y Cajal (1852-1934), che della dottrina stessa fu il più convinto assertore e che con la sua opera istologica monumentale le diede un’importante base sistematica, furono accolte con assai maggiore facilità dagli studiosi della funzione che non dai morfologi, tra i quali per lungo tempo si tenne accesa la disputa fra neuronisti e antineuronisti: la teoria antagonista della «rete nervosa diffusa», propugnata da J. Gerlach (1820-1896) e difesa fino all’ultimo da Golgi, trovò seguaci tra gli istologi fino al terzo e al quarto decennio del 20° secolo.
Già all’inizio del secolo, M. Bichat distinse il substrato anatomico delle funzioni viscerali (vie organique) da quello delle funzioni somatiche (vie animale); nel 1811 Legallois descrisse in modo sostanzialmente corretto, sul fondamento di esperimenti di sezione, la parte essenziale svolta dalle strutture bulbari nella respirazione (il nœud vital), e notò che le stesse strutture non sono indispensabili per il mantenimento dei moti del cuore. Non per il suo valore scientifico (che ovviamente è nullo), ma perché storicamente rappresenta il primo tentativo di fondare una teoria sistematica delle localizzazioni corticali, occorre anche ricordare la dottrina ‘frenologica’ proposta da F. Gall nel primo decennio dell’Ottocento.
Su un piano più costruttivo, nel 1824 M. Flourens, in seguito a una serie organica di esperimenti di ablazione e di lesione, concluse doversi attribuire al cervello la ‘volontà locomotoria’, al cervelletto la ‘coordinazione dei movimenti’, al bulbo e al midollo spinale la ‘generazione immediata’ dei movimenti stessi: retrospettivamente, si può dire che in questa tripartizione appare adombrata una distinzione funzionale importante, e in un certo senso valida anche oggi. Sempre Flourens riconobbe, negli Uccelli e nei Mammiferi, la dipendenza della visione dall’integrità del cervello; 30 anni dopo (1855) B. Panizza precisò questa nozione localizzando esattamente nel lobo occipitale la regione essenziale per la visione, sul fondamento di osservazioni autoptiche e di controlli sperimentali eseguiti sul cane.
Le prime localizzazioni corticocerebrali motorie risalgono al 1870, e si devono a G. Fritsch e E. Hitzig, che le dimostrarono nella scimmia e nel cane stimolando direttamente la corteccia; D. Ferrier, che fu autore di un celebre trattato sulla fisiologia del cervello (1876), confermò ed estese questi risultati e ricorse per primo, per le stimolazioni elettriche corticali, alla corrente faradica. All’apporto delle osservazioni cliniche e anatomopatologiche si devono essenzialmente i primi dati riguardo alle aree corticali di proiezione sensitiva, ai ‘centri associativi’ corticali, alla dominanza emisferica: fu fondamentale, a questo riguardo, l’opera del neurologo francese P. Broca, anche se le prime mappe citoarchitettoniche e mieloarchitettoniche corticali dovran;no attendere i minuziosi studi microscopici e anatomo-comparativi di P.E. Flechsig e dei suoi numerosi continuatori. E fu un clinico, J.H. Jackson, a enunciare la nota dottrina sulla subordinazione gerarchica dei vari livelli funzionali del neurasse e sulla duplicità dei sintomi (da sottrazione del centro ablato e da liberazione dei centri sottostanti) conseguenti a lesioni patologiche o sperimentali; allo stesso autore si deve anche il riconoscimento della sequenza motoria nella corteccia prerolandica, raggiunto mediante l’osservazione clinica della ‘marcia’ dell’accesso epilettico di origine corticale.
Non si deve credere tuttavia che il concetto di localizzazione delle funzioni nervose durante l’Ottocento fosse accolto senza critiche e senza riserve, né che mancasse in quel secolo la consapevolezza dei limiti che nell’aspetto conoscitivo vanno assegnati ai dati localizzatori quando non raggiungono (né allora lo potevano) un determinato livello strutturale. Per limitarsi a pochi accenni, basta ricordare la lunga polemica, suffragata a ogni suo stadio da dati sperimentali, tra Broca e K. Wernicke (1848-1904) riguardo ai centri corticali del linguaggio, o quella non meno nota tra Ferrier e F. Goltz (1834-1902) riguardo alle localizzazioni corticali motorie. Da esse e da varie altre emersero gli importanti concetti di regressione, di compenso, di funzione vicariante, e per esse cominciò ad affacciarsi la nozione teorica di circuito nervoso, anche se fondata su quegli schemi di ‘rete anastomotica’ o di ‘plessi neuronici centrali’ che precedettero la teoria di Waldeyer-Cajal e sollevarono più problemi di quanti ne risolvessero.
Occorre poi ricordare che l’Ottocento portò alla n. speciale anche una serie di nozioni squisitamente funzionali, pur se numericamente limitata: nel 1845 i fratelli W.E. e E.H. Weber descrissero l’inibizione cardiaca per stimolazione vagale, e fornirono così il primo esempio di effetti inibitori periferici. Vent’anni dopo E.F.W. Pflüger avrebbe dimostrato l’inibizione della motilità del tenue per stimolazione del nervo splancnico, e tra il 1865 e il 1890 sarebbero apparsi i lavori di W.H. Gaskell e quelli di J.N. Langley, nei quali si ponevano le basi delle conoscenze moderne riguardo all’organizzazione generale del sistema nervoso vegetativo; del 1891 è la monografia dove L. Luciani espose la sua classica dottrina sulle funzioni cerebellari, fondata su rigorosi esperimenti eseguiti sul cane.
Fin dal 1851-52, C. Bernard e C.-E. Brown-Séquard avevano riconosciuto l’esistenza di nervi vasomotori e avevano comprovato il carattere tonico degli impulsi vasocostrittori. Tra il 1863 il 1869 I.M. Sečenov (1829-1905) scoprí nella rana l’esistenza di fenomeni d’inibizione centrale; P. Broudgeest (1835-1904) dimostrò nel 1860, sempre nella rana, la dipendenza del tono muscolare dall’integrità del midollo spinale. Nel 1875 R. Caton (1842-1936) descrisse per la prima volta l’esistenza di ritmi elettrici spontanei nella corteccia cerebrale, ponendo così le premesse per le osservazioni con cui un cinquantennio più tardi H. Berger avrebbe iniziato i suoi studi fondamentali sull’elettroencefalogramma. Va anche ricordata l’impostazione teorica di Sečenov, che tentò di spiegare su basi riflesse le funzioni nervose superiori; egli fu il primo a «trasferire nel cervello i riflessi», e può giustamente considerarsi l’antesignano di Pavlov.
Gli apporti specifici di Sherrington alla conoscenza funzionale del sistema nervoso sono numerosissimi: basti ricordare la delucidazione dei meccanismi fondamentali del tono muscolare e della postura, l’analisi dei riflessi spinali polisinaptici, l’enunciazione della legge dell’innervazione reciproca, l’interpretazione dell’inibizione centrale come fenomeno riflesso e attivo. In questa sede importa sottolineare come essi siano stati la conseguenza della rigida applicazione del metodo quantitativo allo studio dei riflessi spinali. Proprio in questa applicazione sta forse il maggior merito di Sherrington: come sempre accade nelle scienze, l’introduzione della misura e del numero porta a una problematica di tipo nuovo e fa compiere alla ricerca un salto di livello. Di fatto fu registrando e analizzando i miogrammi di muscoli implicati nella manifestazione di riflessi che Sherrington poté giungere al concetto di ‘ritardo centrale’ e definire le caratteristiche modificazioni graduate dell’eccitabilità che accompagnano, in senso sia facilitatorio sia inibitorio, gli stimoli riflessogeni; queste stesse modificazioni, e un’acuta analisi dei fenomeni di sommazione spaziale e temporale, lo portarono al fondamentale concetto di sinapsi. Sempre lo studio quantitativo permise a Sher;ington di considerare i motoneuroni spinali come la ‘via finale comune’ al cui livello avviene la somma algebrica tra le azioni sinaptiche di diversa origine (segmentaria e soprasegmentaria) e di differente segno (eccitatorio ovvero inibitorio), alle quali essi sono simultaneamente sottoposti. Com’è perspicacemente illustrato nella fondamentale monografia The integrative action of the nervous system (1906), si tratta di un esempio di quei processi integrativi che sono alla base della comprensione dei meccanismi funzionali del sistema nervoso centrale.
Il triodo e il tubo a raggi catodici entrarono nella strumentazione neurofisiologica poco dopo il 1920, per opera specialmente di J. Erlanger e H.S. Gasser, di E.D. Adrian, di B.H.C. Matthews, e diedero un potente impul;so allo studio dei fenomeni bioelettrici del sistema nervoso. L’approccio elettrofisiologico fornì agli sperimentatori una grandezza fisica misurabile, il potenziale bioelettrico, strettamente correlata alle operazioni nervose, e permise così di accostarsi direttamente all’attività funzionale degli aggregati neuronici, sia nel suo aspetto spontaneo sia in quello evocato da stimoli periferici o centrali. Finalmente il neurofisiologo era libero dalla limitazione di dover inferire i processi in atto nei centri unicamente dalle modificazioni funzionali che in conseguenza appaiono nei muscoli o nelle ghiandole.
La descrizione funzionale delle varie aree recettrici e associative della corteccia cerebrale, a conferma e completamento di quella anatomica, è un esempio delle conseguenze di questo metodo; un altro esempio è dato dall’enorme sviluppo dell’elettroecenfalografia, la quale, sia come strumento di ricerca pura sia come indirizzo applicativo, non avrebbe certamente potuto assumere la presente importanza se fosse rimasta legata alle tecniche, essenzialmente galvanometriche, usate da H. Berger. L’impiego delle tecniche microfisiologiche dal canto suo permise lo studio diretto dei fenomeni nervosi unitari; esso ebbe inizio a livello extracellulare verso il principio degli anni 1930 su fibre nervose periferiche e poi, sulla fine dello stesso decennio, anche centrali; a partire dagli anni 1950 (con qualche anticipo per le grosse strutture assoniche e gangliari degli Invertebrati), il metodo si estese anche alle registrazioni unitarie intracellulari. L’approccio diretto alla vera ‘unità analitica’ del sistema nervoso divenne realtà: non è un caso che molti tra i massimi cultori dello studio microfisiologico della fisiologia integrativa, come per es. i due premi Nobel R. Granit e J.C. Eccles, siano stati allievi diretti di Sherrington.
Le stesse tecniche elettro- e microfisiologiche hanno consentito rilevanti sviluppi alla n. generale. Oltre ad avere dimostrato la sostanziale esattezza delle concezioni ottocentesche sulla fisiologia della fibra nervosa, esse hanno in gran parte chiarito i meccanismi generali dell’attivazione recettoriale e quelli della trasmissione sinaptica. Il problema sinaptologico, che per le giunzioni centrali può dirsi coevo con l’affermarsi della teoria del neurone e con l’uso fattone da Sherrington, per le giunzioni tra fibre nervose periferiche e organi effettori sorse in realtà assai prima, e in sede speculativa fu affrontato dallo stesso Du Bois-Reymond. Egli suggerì correttamente le due spiegazioni teoricamente possibili, e cioè che l’attivazione postgiunzionale sia dovuta allo stesso potenziale di azione pregiunzionale agente come stimolo (‘teoria elettrica’ della trasmissione), ovvero che detto potenziale non agisca di per sé ma operi determinando alle estreme terminazioni assoniche (i bottoni sinaptici) la liberazione di una sostanza chimica elaborata dal metabolismo del neurone pregiunzionale; viene dunque introdotto con chiarezza il concetto di mediatore chimico, che agisce per contatto sulla membrana dell’elemento postgiunzionale modificandone le caratteristiche di permeabilità ionica e quindi il suo livello di polarizzazione elettrica («teoria chimica» della trasmissione).
Attraverso tappe legate specialmente all’opera di R.T. Elliott (1877-1961), di H.H. Dale, di O. Loewi e di W.B. Cannon per le giunzioni neuroeffettrici, a quella di B. Katz e di Eccles per le giunzioni centrali, la teoria chimica può dirsi comprovata. L’indagine contemporanea è rivolta all’identificazione delle varie sostanze mediatrici, eccitatorie e inibitorie, nonché alla comprensione dei meccanismi e della sede specifica della loro produzione e della loro azione postgiunzionale. In questi campi, contributi essenziali stanno affluendo dall’applicazione delle tecniche microchimiche ed elettro-microscopiche. Va inoltre sottolineata l’importanza fondamentale che gli studi sull’attivazione sinaptica rivestono non solo per la n. generale ma anche per quella speciale. Il modello più evoluto di neurone che da essi risulta è infatti quello di un elemento capace di produrre segnali elettrici (i potenziali d’azione) quando lo stato di eccitamento indotto al suo estremo somatodendritico da sostanze chimiche trasmettitrici liberate dalle terminazioni sinaptiche di altri neuroni supera un certo valore soglia; i segnali sono condotti lungo l’assone con un meccanismo elettrico di autopropagazione, ma a loro volta determinano la liberazione di sostanza trasmettitrice a livello delle ramificazioni assoniche terminali, che mediante i bottoni sinaptici entrano in rapporto con altri neuroni ancora. Si alternano così, nell’attivazione dei circuiti neuronici, fasi chimiche e fasi elettriche. A esse sono rispettivamente riferibili la ‘decisione’ di originare un segnale e la propagazione di quest’ultimo. Il segnale è in sé invariabile, poiché segue la legge del tutto-o-nulla, e quindi può essere modulato solo in frequenza; una volta che sia generato, esso «deve» percorrere tutto l’assone. La sua generazione iniziale tuttavia avviene per un processo graduato di sommazione algebrica di effetti sinaptici elementari, di diversa origine e segno, ed è quindi il risultato di una tipica integrazione. È chiaro che le caratteristiche specifiche e le prestazioni dei sistemi costruiti con elementi neuronici sono imposte dalle relazioni reciproche tra gli elementi stessi. Tali relazioni a loro volta sono funzione del numero, della disposizione e della natura dei contatti sinaptici.
L’evoluzione del pensiero neurofisiologico ha consentito di elaborare modelli funzionali che hanno quale riferimento operativo gli schemi utilizzati nei programmi di lavoro per computer. In sostanza, l’approccio informatico è uno strumento per disegnare modelli interpretativi dei circuiti neuronici su base elettronica, consentendo l’analisi delle funzioni cerebrali superiori e dei processi integrativi essenziali per comprendere la genesi della risposta neurofisiologica nella sua unitarietà.
Per lungo tempo lo studio del sistema nervoso escluse dal proprio oggetto i fenomeni psichici, in quanto conoscibili solo per via introspettiva o per considerazioni analogiche, e in quanto più di ogni altro fenomeno difficili da ricondurre a leggi causali: è ovvio che l’impostazione metodologica della fisiologia moderna porta necessariamente a trascurare tutti i fenomeni non passibili di determinazione quantitativa. Appare quindi giustificato far risalire l’inizio dello studio delle ‘attività nervose superiori’ (come si preferisce chiamarle per paura di cadere nell’antropomorfismo) ai primi tentativi di fornire misurazioni di processi psichici, anche se per essi si ricorse ai dati dell’introspezione e furono pertanto limitati all’Uomo. Si deve ricordare a tale proposito l’opera di E.H. Weber, che fin dal 1834 cercò di stabilire relazioni quantitative tra l’intensità degli stimoli e quella delle sensazioni che essi provocano.
Tali relazioni, approfondite intorno al 1860 da G.T. Fechner, sono descritte da quella che è comunemente nota come legge di Weber-Fechner. Partendo da questo esempio H. Ebbinghaus iniziò tra il 1880 e il 1890 lo studio sperimentale della memoria, notando la capacità ritentiva di vari soggetti posti di fronte a serie di numeri o di parole variamente strutturate e presentate. Inevitabilmente, anche se sperimentali, i dati così raccolti hanno un carattere descrittivo e fenomenologico e interessano quindi più la psicologia che la fisiologia; lo stesso si può dire delle conseguenze della pura osservazione comportamentale, un metodo d’indagine psico;logica che sorse poco dopo (in contrap;posizione a quello introspettivo) e che è all’origine delle varie correnti behavioristiche della psicologia del 20° secolo.
L’opera di Pavlov aprì all’indagine fisiologica anche i meccanismi delle attività psichiche superiori grazie alla sua scoperta dei riflessi condizionati (➔ riflesso). Attraverso lo studio dei correlati organici (dapprima solo vegetativi, poi anche somatici e comportamentali) posti in essere da opportune associazioni di stimoli, essa permise di esteriorizzare in una certa misura lo svolgersi di processi psichici, e quindi di ricercarne la sede e analizzarne le componenti, associando al condizionamento un’analisi sperimentale fondata su lesioni centrali ovvero anche, da quando le tecniche di derivazione elettrofisiologica e quelle neurochimiche e neurofarmacologiche sono entrate in uso, su registrazioni dell’attività elettrica corticale e profonda, su trattamenti con sostanze inibitrici o attivatrici del metabolismo cellulare ecc. È chiaro che lo stabilirsi di un condizionamento implica una partecipazione estesa di processi psichici fondamentali, come l’attenzione, l’apprendimento, la memoria.
Per quanto riguarda l’era post-pavloviana della psicofisiologia occorre ricordare K.S. Lashley (1890-1958), che dai risultati dei suoi tentativi di identificare il substrato neurale dei processi di condizionamento fu portato a opporsi al concetto di localizzazione delle funzioni psichiche, e a favorire quello opposto della ‘totipotenza’ della corteccia. Secondo Lashley le lesioni corticali acquisterebbero rilevanza funzionale in rapporto alla loro estensione, più che alla loro sede (‘azione di massa’ della corteccia). Anche se al termine della sua lunga attività di sperimentatore Lashley dovette in parte ricredersi, resta vero che questa impostazione ebbe un grande significato nello sviluppo del pensiero psicofisiologico, poiché favorì le indagini tese alla ricerca del ‘come’, cioè del meccanismo del fenomeno, rispetto a quelle dirette all’identificazione del ‘dove’, cioè della sua sede. Di fatto non sarebbe solo facile schematismo sintetizzare gran parte dell’evoluzione storica della psicofisiologia postpavloviana come un succedersi e un accavallarsi d’indirizzi localizzatori e antilocalizzatori, i primi esposti al pericolo di ritenere esauriente una spiegazione puramente topografica, i secondi a quello di appagarsi di schemi funzionali disancorati da un substrato organico e quindi destinati a rimanere teorici e astratti. D’altra parte, più che da ricerche localizzatorie di carattere classico (cioè rivolte ai livelli regionali o nucleari) prospettive fertili alla psicofisiologia si direbbero aperte dai tentativi d’indagare le attività nervose superiori ricostruendo le fasi e i modi della loro comparsa onto- e filogenetica, ovvero (secondo un approccio del tutto diverso) portando lo studio al livello cellulare e sinaptico, per ricercarvi le tracce morfologiche, biofisiche e biochimiche delle due forme di attività nervose superiori più ricche di potenzialità evolutive, cioè della memoria e dell’apprendimento. I metodi di indagine psicofisiologica fruiscono di procedure di auto- ed eterovalutazione atte a definire le condizioni psicofisiche dell’individuo sottoposto a esame e, nel contempo, si giovano dell’analisi strumentale di segnali biologici (biosegnali) ricavati dallo studio di organi e apparati nel corso di opportune indagini. A completare il percorso conoscitivo dell’indagine neurofisiologica si affianca, tra la fine degli anni 1960 e l’inizio degli anni 1970, il settore delle neuroscienze ed estende lo studio delle funzioni neurofisiologiche basandosi su un insieme di nuove tecniche di indagine in grado di valutare l’attività di singoli neuroni, le modificazioni metaboliche coinvolgenti un singolo canale del sodio (tecnica del patch clamp), la risposta in vivo del sistema nervoso (tomografia computerizzata, risonanza nucleare magnetica, tomografia a emissione di positroni), la possibilità di risposta biofisica e biochimica nel corso di ricerche mirate a isolare mediatori chimici e loro interazioni su recettori di membrana.