Coefficiente che moltiplicato per l’aumento (o la diminuzione) iniziale di un fenomeno (per es. gli investimenti), dà la misura dell’aumento (o diminuzione) di altro fenomeno alla produzione del quale il primo fenomeno contribuisce (nell’ipotesi suddetta, il reddito globale) ovvero, come più comunemente si dice, il rapporto tra il secondo termine e il primo.
Il concetto di m., enunciato per la prima volta da A.C. Pigou (che ne fece però risalire l’idea a W. Bagehot), fu elaborato durante la crisi del 1929 da R.F. Kahn e altri a proposito della spesa pubblica diretta a combattere la disoccupazione, ma è valido per analizzare qualsiasi processo a catena mediante il quale una spesa originaria provoca ripercussioni che ne moltiplicano gli effetti e si deve soprattutto a J.M. Keynes la sua generalizzazione. Fu Keynes infatti che inserì la teoria del m., posta in termini monetari, in un complesso organico che costituisce la dottrina macroeconomica moderna e permette di integrare le teorie tradizionali. Per capire il processo di amplificazione degli effetti di una spesa pubblica, basta pensare che la spesa stessa, comunque investita, si traduce necessariamente in un aumento di rendite, interessi, salari, stipendi e profitti per tutti coloro che partecipano all’attività con essa realizzata, e quindi in un incremento dei loro consumi, il che fa sì che la spesa complessiva risulti maggiore di quella pubblica iniziale e a sua volta provochi un accrescimento di reddito per tutti coloro che partecipano alla produzione dei beni di consumo richiesti in più (nonché di quelli strumentali necessari alla loro produzione) e così via per ondate successive.
Dato che questo processo poggia sulla domanda di beni di consumo provocata dalla formazione di nuovo reddito, si ha come conseguenza che il m. è più alto quanto maggiore è la percentuale del reddito che si destina al consumo e viceversa. Questa relazione è espressa nella formula k=1/s=1/(1−c), in cui k è il m., s la propensione marginale al risparmio e c la propensione marginale al consumo, dato che le due suddette propensioni sono, in linguaggio keynesiano, le percentuali del reddito rispettivamente dedicate al risparmio e al consumo, che sommate insieme ricostituiscono l’unità del reddito stesso. Per esemplificare, se si risparmia il 20% del reddito e quindi se ne consuma l’80%, il m. sarà uguale a 5, reciproco della propensione al risparmio, 1/5. L’altezza del m. degli investimenti pubblici – supposti immutabili quelli privati – varia infatti, come risulta dalla formula, in ragione diretta al variare della propensione marginale al consumo e in ragione inversa al variare di quella al risparmio. Se quindi viene speso un milione di euro in lavori pubblici, questo nuovo investimento provoca un primo aumento del reddito nazionale di un milione; e se la propensione al consumo è, come s’è detto, 0,80, il consumo totale salirà di 800.000 euro; le imprese produttrici di beni di consumo vedranno perciò crescere di altrettanto (secondo aumento) i loro redditi e a loro volta spenderanno 640.000 euro più di prima e così via fino a che il reddito totale risulterà accresciuto di 5 milioni di euro (1 milione moltiplicato per 5) in confronto a quello che era prima dell’investimento.
Considerando solo il mercato dei beni, perché il m. funzioni senza che si producano strozzature o rincari dei costi di produzione occorre: che siano disponibili i fattori di produzione, compresa la mano d’opera, nella quantità necessaria; che i disoccupati riassorbiti dalla nuova produzione possano liberamente disporre del loro intero reddito per acquistare beni, senza dover provvedere a estinguere debiti accesi nel periodo della disoccupazione; che non aumenti la preferenza per la liquidità; che la nuova domanda si rivolga prevalentemente verso il mercato interno; che l’aumento della spesa statale non provochi effetti inflazionistici (il che sarebbe inevitabile se la spesa avvenisse in una situazione di piena occupazione) e che gli investimenti pubblici non facciano concorrenza a quelli privati. Inoltre è da tener presente che per Keynes il m. è una relazione fuori del tempo tra l’investimento e il consumo attraverso il reddito (m. istantaneo), ma che naturalmente, perché le mutazioni suddette del reddito nazionale si verifichino, occorre un certo tempo, più o meno lungo.
L’interpretazione temporale, seriale o dinamica si deve a J.B. Clark e a F. Machlup che vedono il m. come una proporzione tendenziale che si realizza progressivamente attraverso una serie di spese scaglionate nel tempo. Periodo di propagazione del reddito è detto allora lo spazio temporale medio che separa un aumento della domanda di beni di consumo dal precedente analogo aumento e, se si assume tendente all’infinito il numero di detti periodi, il m. che ne risulta è detto pieno, mentre quando il numero assunto dagli stessi è limitato il m. si dice tronco (P.A. Samuelson). Dall’analisi del periodo di propagazione del reddito (Machlup, B. Nurkse, R.M. Goodwin) risulta poi come la lunghezza dei periodi di adattamento derivi dalla velocità di reazione, a sua volta determinata da condizioni psicologiche, istituzionali e tecniche, e come qualsiasi ritardo della spesa sull’incasso del reddito agisca da freno al m. e dia al movimento progressivo un carattere puramente tendenziale.
Alla teoria del m. non sono mancate critiche (in particolare in Italia, R. Benini, C. Bresciani Turroni e C. Gini), soprattutto per i pericoli inflazionistici insiti nella sua applicazione e perché la sua formula condurrebbe a un m. infinitamente grande nell’ipotesi di un reddito monetario interamente speso in consumi, ossia di una propensione marginale al consumo uguale all’unità (ma va ricordato che il m. è un’entità macroeconomica riferita al complesso dei consumatori e che quindi tutt’al più potrebbe parlarsi di propensione marginale al consumo uguale a 1 soltanto per i neoccupati e non per tutto il complesso della popolazione). Non si deve però dimenticare che la teoria del m. è stata formulata sulla base di alcune ipotesi semplificatrici e che non potrebbe quindi trovare verifica in una situazione diversa da quella ipotizzata. È bene sempre ricordare le condizioni dal cui verificarsi Keynes faceva dipendere la validità del m. dell’investimento in un’economia sottoccupata, quando al finanziamento della spesa pubblica si provveda con creazione di nuovo potere d’acquisto, e cioè: che gli investimenti privati non mutino; che lo Stato non riduca gli effetti della spesa pubblica di investimento con prelievi finanziari (ipotesi assolutamente irrealizzabile ma che serve a semplificare di molto il problema); che il m. funzioni in un mercato chiuso (mentre di fatto i mercati sono aperti agli scambi con l’estero); che la propensione marginale al consumo sia costante nello spazio (mentre in realtà varia da settore a settore di un sistema economico); che la stessa sia costante nel tempo (mentre è noto che con il crescere dell’occupazione e quindi del reddito tende a diminuire).
In particolare al m. dell’investimento, sia istantaneo sia seriale, si è voluto contrapporre il m. della spesa (od over-all multiplier) per tener conto non soltanto degli effetti di una spesa pubblica sul reddito attraverso il consumo, ma anche di quelli attraverso l’investimento. Bisogna tener presente infatti che gli effetti del m. sono accentuati o attenuati dal fatto che gli investimenti privati non restano in realtà immutabili quando variano quelli pubblici, ma risultano a loro volta incoraggiati (o scoraggiati) dalle variazioni della domanda dei consumatori: entra cioè in gioco il principio di accelerazione di J.M. Clark, stimolando una domanda derivata da parte dei produttori (o riducendo quella in atto), e per questo P.A. Samuelson ha introdotto nei suoi modelli accanto al m. un coefficiente di accelerazione (rispettivamente α e β). Lo stesso Samuelson, J.W. Angell, O. Lange e altri parlano pure di un m. composto (cumulative o compound multiplier), in cui al posto della propensione marginale al consumo figura la propensione marginale alla spesa per consumo e per investimento. Questo m. della spesa, come quello keynesiano dell’investimento, non tiene conto del fatto che lo Stato, una volta messo in moto con emissioni monetarie il processo di moltiplicazione, finisce sempre per ridurre con prelievi finanziari gli effetti positivi provocati dal m. sul reddito, anche se può neutralizzare poi in parte questa riduzione con la spesa del prelievo stesso. È stata quindi elaborata una formula che prende in considerazione, oltre alle variazioni della spesa privata, anche quelle del prelievo finanziario e della successiva spesa dello stesso da parte dello Stato (m. della spesa al netto del fattore finanziario).
Molti economisti (tra cui C. Clark, R.F. Harrod, G. von Haberler, L.A. Metzler, H. Neisser, J. Robinson, oltre ai già citati Goodwin, Machlup e Nurkse) hanno tentato, avvalendosi di strumenti teorici forniti dallo stesso Keynes, di passare dal m. keynesiano, legato all’ipotesi di un mercato chiuso, a un m. della spesa in mercato aperto, più aderente alla realtà odierna in cui ogni paese scambia beni e servizi con il resto del mondo. È stato suggerito (Goodwin e J.S.Chipman) il ricorso a un m. multisettoriale, che dovrebbe permettere di tener conto della diversa propensione marginale al consumo dei vari gruppi sociali. Assunta la formula del m. quale misura dell’effetto prodotto in ogni dato momento e come limite finale al quale l’effetto totale tende ad avvicinarsi, sono stati elaborati anche m. dinamici (Lange), che cercano appunto di misurare gli effetti e i limiti di questi effetti nel tempo.
A ben guardare però i vari apporti e affinamenti teorici successivi non hanno arricchito di molto né tanto meno invalidato l’originaria teoria keynesiana, i cui limiti erano stati voluti e resi espliciti dallo stesso Keynes proprio al fine di fornire uno strumento concettuale semplice. Strumento logico indispensabile, ormai, nell’analisi della formazione del reddito nazionale, il m. può tuttavia servire anche per determinare empiricamente gli effetti sull’occupazione e sul reddito di una misura di politica economica e in tal senso va usato con molta cautela, in conseguenza appunto delle ipotesi semplificatrici poste alla sua base, in modo da evitare di prevedere conseguenze che risultino poi non confermate dalla realtà.
Applicando la stessa formula keynesiana ma dando significato diverso ai suoi componenti, si possono studiare anche le relazioni tra l’aumento dell’occupazione, conseguenza immediata del nuovo investimento statale, e l’occupazione complessiva che ne risulterà aggiungendo al primo incremento quelli secondari dovuti al processo di moltiplicazione (m. dell’occupazione), nonché le relazioni tra il credito ricevuto e quello creato dalle banche ecc. A proposito di queste ultime sono molto usati: il m. dei depositi, coefficiente che moltiplicato per la cifra originaria dei depositi reali ricevuti da una banca dà l’ammontare complessivo di tutti i depositi reali, fittizi e riflessi che ne deriva (o il rapporto tra il secondo termine e il primo); il m. del credito, coefficiente che moltiplicato per il credito ricevuto da una banca attraverso depositi reali dà l’ammontare del credito dalla banca a sua volta concesso (o il rapporto tra il secondo termine e il primo): supposto, per es., che la banca voglia tenere in cassa una riserva pari al 20% dei suoi impegni, il m. dei depositi risulterebbe 5 e quello del credito 4 (ossia 100 milioni di depositi reali finirebbero per dar luogo a una massa complessiva di depositi di 500 milioni e permetterebbero la concessione di 400 milioni di credito) in quanto, chiamata r la percentuale di riserva, i due suddetti m. si esprimono rispettivamente con le formule 1/r e (1/r)−1; il m. della base monetaria, coefficiente che moltiplicato per la base monetaria dà l’offerta di moneta (pari al circolante più i depositi) ed è pari a (1+c)/(c+r ), dove c è il rapporto tra circolante e deposito.
Nei modelli econometrici (➔ modello), il m. è definito come la variazione di una variabile endogena conseguente a una variazione unitaria di una variabile esogena. Nell’ambito dei modelli econometrici dinamici, si distinguono m. di impatto, m. parziali e m. totali a seconda che l’effetto della variazione unitaria della variabile esogena venga osservato immediatamente, dopo un certo numero di periodi di tempo, ovvero una volta che il processo dinamico di aggiustamento si sia completamente esaurito.
Meccanismo avente lo scopo di trasmettere il movimento fra due organi rotanti, uno conduttore e l’altro condotto, in modo che quest’ultimo ruoti con velocità angolare maggiore del primo; il m. ha, così, finalità opposte a quelle del riduttore.
Il rapporto di moltiplicazione è il rapporto, sempre maggiore dell’unità, fra la velocità angolare dell’organo condotto e quella dell’organo conduttore. Il m. può essere a catena, a cinghia piatta o trapezoidale o, più comunemente, a ingranaggi. Nella bicicletta, si indica con il termine moltiplica il rapporto fra il numero dei giri della ruota dentata solidale con i pedali (detta anch’essa moltiplica) e quello del rocchetto fissato sul mozzo della ruota posteriore: la moltiplica e il raggio della ruota posteriore determinano il passo, cioè il percorso sviluppato per un giro di pedaliera, poiché per ogni giro di questa la ruota compie un percorso pari al prodotto della propria circonferenza per la moltiplica.
Dispositivo che serve ad amplificare una grandezza fisica, moltiplicandone il valore per un opportuno fattore di moltiplicazione.
Resistore che, posto in parallelo a un amperometro, riduce l’intensità della corrente elettrica in questo, moltiplicandone la portata per un assegnato fattore. Comunemente è chiamato shunt.
Dispositivo elettronico, costituito da resistori, transistori e amplificatori operazionali, utilizzato per effettuare il prodotto tra funzioni variabili nel tempo. M. elettronico Particolare tubo elettronico nel quale, sfruttando il fenomeno dell’emissione secondaria, si ottiene la graduale moltiplicazione del numero di elettroni emessi da un catodo per effetto termoelettronico, fotoelettronico ecc. Esso è costituito (fig.) da un anodo a, da un certo numero di elettrodi di moltiplicazione b detti dinodi o anodi secondari (di forma opportuna e opportunamente posti) e da un catodo c, racchiusi in un tubo di vetro nel quale è praticato un vuoto molto spinto. Il m. è connesso a un generatore di differenza di potenziale in modo che il catodo risulti negativo rispetto al primo dinodo, questo risulti negativo rispetto al secondo, e così via sino all’anodo, con salti di potenziale generalmente uguali fra elettrodo ed elettrodo. Un elettrone emesso da c, colpendo il primo dinodo dà luogo a emissione secondaria; il processo si ripete in tale modo da dinodo a dinodo sino all’anodo, e in ogni fase il numero di elettroni posti in gioco aumenta rispetto alla fase precedente: la corrente elettronica complessiva nel circuito anodico risulta, rispetto alla corrente elettronica emessa dal catodo, moltiplicata per un fattore mn, dove m (coefficiente di emissione secondaria o fattore di moltiplicazione) è il numero di elettroni generati da un elettrone nel salto da un dinodo all’altro e n è il numero dei dinodi. Il dispositivo è detto più propriamente fotomoltiplicatore se la sorgente c è un fotocatodo.
Nella tecnica fotografica, sistema ottico a convergenza negativa che, inserito tra il corpo di una macchina fotografica e l’obiettivo, determina un incremento della lunghezza focale di questo, dando luogo, però, sia a una perdita di luminosità sia a uno scadimento della qualità dell’immagine fotografata.
Dispositivo elettronico mediante il quale si attua la trasformazione di tensioni o correnti elettriche sinusoidali, di frequenza f, in tensioni o correnti di frequenza nf, dove n è un numero intero positivo, detto fattore di moltiplicazione; a seconda che sia n=2, 3 ecc., si parla di duplicazione, triplicazione ecc., di frequenza. La moltiplicazione di frequenza è di uso corrente specialmente in radiotecnica, ove è praticata allo scopo di produrre correnti a frequenza molto alta a partire da oscillatori a frequenza relativamente bassa. La base del funzionamento del m. è costituita dall’uso di un circuito non lineare, che, distorcendo la forma della tensione o corrente data, fa comparire in essa delle armoniche; un circuito risonante provvede poi a esaltare, tra queste, quella desiderata. Sono stati costruiti m. statici, realizzati mediante raddrizzatori o circuiti magnetici in saturazione, noti anche come trasformatori statici, e m. elettronici. Questi ultimi sono generalmente costituiti da un amplificatore in classe C; il circuito d’uscita è costituito da un circuito oscillante accordato sull’armonica desiderata della tensione data, immessa nel circuito d’ingresso. Data la forte distorsione di un amplificatore di tal genere, si possono agevolmente realizzare fattori di moltiplicazione molto alti, sino a parecchie decine. Se tuttavia occorre mantenere il rendimento di potenza a valori non troppo bassi non conviene andare oltre la triplicazione di frequenza in un singolo m.: valori comunque alti del fattore di moltiplicazione potranno allora ottenersi disponendo più duplicatori o triplicatori uno di seguito all’altro (si parla allora di m. a più stadi).
Dispositivo usato nelle tecniche di processamento del segnale atto a eseguire la moltiplicazione di due numeri espressi in codice binario. A seconda delle applicazioni, la moltiplicazione può essere effettuata con tecniche software o con dispositivi hardware. Dal punto di vista dell’algoritmo usato, un m. numerico può essere realizzato con procedimenti di tipo sequenziale o di tipo combinatorio. Nel primo caso si hanno i m. seriali, nei quali il prodotto è calcolato con operazioni di somma intercalate da passi di scalamento sul registro accumulatore. Nel secondo caso si hanno i m. paralleli, nei quali il prodotto è ottenuto in un solo passo con un procedimento logico diretto a partire dai due fattori. Esistono anche m. realizzati con altre tecniche che in alcuni casi possono essere considerate intermedie fra quella seriale e quella parallela. Il m. numerico è un elemento essenziale presente nei dispositivi DSP (Digital Signal Processors).
Circuito raddrizzatore mediante il quale, data una tensione alternata V=E cosωt, si ottiene una tensione ondulata, di valore di cresta (a vuoto) nE, dove n è il fattore di moltiplicazione.