In fisica, è detto delle radiazioni elettromagnetiche percepite dall’occhio, corrispondenti al campo di lunghezze d’onda compreso tra i limiti approssimativi di 400 e 800 nm.
L’astronomia nel v., o astronomia v., o astronomia ottica, è il settore dell’astronomia che studia gli astri utilizzando la luce v. che da essi proviene. I soggetti in studio sono i corpi del Sistema solare, le stelle, le nebulose, le galassie. Posizioni e morfologia degli astri vengono osservate mediante grandi telescopi, mentre la composizione chimica, le condizioni fisiche (temperatura, stato neutro o ionizzato ecc.) e il moto relativo alla Terra degli astri vengono studiati con particolari spettroscopi montati nel piano focale dei telescopi. Fino almeno alla metà dell’Ottocento l’astronomia si identificò con l’astronomia nel visibile.
1.1 L’antichità e il Medioevo. Intorno al 3000 a.C. i Babilonesi avevano già catalogato un certo numero di stelle e costellazioni. In Inghilterra (2500-1700 a.C.) veniva edificato il complesso megalitico di Stonehenge, che serviva probabilmente a seguire il moto del Sole, della Luna e degli altri corpi celesti in modo da segnare lo scorrere del tempo. Della stessa epoca e dello stesso tipo sono le osservazioni fatte dagli Indiani dello Yucatan a El Caracol. I Greci introdussero la geometria nella descrizione degli eventi astronomici. A Rodi, intorno al 150 a.C., Ipparco costruì un grande osservatorio per la misura accurata delle posizioni delle stelle, e classificò per primo circa 1000 stelle in base alla loro luminosità apparente dividendole in 6 classi. Nel 2° sec. d.C., Tolomeo estese il lavoro di Ipparco e introdusse, nell’Almagesto, un modello di Universo geocentrico, basato su sfere concentriche con centro nella Terra.
Osservatori per lo studio accurato dei moti degli astri vennero costruiti a Kyongju (Corea del Sud) nel 632, a Damasco e Baghdad intorno al 10° sec., a Marāgha (Iran) nel 1260, a Samarcanda nel 1428. Qui il principe Ulūgh Beg compilò un grande catalogo di stelle. Tutte queste osservazioni obbligarono gli studiosi a modificare il modello tolemaico, rendendolo sempre più complesso. 1.2 La rivoluzione osservativa. In Europa nel 1576 fu costruito l’osservatorio di Uraniborg da parte del re di Danimarca per l’astronomo T. Brahe. Qui Brahe osservò con grande precisione il moto dei pianeti, e introdusse una sostanziale modifica al sistema tolemaico, mantenendo la Terra al centro dell’Universo, ma ipotizzando che alcuni pianeti ruotassero intorno al Sole, che a sua volta ruotava intorno alla Terra. Le tavole delle posizioni dei pianeti compilate dalle osservazioni di Brahe permisero a G. Keplero, suo assistente, di ricavare le leggi generali che regolano il moto dei pianeti (leggi di Keplero). La rivoluzione interpretativa iniziò nel 1543, con la pubblicazione del modello eliocentrico di N. Copernico in De revolutionibus orbium coelestium.
La rivoluzione osservativa e la conferma sperimentale arrivò grazie a G. Galilei, che per primo introdusse il telescopio nelle osservazioni astronomiche (1609). In particolare, l’osservazione delle quattro lune di Giove e delle fasi di Venere rappresentò un elemento sperimentale decisivo in favore del modello copernicano, gradualmente accettato come descrizione semplice e corretta dei fenomeni celesti. Nel 1603 J. Bayer introdusse la moderna nomenclatura delle stelle, individuate da una lettera dell’alfabeto greco seguita dal nome latino della costellazione di appartenenza.
Nel 1789 W. Herschel costruì un telescopio a specchio metallico di 122 cm di diametro, con focale di 17 m; con questo cominciò l’osservazione sistematica di tutto il cielo, realizzando il primo atlante telescopico del cielo. Si può convenzionalmente fissare a questa data l’inizio della moderna astronomia nel visibile. 1.3 I cataloghi di stelle e di oggetti non stellari. A metà dell’Ottocento l’astronomo tedesco F.W.A. Argelander, presso l’osservatorio di Bonn, compilò il Bonner Durchmusterung (BD), un importante catalogo con le posizioni di 324.189 stelle, ottenuto mantenendo il telescopio fermo e registrando l’attimo in cui le stelle passano nel centro del campo di vista. Il catalogo BD contiene le stelle fino alla nona magnitudine con declinazione compresa tra −2° e 90°. Verrà poi esteso fino a declinazione di −62° a Cordoba (catalogo CD) e successivamente fino al polo Sud (1920).
Alla fine del 18° sec. l’astronomo francese C. Messier aveva compilato una lista di circa 100 oggetti non stellari: nebulose, ammassi di stelle, galassie. I più interessanti oggetti accessibili all’osservazione mediante piccoli telescopi sono contenuti in questa lista, e individuati dalla lettera M seguita dal numero d’ordine nella lista. La lista di oggetti non stellari fu successivamente estesa a oltre 5000 oggetti da W. Herschel e da suo figlio John. In seguito, intorno al 1890, J.L.E. Dreyer pubblicò il New General Catalogue, che con le aggiunte successive arrivò a circa 15.000 oggetti non stellari, individuati dalla sigla NGC seguita dal numero d’ordine. Nel 1845 W. Parsons (lord Rosse) completò il suo grande telescopio, con uno specchio da 185 cm di diametro e una focale di circa 16 m. Con questo esaminò molte delle nebulose scoperte da Herschel, scoprendo la struttura a spirale di alcune di esse. 1.4 Tecniche fotografiche e spettroscopiche. Nel 19° sec. vennero applicate all’astronomia le tecniche fotografiche e spettroscopiche. Ciò segna l’inizio della moderna astrofisica, in cui, grazie a sofisticate apparecchiature di analisi quantitativa spettroscopica e fotometrica, si studia lo stato fisico-chimico dei corpi celesti, e si costruiscono modelli che spiegano le loro proprietà (e non solo le loro posizioni e i loro moti) utilizzando le leggi della fisica applicate alle atmosfere stellari o planetarie. Lo statunitense J. Draper eseguì la prima fotografia della Luna nel 1840, usando un dagherrotipo. In Francia A.-H.-L. Fizeau e L. Foucault fotografarono per la prima volta il Sole nel 1845. Nel 1850 furono eseguite le prime fotografie di stelle da W.C. Bond presso l’Harvard Observatory. Nel 1912 venne completato il catalogo dell’Astronomische Gesellschaft (AGK1), un catalogo di posizioni di stelle fino alla nona magnitudine e con declinazione maggiore di −18°, tutte ottenute usando strumenti di transito. Solo nel 1914 fu realizzato un atlante fotografico completo del cielo, con le Franklin-Adams Charts, basate su 206 fotografie del cielo in cui sono registrate tutte le stelle fino alla 15-esima magnitudine. L’osservazione fotografica del cielo si è evoluta culminando nella realizzazione del National Geographic - Palomar Observatory Sky Survey (POSS) nel 1958.
Alla fine del 19° sec. furono realizzati i primi fotometri astronomici; le tecniche di osservazioni fotometriche si avvalsero poi, dalla fine degli anni 1930, del fotomoltiplicatore. I fotometri a fotomoltiplicatore sono stati perfezionati negli anni successivi, con l’ottimizzazione dei materiali per i fotocatodi e per i dinodi, l’uso di tecniche di conteggio, la riduzione della corrente oscura. Solo negli anni 1970 i tubi fotomoltiplicatori sono stati affiancati da componenti fotosensibili a stato solido (fotodiodi pin, tubi televisivi e CCD) utili per fotometria fotoelettrica. L’introduzione di matrici CCD in astronomia ha rivoluzionato negli anni 1980 le tecniche di misura di immagini astronomiche. Lo sviluppo dei rivelatori è parallelo a quello di telescopi sempre più grandi, inseriti in appositi osservatori.
Una sempre maggiore esigenza di potenziare la raccolta di fotoni portò, all’inizio del Novecento, alla costruzione del telescopio Hooker di Mount Wilson (California), con specchio primario da 100 pollici (2,5 m). Con questo telescopio fu possibile studiare sistematicamente le galassie più vicine e iniziare lo studio della struttura dell’Universo; fu con lo stesso telescopio che nel 1923 E. Hubble scoprì una variabile Cefeide in Andromeda (dimostrandone la natura extragalattica) e nel 1929 la recessione generale delle galassie. Per studiare le galassie lontane era necessaria un’efficienza di raccolta di fotoni ancora maggiore. G.E. Hale iniziò il progetto del telescopio con primario da 200 pollici (5 m) alla fine degli anni 1920, e il telescopio fu operante a Monte Palomar alla fine degli anni 1940. Nel frattempo, negli anni 1930, B. Schmidt aveva inventato il telescopio che porta il suo nome, adatto all’osservazione di ampie aree di cielo. Le lastre fotografiche realizzate utilizzandoli svelano l’esistenza di strutture a larga scala nell’Universo, sfuggite nell’osservazione delle ristrette zone di cielo esplorabili con i grandi telescopi Cassegrain (per lo stato attuale dello sviluppo dei grandi telescopi ottici ➔ telescopio).
L’inizio della spettroscopia astronomica si può far risalire a J. Fraunhofer, che al principio dell’Ottocento usò un telescopio a teodolite e un prisma per analizzare la luce proveniente dal Sole, scoprendo così un incredibile numero di righe scure più o meno intense (➔ Sole). Solo dopo circa quarant’anni G.R. Kirchhoff e R.W. Bunsen riuscirono a interpretare il significato fisico delle righe di Fraunhofer, grazie ai loro esperimenti sull’emissione e assorbimento della luce da parte di corpi freddi e caldi. L’applicazione astronomica di questi risultati fu immediata e di enorme importanza. Ci si rese conto che la spettroscopia forniva l’inaspettata possibilità di studiare la composizione fisica e chimica degli astri distanti. Nello stesso periodo si riconobbe inoltre che la spettroscopia permetteva la stima delle velocità radiali stellari, cioè del moto di allontanamento e di avvicinamento lungo la linea di vista, altra grandezza che si riteneva fino ad allora non misurabile. C. Doppler mostrò infatti che tali velocità producevano uno spostamento della lunghezza d’onda della luce proveniente dalla sorgente in moto. A.-H.-L. Fizeau propose quindi di confrontare la lunghezza d’onda delle righe D del sodio misurate nello spettro della stella con le lunghezze d’onda delle stesse righe prodotte dal sodio in laboratorio. La differenza di lunghezza d’onda avrebbe fornito la velocità radiale della stella. Questo metodo è ancora oggi l’unico utilizzabile allo scopo (➔ spettroscopia).
Il problema sperimentale fondamentale della moderna astronomia nel v. consiste nel convogliare su un rivelatore di luce il maggior numero possibile di fotoni provenienti dalla sorgente celeste, eliminando nel modo più drastico possibile fotoni provenienti da altre sorgenti. Si tratta quindi di realizzare fotometria e immagini delle sorgenti celesti nel modo più accurato e sensibile possibile.
Problemi della rivelazione. L’attuale astronomia nel v. utilizza sofisticati telescopi e rivelatori per studiare gli astri più deboli e distanti. A seconda della magnitudine e dell’apertura del telescopio il flusso di fotoni che viene convogliato nel piano focale varia e si rendono necessari diversi rivelatori, che debbono avere una dinamica molto estesa; per es., nel caso di un telescopio da 4 m di diametro, osservando un pianeta si raccolgono sul piano focale centinaia di miliardi di fotoni al secondo, mentre da una stella di 24-esima magnitudine (il limite di rivelabilità con lastre fotografiche) arrivano in media solo 35 fotoni al secondo. Bassi livelli luminosi rappresentano il caso più comune. Quando il numero di fotoni al secondo in arrivo è basso, le fluttuazioni intrinseche, descritte dalla statistica di Poisson, diventano la principale causa di indeterminazione nelle misure di flusso.
Oltre al problema della scarsezza di fotoni, la possibilità di creare un’immagine intellegibile da questi deboli flussi luminosi è determinata da diversi altri fattori che vanno tutti ottimizzati. Prima di tutto l’effetto della turbolenza atmosferica, che produce distorsioni delle onde luminose provenienti dalla sorgente, causando spostamenti e distorsioni dell’immagine. Conseguentemente, l’immagine di una stella nel piano focale non è più puntiforme, ma viene dispersa in una macchia di dimensioni e posizione variabili. Questo effetto è identificato dal termine inglese seeing. Il discorso cambia per un telescopio operante nello spazio, quindi in assenza di seeing. Qui si possono produrre immagini al limite di diffrazione, che per telescopi di grande diametro è decisamente inferiore al secondo d’arco. La condizione è che le ottiche siano lavorate con sufficiente precisione. Per es., per un telescopio da 2,5 m di diametro, come il Hubble, il limite di diffrazione nel v. è di 1/100 di secondo d’arco.
Per poter osservare correttamente le sorgenti più deboli, il cielo deve essere sufficientemente buio. La principale causa di luminosità notturna della nostra atmosfera (fondo cielo) è la diffusione di luce prodotta a terra (illuminazione di città, per es.). Il telescopio deve quindi essere montato in località ben distanti da città e strade illuminate. Ineliminabile è la luce stellare diffusa dall’atmosfera. Il fondo cielo tipico nei migliori osservatori ha una brillanza di 0,2 fotoni/(s∙m2∙secondo d’arco2∙nm) a 550 nm.
Uscendo dall’atmosfera terrestre rimangono solo il contributo di luce zodiacale e quello della luce stellare non risolta, e la brillanza di fondo cielo può ridursi a circa metà. In un campo di vista di un secondo d’arco questa brillanza di fondo cielo produce una potenza luminosa pari a quella prodotta da una stella di 22-esima magnitudine, e sono quindi necessarie tecniche particolari per osservare le sorgenti più deboli.
Tipi di rivelatori. I rivelatori comunemente utilizzati nell’astronomia nel v. sono il fotomoltiplicatore, la lastra fotografica, i CCD. Mentre il primo è usato per eseguire fotometria di precisione (misure di flusso), gli altri vengono usati per la realizzazione di immagini del cielo (misure di brillanza superficiale). Il fotomoltiplicatore è il cuore del fotometro astronomico.
L’emulsione fotografica è insostituibile tutte le volte che serve un rivelatore di grandi dimensioni: il caso tipico è quello dei grandi telescopi Schmidt, nei quali l’immagine del cielo al piano focale occupa un’area ampia fino a 50 cm×50 cm. Nessun altro rivelatore di immagini può essere così grande. Una tipica emulsione fotografica per astronomia nel v. ha grana molto fine, e una risoluzione di 200 linee per millimetro. La quantità di informazione immagazzinabile in una lastra di grandi dimensioni è enorme, quantificabile in decine di gigabyte. Inoltre, le posizioni delle stelle registrate sulla lastra sono estremamente accurate. La lastra fotografica ha però tre grandi difetti. L’informazione è immagazzinata in modo pittorico, il che è comodo per un’analisi qualitativa; tuttavia per effettuare studi quantitativi si devono usare speciali apparecchiature che seguono la scansione della lastra e la digitalizzano (microdensitometri), rendendo così possibile l’analisi al computer. Questo processo è lento e le macchine non sono disponibili ovunque. L’emulsione fotografica inoltre non è un rivelatore efficiente, a causa del fatto che non basta un solo fotoelettrone prodotto nel grano a creare un catalizzatore di sviluppo. Nei casi migliori solo un 4% dei fotoni incidenti viene effettivamente rivelato. Per confronto, un CCD o un fotomoltiplicatore possono avere facilmente efficienze superiori al 50%. Le osservazioni fotografiche richiedono quindi lunghi tempi di esposizione. L’annerimento della lastra fotografica è una funzione crescente dell’esposizione, cioè del prodotto tra flusso luminoso e tempo di esposizione. Tuttavia questa funzione, detta curva caratteristica, è non lineare: solo in un ristretto intervallo l’annerimento è proporzionale al logaritmo dell’esposizione, mentre per brevi esposizioni si ha sempre un annerimento minimo (nebbia) e per grandi esposizioni si ha un annerimento massimo (saturazione). Inoltre, l’intervallo dinamico (rapporto tra massima e minima intensità luminose registrabili dalla lastra) è piuttosto scarso, dell’ordine di 100. Questi fatti rendono difficile la calibrazione fotometrica della lastra fotografica.
Il CCD è il rivelatore più diffuso nella moderna astronomia. È un componente a stato solido, contenente una matrice che può essere di alcuni milioni di elementi (pixel), ciascuno dei quali è un rivelatore di luce. Si tratta di fotoconduttori intrinseci, nei quali l’arrivo di un flusso di fotoni produce un accumulo di elettroni proporzionale al numero di fotoni raccolto. I pacchetti di elettroni così formati durante l’esposizione vengono poi trasferiti sequenzialmente a una capacità di uscita, dove sono convertiti in una differenza di potenziale. Un amplificatore e un convertitore analogico digitale permettono di misurare e memorizzare digitalmente le cariche raccolte in ciascun pixel, realizzando così un’immagine digitale che può immediatamente venire elaborata e visualizzata da un elaboratore. L’efficienza dei moderni CCD è molto alta (fino all’80%, da confrontare con i pochi per cento di efficienza delle emulsioni fotografiche), e la sensibilità è tale da poter facilmente visualizzare su grandi telescopi sorgenti celesti di magnitudine 28. Inoltre, gli elementi sensibili sono molto lineari (il numero di elettroni è accuratamente proporzionale al numero di fotoni raccolto) e hanno una grande dinamica (ciascun pixel può immagazzinare da pochi elettroni fino a circa un milione) e le caratteristiche sono costanti nel tempo, permettendo così di eseguire un’accurata calibrazione delle immagini acquisite. Le immagini immagazzinate in forma digitale possono essere facilmente trasferite dallo strumento di misura ad altri elaboratori, permettendo così l’esecuzione remota delle osservazioni e l’immediata distribuzione dei dati.
Posizioni, moti propri e caratteristiche spettrali delle stelle sono oggi immagazzinati in cataloghi (files) leggibili da elaboratori, contenenti anche milioni di stelle. Ne sono esempi il catalogo dello Smithsonian Astrophysical Observatory (SAO) contenente coordinate, moti propri, magnitudini e classe spettrale di 260.000 stelle, e il catalogo di riferimento per l’Hubble space telescope, contenente oltre due milioni di stelle. L’accuratezza e la specializzazione delle misure di fotometria e spettroscopia stellare, che trovano una sintesi nel diagramma Hertzsprung-Russel (➔ stella) ha permesso di costruire una completa teoria dell’evoluzione stellare. La morfologia e la dinamica delle galassie esterne è campo di ricerca in espansione, come pure quello più prettamente cosmologico della distribuzione a grande scala delle galassie.
Le tecniche osservative nel v. hanno raggiunto il culmine con il telescopio spaziale Hubble (HST; ➔ telescopio), messo in orbita a una quota di circa 600 km nel 1990, con il quale si possono osservare agevolmente stelle di 26-esima magnitudine in ∼1000 s di esposizione, con risoluzione angolare inferiore al decimo di secondo d’arco (a una distanza di 5000 km HST potrebbe rivelare e risolvere la luce di due lucciole distanti un metro tra loro).