Qualsiasi cosa (segno, gesto, oggetto, animale, persona), la cui percezione susciti un’idea diversa dal suo immediato aspetto sensibile. L’originaria funzione pratica, prevalente ma non esclusiva, è sostituita dalla funzione rappresentativa e s. si identifica con segno.
Prendendo a modello le teorie e i metodi della linguistica strutturale, gli antropologi hanno sempre sottolineato il carattere segnico di ogni sistema di simboli. A partire dagli studi di M. Griaule sui Dogon del Mali, o di E. Evans-Pritchard sulla stregoneria azande, è stata sottolineata l’estrema coerenza dei sistemi simbolici di società non europee, alle cui credenze era stato spesso attribuito carattere asistematico, se non addirittura irrazionale. In seguito si è evidenziato il carattere polisemico di ogni s. (V. Turner). Quelli simbolici, quindi, sarebbero segni che, in specifici contesti, consentono di scorgere diverse dimensioni di senso, non limitandosi cioè a comunicare un messaggio univoco (G. Lewis, S.J. Tambiah). Lo studio del rapporto tra forme simboliche e funzionamento della società ha assunto rilievo centrale fin dai lavori di É. Durkheim, il quale sosteneva il carattere acquisito, e dunque sociale, delle stesse categorie logiche che sottostanno alla classificazione della realtà. Creando le categorie di pensabilità del sociale, i sistemi di credenze avevano dunque una funzione strutturante la realtà sociale e, acquisendo valenze religiose, cementante la coerenza di un sistema sociale. Tali funzioni dei sistemi simbolici sono state poi sottolineate e analizzate dall’antropologia funzionalista, che ha spesso considerato le forme simboliche un riflesso dell’organizzazione sociale in grado di costituire il significato immediato di quelle forme stesse.
Numerosi segni convenzionali sono usati per indicare entità e fenomeni del mondo celeste (tab. 1).
Con ♀ e ♂ si indicano rispettivamente la femmina e il maschio. In genetica si indicano con P la generazione parentale, con F1, F2, F3 le successive generazioni. Negli alberi genealogici umani si indicano con un cerchietto gli individui di sesso femminile, con un quadratino quelli di sesso maschile. Il segno di moltiplicazione × significa ‘incrociato con’. I geni si indicano con s. che per lo più consistono nella iniziale o in una abbreviazione del nome del carattere che determinano. Per es.: w=white (occhio bianco della drosofila); Th o M (talassemia o microcitemia, nell’uomo).
I s. hanno avuto grande importanza nella nascita e nello sviluppo dell’alchimia, peculiare punto di congiunzione di antichissime pratiche artigianali di tipo chimico con elementi filosofici greci (platonismo, pitagorismo e, soprattutto, aristotelismo) e con forme di pensiero più arcaiche, radicate nei miti cosmogonici. L’alchimia medievale, che si fondò soprattutto sull’idea delle corrispondenze tra microcosmo e macrocosmo (l’opera alchemica è associata via via alle scale musicali, ai pianeti, ai numeri, ai miti), produsse una grande quantità di immagini con valore di simboli. L’uso di questi apparati simbolici non sopravvisse al concludersi del periodo alchemico il quale, tuttavia, ha lasciato in eredità alla chimica una notevole serie di pittogrammi, abbreviazioni e monogrammi.
Chimici del 17° e 18° sec. come J.J. Becher, G.E. Stahl e T. Bergman fanno ampio uso di s. nei loro testi. L’esempio più noto di sistematico uso dei s. nella chimica del Settecento è quello della Tabula affinitatum di É.-F. Geoffroy. L’importanza dei s. in questo periodo è da ricercarsi nella mancanza di una nomenclatura sistematica che rendeva complesso e poco pratico l’uso dei nomi tradizionali negli schemi chimici.
La riforma della nomenclatura chimica voluta da A.-L. Lavoisier, A.-F. de Fourcroy e L.-B. Guyton de Morveau (➔ nomenclatura) portò anche a una radicale trasformazione della simbologia chimica che fu promossa da J.-H. Hassenfratz e P.-A. Adet, collaboratori e seguaci di Lavoisier. Parallelamente ai principi della nuova nomenclatura, i s. proposti dai due chimici francesi erano basati sulla composizione delle sostanze, senza riferimenti ai nomi tradizionali. S. semplici erano usati per gli elementi mentre i composti venivano rappresentati da combinazioni di simboli. Il tentativo di razionalizzazione non diede risultati del tutto soddisfacenti, sia perché fu inevitabile una certa commistione tra vecchia e nuova simbologia sia a causa della complessità delle regole grafiche del sistema. Nel 1808 J. Dalton introdusse, nell’ambito della sua teoria atomica, una simbologia per rappresentare gli atomi e le loro combinazioni. Per la prima volta un s. fu associato a un’entità microscopica e, soprattutto, a una definita quantità di materia. Dalton utilizzò i suoi s. per rappresentare la posizione degli atomi nella molecola, dando inizio alla rappresentazione grafica delle formule chimiche che trovò la sua affermazione nella seconda metà dell’Ottocento con la teoria della struttura.
La rappresentazione delle sostanze chimiche per mezzo di segni grafici fu gradualmente abbandonata nei primi decenni del 19° sec. soprattutto perché la scoperta di molte nuove sostanze aveva complicato i s. fino a farli diventare tipograficamente non riproducibili. Nel 1814 J.J. Berzelius propose un sistema di s. che si basava quasi esclusivamente sull’uso di lettere, applicato prima ai minerali, ma successivamente esteso a tutte le sostanze. Nel sistema di Berzelius ogni elemento era rappresentato da una lettera (non metalli) o due (metalli), cui era associata una determinata quantità di sostanza (Berzelius aveva stabilito i pesi atomici di moltissimi elementi). Le formule dei composti erano formate dalle lettere degli elementi, collegate con il segno +, e da numeri indicanti i rapporti di combinazione posti a esponente delle lettere. Il sistema impiegò alcuni anni ad affermarsi ma, a partire dalla metà degli anni 1920 fu adottato nei più importanti testi di chimica. Successivamente venne abolito il segno + tra i s. degli elementi, che da allora furono semplicemente giustapposti tra loro nelle formule dei composti.
Con J. von Liebig, che utilizzò la notazione a deponente anziché a esponente (1834), fu introdotta la forma attuale della notazione chimica. In questa gli elementi chimici vengono sempre indicati con un s. costituito di solito da due lettere del loro nome (l’iniziale e un’altra), generalmente ricavate dal nome latino dell’elemento (Na per il sodio da natrium, Hg per il mercurio da hydrargirium ecc.); solo il s. di alcuni elementi è costituito da un’unica lettera (S per zolfo, C per carbonio ecc.).
Lettera, o insieme di lettere, con la quale convenzionalmente si indica una grandezza fisica o un’unità di misura: per es., l è s. di lunghezza, t di tempo; m di metro. Per i s. delle varie grandezze e unità, nonché dei prefissi moltiplicativi usati per i multipli e sottomultipli delle unità stesse ➔ unità.
Il s. ha a lungo coinciso con il segno ed è stata tale identità a prevalere nella filosofia del 17°-18° sec. soprattutto anglosassone.
Fu I. Kant a proporre la distinzione tra s. e segno, aprendo la via al suo uso estetico. Il s. è per Kant una rappresentazione intuitiva e analogica che del segno non ha l’immotivazione del rapporto tra significante e significato. Ma tale relazione analogica è imperfetta: l’espressione simbolica, pur dotata di proprietà simili a quelle del contenuto, ha in sé determinazioni ulteriori e indefinite; di qui nasce la vaghezza del senso del s., la sua allusività e inesauribilità.
La teoria kantiana favorisce l’accezione estetica del s. proposta da J.W. Goethe, che l’identifica con l’opera d’arte come totalità organica e lo distingue dall’allegoria: nel s. si realizza la piena identità tra simboleggiante e simboleggiato; è un’immagine in cui l’universale è colto nell’individuale che l’incarna in sé, in un mutuo gioco di rinvii reciproci, offrendosi a un processo continuo di interpretazione. L’allegoria è invece contingente e subordinata ad altro, in quanto incapace di significare solo per sé stessa.
Con Goethe nasce la linea ‘classica’ del s.: vi si riconobbero F.W.J. Schelling, K. Solger e poi le estetiche classicistiche, come quella di G. Lukács; le si opposero invece la tradizione romantica del simbolismo mistico e l’estetica anticlassicistica, né vi si riconobbe G.W.F. Hegel. Se il s. è per Goethe la perfetta adeguazione della forma sensibile al contenuto, per Hegel, come già per Kant, quella relazione è inadeguata, dato che c’è nel simbolico una tensione irrisolta, qualcosa di allusivo ed enigmatico, la capacità di accennare a più ampi significati.
Le estetiche di derivazione romantica insistono non più sul s. ma sull’allegoria, espressione della disarmonia tra arte e realtà, tra ricerca del senso e impossibilità di istituirlo come senso pieno e compiuto. Sono linee di tendenza che nascono dalla dissoluzione dei classicismi, dense di contatti con la cultura del Barocco, e che porteranno a quella rivalutazione dell’allegoria che si affermò con alcune avanguardie del 19°-20° sec. e con W. Benjamin.
Nella lunga storia del s. non va dimenticato G.B. Vico, la cui scoperta del simbolismo primitivo trovò echi nello studio romantico e ottocentesco del mito (G.F. Creuzer, J.J. Görres, J.J. Bachofen) e nell’antropologia simbolica di M. Douglas, nella psicanalisi di S. Freud e nella teoria degli archetipi di C.G. Jung. Né va dimenticato E. Cassirer, la cui Filosofia delle forme simboliche (1923-29) trasforma la kantiana ‘critica della ragione’ in una ‘critica della civiltà’ e propone una teoria delle funzioni simboliche (mito e linguaggio, arte e conoscenza scientifica), intese come espressioni della capacità umana di attribuire senso all’esperienza e dar forma al molteplice sensibile. Si ricordano inoltre gli studi sul mito e le religioni e le analisi ermeneutiche e fenomenologiche (M. Eliade, H.G. Gadamer), dove il s. è ciò che allude a verità che tuttavia restano non garantite (P. Ricoeur), fino alla teoria semantico-pragmatica del s. di U. Eco.
In cartografia, si chiamano s. quei segni convenzionali usati per rappresentare gli elementi naturali (monti, fiumi, laghi ecc.) e quelli antropici (case, ponti, strade ecc.). Hanno subito innumerevoli modifiche nel tempo e continuano tuttora a subirne. Nelle carte antiche il simbolismo tendeva a una rappresentazione quasi pittorica di certi particolari, la tendenza, poi, è stata sempre più indirizzata verso la stilizzazione dei simboli. Ogni carta moderna, sia essa geografica, topografica, nautica, geologica ecc., reca, in uno dei suoi margini, il significato dei principali segni convenzionali in essa contenuti.
In tab. 2 A, B, C, D sono indicati alcuni s. matematici, riportando per ciascuno i modi più usuali di leggerli, che ne danno contemporaneamente i significati. Per i s. numerici che ricorrono nei diversi sistemi di numerazione ➔ numerazione.
Per simbolizzazione si intende il processo di formazione simbolica che si svolge nella mente dell’individuo.
In psicanalisi, il prototipo dei processi di simbolizzazione è stato visto nel sogno; è nel sogno infatti che, secondo S. Freud, sono all’opera i processi di spostamento e di condensazione che rendono possibile l’uso di un s., cosciente e manifesto, a rappresentare contenuti inconsci e latenti. La teoria classica, esemplificata da E. Jones (1916), sostiene l’equivalenza tra simbolizzato e rimosso, avanzando la tesi che si possa parlare di vero s. solo nel caso in cui esso si riferisca a contenuti inconsci rimossi in seguito a un conflitto intrapsichico. I s. restano così legati ai processi inconsci dell’individuo e in quanto tali hanno la caratteristica di costruzioni private. In un senso più generale si è ammessa anche l’esistenza di s. universali, in cui la relazione s.-simbolizzato è fissa e indipendente dal discorso personale del singolo. Sono questi i s. che si ritrovano nelle culture più disparate, che si conservano nei miti, nel folclore, nelle religioni. Freud ha accennato, rispetto alla loro origine, a un’eredità filogenetica; C.G. Jung invece ha tentato di darne spiegazione mediante l’ipotesi di un ‘inconscio collettivo’ che in essi si esprimerebbe. Importanti contributi alla teoria psicanalitica del s., sulla base di suggestioni già avanzate da M. Klein, ha apportato H. Segal.
Per la psicologia genetica, i processi di simbolizzazione riguardano sia le funzioni conoscitive sia quelle affettive. Nello sviluppo mentale, infatti, J. Piaget riconosce già al livello della seconda fase (2°-7° anno) una forma di pensiero rappresentativo-intuitivo che rende possibile la sostituzione di un oggetto o di un’azione mediante segni (s.). Lo stesso apprendimento del linguaggio, che si realizza attraverso l’imitazione, è un processo di simbolizzazione dove l’oggetto diventa segno e parola. Forme di simbolizzazione vengono riconosciute poi nell’attività ludica infantile in rapporto alla funzione immaginativa e fantastica.
Nelle religioni antiche il s. religioso è un segno di riconoscimento, una cosa semplice che indichi o ricordi qualcosa di più complesso e sottinteso (per es., il cantaro s. del dio Dioniso o del suo culto, il liṅga s. di Śiva ecc.). Sotto l’influsso delle religioni misteriche, nella cui terminologia il s. è la formula usata come motto di riconoscimento degli iniziati, esso assume significati diversi: quelli di un’allusione o di un’espressione cifrata che rinvia a qualcosa che non deve esprimersi direttamente. Di qui l’origine della sovrapposizione di senso tra s. e allegoria: mentre questa non si riferisce necessariamente a cose segrete o inesprimibili, in un s. è presente il rinvio a uno sfondo metafisico che presuppone la mutua compenetrazione tra mondo umano e divino. Decisiva fu la distinzione che mise in rilievo come, a differenza dell’allegoria, il s. fosse qualcosa d’immediato, che avesse un rapporto motivato con l’oggetto. Non è per es. s., in questo senso, un triangolo con dentro un occhio, che allude al concetto, esprimibile in parole chiare, del Dio onniveggente e trino, non essendo certo l’espressione spontanea dell’esperienza che di questo Dio ha il soggetto religioso; ma la spiga matura, mostrata agli iniziati a Eleusi, poteva essere s. di Demetra, irriducibile a concetti razionali. Questa concezione del s., però, se accentuata, si presta a malintesi, poiché la sua validità è limitata da precise condizioni storiche (la spiga di grano, per es., non può essere s. di qualcosa nelle civiltà non agricole).
Quando si distingue tra s. realistici e s. idealistici, intendendo con i primi quelli che per una civiltà religiosa sono identici con quanto rappresentano, il significato di s. tende ad annullarsi: per es., quando gli esecutori di un rito di popoli a organizzazione totemistica vestono pelli di animali o si mettono maschere, non mirano tanto a rappresentare, quanto a essere gli antenati totemici; in tal caso non si servono più di s., bensì di mezzi atti a trasformarli in ciò che il s. soltanto esprimerebbe. D’altra parte i s. idealistici si confondono facilmente con segni convenzionali privi di valore simbolico: se la svastica e la stella hanno certamente valore di s. in determinate civiltà arcaiche anche preistoriche, poiché esprimono idee religiose irriducibili a significati codificati, la croce nel cristianesimo e la mezzaluna islamica, pur di origine analoga, sono s. tutt’al più nel senso etimologico, cioè segni convenuti di riconoscimento.
Va ricordata infine la reciprocità della relazione simbolica: se la raffigurazione di una donna triforme (Ecate) o con le corna (Hathor) può essere s. della Luna, la Luna, a sua volta, dati i suoi periodi, può esser s. della femminilità; in realtà donna e Luna, in determinate civiltà, sono s. reciproci e intercambiabili di esperienze irriducibili ad altri termini.
Nella tradizione cristiana, il s. di fede è la formula che esprime in compendio le verità fondamentali della fede, detta anche Credo dalla prima parola con cui in latino e in italiano iniziano il s. apostolico e il s. niceno-costantinopolitano. Il termine symbolum rinvia verosimilmente al greco σύμβολον nell’accezione di «segno di riconoscimento», in quanto professione di fede richiesta per l’ammissione al battesimo.
Già nel Nuovo Testamento si possono trovare formule di fede relative alla messianicità o alla divinità del Cristo, o brevi sommari di fede, ora esclusivamente cristologici, ora binari, in quanto associano il Cristo al Padre, o trinitari, che fanno riferimento anche allo Spirito Santo. Queste formule entrarono presto negli usi liturgici, soprattutto in contesto battesimale. Con lo sviluppo della teologia e l’insorgere di controversie dottrinarie, si sentì la necessità di precisare meglio il contenuto della professione di fede in base alle diverse esigenze, donde la varietà di espressioni a seconda delle Chiese, dei periodi storici e degli autori che le hanno tramandate. Le origini, le vicende, il contenuto e la forma delle varie confessioni di fede, nonché i contrasti e le differenze nei credi delle varie comunità cristiane, sono l’oggetto di studio della scienza detta simbolica.
Il più antico s. di fede è quello della Chiesa di Roma (s. romano) trasmesso in greco da Marcello di Ancira (340 ca.) e in latino da Rufino di Aquileia (404 ca.). Si suddivide in tre sezioni, relative alle tre persone della Trinità, molto sintetiche la prima e la terza («Credo in Dio padre onnipotente... e nello Spirito Santo»), più diffusa la seconda, in cui si menzionano la figliolanza divina di Gesù Cristo, la sua nascita da Maria e dallo Spirito Santo, la crocifissione e sepoltura sotto Ponzio Pilato, la resurrezione dopo tre giorni, l’ascensione al cielo, dove siede alla destra del Padre, l’attesa del giudizio finale. A questa formulazione trinitaria seguono la menzione della santa Chiesa, la remissione dei peccati, la resurrezione della carne. La forma del s. romano si affermò nella seconda metà del 3° sec. e come tale fu accolta da altre Chiese occidentali (Arles, Braga, Aquileia, Cartagine, Milano ecc.).
Il s. niceno-costantinopolitano è la formula di fede derivata dal s. proposto alla sottoscrizione dei partecipanti al Concilio di Nicea (325), nella forma ripresa e adattata nel Concilio di Costantinopoli (381), con gli ampliamenti ivi introdotti a proposito dello Spirito Santo, definito «Signore e vivificante, che procede dal Padre, e con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato, che ha parlato per mezzo dei profeti», a seguito delle controversie dottrinali sviluppatesi dopo il Concilio di Nicea. L’inserzione della espressione «e dal Figlio» (in latino Filioque) dopo la menzione della processione dal Padre fu operata in Occidente per influsso della teologia di Agostino e s’impose progressivamente, non senza resistenze. A partire dal 6° sec. questo s. fu progressivamente accolto nelle liturgie battesimali, poi in quelle eucaristiche, tanto in Oriente quanto in Occidente. La Chiesa romana lo accettò definitivamente solo nell’11° secolo.
Una forma leggermente modificata, con aggiunte e precisazioni, del s. romano è il cosiddetto s. apostolico, formula di fede in uso in alcune liturgie, specialmente in occasione del battesimo. Consiste di 12 articoli relativi il primo a Dio Padre, quelli dal secondo al settimo a Gesù Cristo Figlio di Dio suo unico Figlio, l’ottavo allo Spirito Santo, i rimanenti alla santa Chiesa cattolica e la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la resurrezione della carne e la vita eterna. Già L. Valla aveva rilevato che questo s. non poteva risalire agli apostoli. Le principali differenze dal s. romano derivano dall’accoglimento di alcune varianti attestate in s. occidentali del 4° e 5° sec., operato quando Carlomagno volle imporre nel suo impero una formula di fede unica. A Roma si manifestò una certa resistenza a sostituire l’antico s. romano con quello imposto da Carlomagno: ciò avvenne definitivamente durante l’età degli Ottoni (10°-11° sec.).
Il s. atanasiano è un’esposizione di fede, in 40 proposizioni ritmiche, sulla Trinità e le due nature nell’unica persona del Cristo, attribuita ad Atanasio di Alessandria solo a partire dal 7° sec., ma di origine occidentale, presumibilmente gallicana, e databile alla seconda metà del 5° secolo. Il testo greco è traduzione dell’originale latino. Vi si sostiene la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio (rispetto al testo originale del s. niceno-costantinopolitano) e per questo, data l’attribuzione ad Atanasio, fu più volte citato dagli autori occidentali nelle controversie con la Chiesa greca sulla questione della processione dello Spirito Santo. Ha avuto uso limitato nelle liturgie occidentali, ma compare nel servizio liturgico della Chiesa anglicana.