molecolari, màcchine Locuzione con cui si indicano i sistemi supramolecolari costituiti da un numero discreto di componenti, capaci di compiere movimenti utili allo svolgimento di certe funzioni, sotto l’azione di opportuni stimoli esterni.
Abstract di approfondimento da Macchine molecolari di Vincenzo Balzani e Margherita Venturi (Enciclopedia della Scienza e della Tecnica)
Per le macchine molecolari, come per quelle del mondo macroscopico, possono essere individuati alcuni aspetti caratteristici quali: (a) il tipo di energia usato per far funzionare la macchina; (b) il tipo di movimento effettuato; (c) il modo con cui i movimenti possono essere controllati; (d) i segnali che evidenziano i movimenti stessi; (e) la necessità di operare in maniera ciclica e ripetitiva; (f) il tempo impiegato per completare un ciclo; (g) la funzione che può derivare dai movimenti compiuti.
Nelle macchine a livello molecolare, i movimenti meccanici implicano sostanziali cambiamenti strutturali e ciò può essere ottenuto soltanto se almeno uno dei componenti molecolari della macchina è coinvolto in una reazione chimica. Occorre fornire, quindi, sotto una qualche forma, l’energia necessaria per far avvenire la reazione chimica alla base del movimento, che può essere di vario tipo (per es., rotatorio o lineare), e il cui controllo può essere effettuato con reazioni chimiche antagoniste. I segnali in grado di evidenziare il funzionamento della macchina provengono da cambiamenti di proprietà del sistema (per es., variazioni di colore) che accompagnano i movimenti, i quali, a loro volta, per permettere alla macchina di lavorare in modo ciclico, devono coinvolgere reazioni reversibili; inoltre, la scala dei tempi in cui si completa un ciclo può andare dai picosecondi (10212 s) alle ore, a seconda della natura chimica del sistema. Infine, le funzioni ottenibili mediante la macchina possono essere le più varie, come verrà mostrato in seguito.
La capacità delle molecole di associarsi permette la formazione di sistemi supramolecolari naturali molto complessi (come gli enzimi) capaci di compiere le funzioni necessarie alla vita. Alcuni di questi sistemi operano mediante movimenti rotatori o traslatori, tanto da poter essere considerati delle vere e proprie macchine di dimensioni nanometriche. Anche se l’esistenza delle nanomacchine naturali è conosciuta da molto tempo, solo di recente si è cominciato ad analizzare e capire l’intimo e complesso meccanismo del loro funzionamento.
Una delle nanomacchine più studiate è certamente quella preposta alla sintesi dell’adenosintrifosfato (ATP), molecola che fornisce l’energia per le funzioni vitali, illustrata nella Tav. II.
Un altro esempio ben noto di motore naturale, che a differenza del precedente sviluppa un movimento di tipo traslatorio, è rappresentato dalla miosina. Con questo termine vengono indicate numerose classi di proteine che sono alla base di tutti i movimenti muscolari volontari e involontari. La miosina, che è costituita da una lunga coda a cui sono collegate due grosse teste, si associa con queste ultime a un’altra proteina che ha la forma di scala. La miosina si muove lungo la scala grazie all’energia fornita dall’ATP. In un muscolo che si contrae rapidamente, ciascuna unità di miosina si muove 5 volte al secondo, percorrendo una distanza di circa 10 nm.
In molte macchine del mondo macroscopico l’energia necessaria per il loro funzionamento è prodotta dalla reazione fra ossigeno e sostanze ad alto contenuto energetico (combustibili) nei motori a combustione interna. Ovviamente, questo tipo di motore, che lavora ad alte temperature ed elevate pressioni, non può essere usato per alimentare le fragili macchine molecolari. Esse, tuttavia, possono sfruttare, analogamente a quelle del mondo macroscopico, una reazione chimica, purché avvenga in condizioni blande. Questo, infatti, è ciò che avviene nelle nanomacchine biologiche, nelle quali la reazione di combustione, che genera l’energia necessaria al loro funzionamento, procede attraverso molti stadi successivi, in ciascuno dei quali è messa in gioco solo una piccola quantità di energia. Comunque, a parte questa differenza tecnica, rimane il fatto che sia le macchine macroscopiche sia quelle biologiche funzionano consumando un combustibile. Questo, inevitabilmente, comporta la formazione di prodotti di scarto, la cui eliminazione è la condizione necessaria per preservare il buon funzionamento della macchina.
L’idea di costruire macchine molecolari artificiali è stata avanzata nel 1959 da Richard P. Feynman, premio Nobel per la fisica nel 1965. Tuttavia, a quel tempo la comunità scientifica non era pronta per questa avventura e si sono dovuti aspettare vent’anni per avere i primi concreti tentativi di progettazione e costruzione di nanomacchine. Poiché la loro realizzazione può avvenire soltanto con l’approccio chimico discusso in precedenza e poiché si è subito capito che è impossibile imitare la natura, a causa della sua intrinseca complessità, i progetti realizzati finora sfruttano l’uso del minor numero possibile di componenti molecolari.
Per la costruzione delle nanomacchine artificiali la fase della progettazione è, ovviamente, la più delicata e non può prescindere dalle caratteristiche descritte all’inizio. I problemi collegati ad alcune di queste proprietà, e precisamente quelli relativi al controllo della macchina, ai segnali per verificarne il funzionamento, alla necessità di avere un comportamento ciclico e alla verifica dei tempi di lavoro, possono essere affrontati abbastanza facilmente dal chimico; molto più critici, invece, sono gli aspetti che riguardano l’energia, i movimenti e le funzioni.
Uno dei primi esempi di macchina molecolare artificiale, basata su un solo componente e su una reazione chimica molto semplice, è illustrato nella fig. Si tratta di un sistema costituito da due molecole ad anello collegate a un’unità centrale che può cambiare struttura per assorbimento di luce di appropriata lunghezza d’onda. Quando una soluzione contenente questo sistema viene illuminata, il cambiamento di struttura dell’unità centrale causa l’avvicinamento dei due anelli laterali, che così possono racchiudere uno ione di dimensioni opportune. Utilizzando una luce di un’altra lunghezza d’onda, si può ottenere il processo inverso con conseguente rilascio dello ione. Questa azione meccanica è paragonabile a quella di una pinza di dimensioni nanometriche che, in un futuro non troppo lontano, potrebbe portare alla costruzione di sistemi capaci di ripulire un organismo da sostanze dannose.
Oggetto di intensi studi sono anche le grandi molecole aventi struttura ramificata denominate dendrimeri, nelle quali la parte più esterna delle ramificazioni è formata da unità simili all’unità centrale dell’esempio precedente (fig.). Sotto l’azione della luce, il cambiamento di struttura delle unità periferiche provoca, almeno parzialmente, la chiusura/apertura del guscio esterno della molecola, così che questi sistemi possono essere visti come scatole di dimensioni nanometriche utilizzabili, per esempio, per il rilascio controllato di piccole molecole racchiuse nelle cavità della struttura dendrimerica.
La maggior parte delle attuali ricerche nel campo delle macchine molecolari artificiali è però concentrata su sistemi supramolecolari chiamati pseudorotassani, rotassani e catenani, con i quali è possibile ottenere semplici movimenti lineari o rotatori. Di seguito sono illustrati alcuni esempi di nanomacchine basate su tali sistemi, scelti anche per mostrare come sia possibile utilizzare energia luminosa, chimica o elettrica per indurre la reazione responsabile del movimento.
Uno pseudorotassano (fig. A) è un sistema supramolecolare formato da una molecola ad anello infilata in un componente lineare, mentre un rotassano può essere immaginato come formato da uno pseudorotassano in cui, all’estremità del componente lineare, sono stati aggiunti due gruppi ingombranti per impedire lo sfilamento dell’anello (figg. B, C). Un catenano, infine, è un sistema supramolecolare formato da due molecole ad anello incatenate una all’altra (figg. D, E). In sistemi di questo genere, se accuratamente progettati, è possibile, mediante l’uso di opportuni stimoli energetici, mettere in atto movimenti meccanici come quelli mostrati con le frecce nella fig. Al fine di facilitare il controllo dei movimenti di questo genere è opportuno che siano verificati quattro requisiti fondamentali:
(a) il sistema deve avere solo due situazioni strutturalmente stabili (per es., per il sistema della fig. A le due situazioni corrispondono ad avere i componenti associati o separati);
(b) una delle due strutture deve essere più stabile dell’altra, così da avere una situazione iniziale in cui è presente una sola struttura (per es., per il sistema della fig. A la situazione più stabile è generalmente quella in cui i due componenti sono associati);
(c) con uno stimolo esterno deve essere possibile destabilizzare la struttura iniziale e costringere quindi il sistema a riorganizzarsi nell’altra struttura;
(d) con un secondo stimolo esterno, che a volte è una semplice conseguenza del primo, deve essere possibile annullare l’effetto destabilizzante e ritornare alla struttura originaria.
Sistema pistone/cilindro azionato dalla luce
Il movimento di sfilamento/infilamento dei due componenti molecolari di uno pseudorotassano (fig. A) ricorda quello di un pistone in un cilindro. Nella fig. è illustrato un esempio reale di sistema in grado di comportarsi in questo modo. Il componente lineare A possiede l’unità A1 che ha la tendenza ad accettare elettroni, mentre il componente ciclico B possiede due unità B1 che hanno tendenza a donare elettroni. In virtù di questa complementarità nelle proprietà chimiche, i due componenti, quando sono messi nella stessa soluzione, si associano spontaneamente dando origine alla struttura di tipo pseudorotassano. Si può notare che il componente lineare contiene anche un’altra unità, il complesso metallico A2, che non gioca alcun ruolo nell’associazione, ma costituisce il motore a luce del sistema. Infatti, quando il sistema viene illuminato con luce di opportuna lunghezza d’onda, l’assorbimento di un fotone da parte dell’unità A2 causa il trasferimento di un elettrone da A2 (che si ossida) ad A1 (che si riduce). L’unità A1 perde così la sua proprietà di accettare elettroni e non è più in grado di interagire con le unità elettrondonatrici B1 del componente ciclico.
In altre parole, l’eccitazione luminosa distrugge l’interazione che tiene associati i due componenti, inducendo il movimento di sfilamento. Si deve però notare che tale processo, essendo relativamente lento, può avvenire solo se nella soluzione è presente una sostanza riducente (Red) che cede un elettrone all’unità A2, non appena questa ha trasferito un elettrone all’unità A1. In caso contrario, l’elettrone acquistato dall’unità A1 tornerebbe molto velocemente sull’unità A2, con immediato ripristino dell’interazione donatore-accettore che mantiene associati i due componenti. Il componente lineare può essere infilato nuovamente in quello ciclico aggiungendo alla soluzione un ossidante (Ox, in molti casi, semplicemente ossigeno) che, togliendo ad A1 l’elettrone acquistato nel processo di riduzione, ripristina le sue proprietà elettronaccettrici.
È importante sottolineare che, in questo sistema, il movimento meccanico è indotto dalla luce, ma sono anche necessarie due sostanze chimiche, Red e Ox, per far sì che avvenga il ciclo completo di sfilamento/infilamento, con inevitabile formazione di prodotti di scarto. Recentemente sono stati costruiti sistemi pistone/cilindro il cui funzionamento, essendo esclusivamente guidato da impulsi luminosi, non comporta la formazione di prodotti di scarto.
Una navetta azionata da energia chimica
Il movimento dell’anello di un rotassano lungo il filo (fig. C) corrisponde, a livello molecolare, al movimento di una navetta lungo un binario. Un esempio di questo tipo è rappresentato dal rotassano della fig., formato dall’anello C e dal componente lineare D in cui sono presenti due unità distinte, D1 e D2; la prima unità è costituita da uno ione ammonio secondario, che può essere deprotonato reversibilmente ad ammina, mentre la seconda è formata dalla stessa unità elettronaccettrice vista nell’esempio illustrato nella fig. Queste unità rappresentano due potenziali stazioni per l’anello C, dal momento che esso può interagire sia con D1, grazie alla formazione di legami a idrogeno, sia con D2, stabilendo un’interazione di tipo elettrondonatore-elettronaccettore. Poiché il primo tipo di interazione è più forte del secondo, l’anello si trova inizialmente sulla stazione D1. Se però alla soluzione contenente il rotassano viene aggiunta una base, l’unità ammonio D1 si deprotona, perdendo così la sua capacità di formare legami a idrogeno con l’anello. Come conseguenza, l’anello C si sposta sulla stazione D2, con la quale può stabilire l’interazione elettrondonatore-elettronaccettore. Se, a questo punto, si aggiunge alla soluzione un acido, si ricostituisce l’unità ammonio D1 e l’anello ritorna su questa stazione per la quale ha una maggiore affinità.
Il movimento alternato di C fra D1 e D2 può essere ripetuto molte volte perché la reazione acido/base che lo governa è perfettamente reversibile. L’unica limitazione deriva dal fatto che le successive aggiunte di base e di acido comportano la formazione di sostanze che, alla lunga, compromettono il funzionamento del sistema.
Recentemente sono stati anche riportati esempi di navette che operano per azione di stimoli luminosi.
Rotazione di un anello azionata da energia elettrica
In catenani appositamente progettati, è possibile far ruotare un anello rispetto all’altro (fig. D) ma, per evidenziare questo movimento, occorre che almeno uno dei due anelli del catenano sia non simmetrico, come è il caso del sistema illustrato nella fig. Tale catenano è costituito dall’anello E, che contiene due unità E1 uguali ed elettronaccettrici, e dall’anello F, che contiene due unità elettrondonatrici diverse, F1 e F2, con F1 più forte di F2. La struttura inizialmente stabile è quella in cui l’unità F1 è contenuta all’interno dell’anello E, così da poter interagire con entrambe le unità accettrici di quest’ultimo. Per far ruotare l’anello, è necessario destabilizzare questa struttura e ciò può essere ottenuto mediante uno stimolo elettrochimico che, togliendo un elettrone all’unità F1 (cioè ossidandola), annulla la sua proprietà di donare elettroni. La struttura più stabile diventa, allora, quella con l’unità F2 all’interno dell’anello E, situazione che viene raggiunta per rotazione di 180° dell’anello F. Se, a questo punto, sempre mediante uno stimolo elettrochimico, viene restituito l’elettrone all’unità F1, essa riacquista le sue caratteristiche elettrondonatrici e, di conseguenza, l’anello F ruota nuovamente riportando il sistema alla struttura iniziale.
Le macchine molecolari artificiali discusse negli esempi sopra riportati sono interessanti non soltanto per il loro aspetto meccanico, ma anche dal punto di vista della logica. Esse, infatti, possono esistere in due stati distinti e convertibili mediante impulsi esterni di natura luminosa, chimica o elettrica. Su questi sistemi, dunque, si possono ‘scrivere’ informazioni secondo una logica binaria. Lo stato in cui si trova il sistema, d’altra parte, può essere letto facilmente poiché alcune sue proprietà (per es., l’assorbimento oppure l’emissione di luce di specifica lunghezza d’onda) cambiano drasticamente nel passaggio da uno stato all’altro. È interessante notare che studi recenti hanno permesso di stabilire che anche sistemi molecolari di tutt’altro tipo sono in grado di mostrare un comportamento logico.
Alcuni scienziati vedono in queste e in altre ricerche a esse collegate i primi passi verso la costruzione di una nuova generazione di computer (computer chimici) che, basandosi su componenti di dimensioni nanometriche, potrebbero offrire prestazioni superiori a quelle dei calcolatori attualmente in uso. Questa prospettiva, forse, non stupisce più di tanto, se si pensa alle capacità di quello speciale (e forse inimitabile) computer chimico che è il cervello dell’uomo.