Termine con cui si intende la forma di terrorismo attuata con l'uso di agenti biologici.
approfondimento di Gianfranco Bangone (Enciclopedia della Scienza e della Tecnica)
L’utilizzo di patogeni in attività belliche è documentato sin dall’età classica. Erodoto descrive l’impiego da parte degli arcieri sciti di frecce avvelenate – presumibilmente con il batterio Clostridrium botulinum che induce il tetano – che provocavano paralisi respiratoria. È la prima testimonianza dell’uso dei cosiddetti incapacitanti, il cui impiego nelle tecniche di guerra biologica avrà il suo massimo sviluppo in epoca moderna.
È presumibile che per molti secoli a seguire l’utilizzo di cadaveri fosse la principale tecnica disponibile per la guerra biologica; quest’uso da parte dei Tartari è ben documentato nell’assedio della colonia genovese di Caffa del 1346, oggi Feodosija in Ucraina, quando furono catapultate oltre le mura di cinta della città salme di soldati tartari morti di peste bubbonica. L’epidemia si diffuse all’interno della città e furono gli stessi Genovesi che, rientrando in patria, trasportarono le pulci che nel giro di tre anni diffusero la peste in tutta l’Europa.
Una variante ‘moderna’ di guerra biologica fu introdotta nella tarda primavera del 1763, quando durante le guerre franco-indiane, un’epidemia di vaiolo colpì Fort Pitt, un importante caposaldo britannico per il controllo del fiume Ohio. Qualche mese dopo fu deciso di utilizzare le coperte dei soldati ammalati per diffondere la malattia tra gli ostili nativi americani, regalando loro delle coperte contaminate da escreti di soldati ammalati di vaiolo. L’operazione, almeno dal punto di vista militare, ebbe successo perché la malattia si diffuse tra i nativi – immunologicamente ‘naive’ – facendo molte vittime.
Il primo vero disegno di guerra biologica risale alla Prima guerra mondiale, con il progetto tedesco di infettare con il Bacillus anthracis – un batterio sporigeno che provoca il carbonchio – le pecore rumene destinate all’esportazione in Russia e il bestiame argentino destinato alle truppe inglesi; mentre in Francia si tenta di diffondere lo Pseudomonas mallei, che produce infiammazioni delle vie respiratorie nei cavalli e nei muli. Si cerca addirittura di far scoppiare un’epidemia di peste a San Pietroburgo e di colera fra i soldati italiani al fronte, ma nessuno di questi tentativi raggiungerà gli obiettivi prefissati.
Nei primi anni Trenta è il Giappone a sperimentare la via della guerra biologica su grande scala quando il generale Shiro Ishi dà vita all’Unità 731 ad Harbin in Manciuria, impiegando circa 5000 tecnici in 26 stabilimenti dove si fa ricerca su tutti i patogeni conosciuti all’epoca sperimentandone l’efficacia su prigionieri cinesi (ci saranno almeno 600 vittime in uno solo dei centri). Alla fine della Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti offrono l’immunità ai tecnici dell’Unità 731 in cambio della collaborazione con una commissione di inchiesta militare americana. Negli Stati Uniti un simile programma di ricerca aveva mosso i primi passi nel 1941 e nel 1951 si inizia la produzione in scala del patogeno della tularemia (Francisella tularensis). Nei trent’anni che seguono vengono effettuati diversi rilasci di batteri sotto forma di aerosol, ma l’esperimento più famoso è quello del 1966 quando nella metropolitana di New York viene effettuato un rilascio di Bacillus globigii, un batterio non patogeno utilizzato per simulare un attacco di carbonchio.
Il periodo dal 1959 al 1969 viene considerato da molti storici una sorta di golden age per gli sforzi profusi dall’amministrazione americana e per i risultati raggiunti: si va dal bacillo dell’antrace al virus dell’encefalite equina, dall’enterotossina B stafilococcica alla Coxiella burnetii che produce una particolare forma di polmonite. Il programma viene chiuso dal presidente Richard Nixon nel 1972, affidando al nucleare il ruolo di deterrente, e nel 1975 gli Stati Uniti firmano la Convenzione per le armi biologiche. Al trattato aderirà anche l’Unione Sovietica ma ciò non impedirà il lancio del Biopreparat, il più grande programma di ricerca militare che la storia ricordi, con circa 60.000 persone impiegate. Nei primi anni Novanta, dopo l’avvento di Michail S. Gorbaãëv, la struttura viene ufficialmente smantellata e l’Occidente ne verrà a conoscenza quando un alto dirigente del Biopreparat ripara nel Regno Unito. Poco dopo un altro nome eccellente della ricerca militare sovietica – il colonnello Kanatjan Alibekov, che oggi si fa chiamare Ken Alibek – espatria clandestinamente negli Stati Uniti. Qui viene nominato consulente della difesa, e racconta che l’Unione Sovietica aveva sviluppato, nel 1987, non solo una versione di carbonchio resistente a tutti gli antibiotici utilizzati nel periodo, ma aveva addirittura ‘militarizzato’ agenti come il vaiolo e la letale febbre emorragica di Marburg. Tuttavia, esistono fondati dubbi sull’attendibilità di Alibekov.
Nel frattempo il processo di produzione è diventato straordinariamente sofisticato: nei centri del Biopreparat vengono sviluppate tecniche per la coltivazione, la selezione di ceppi più virulenti e la loro essiccazione che consente di conservarli a temperatura ambiente. Ad Alibekov si deve la formula di una particolare sostanza segreta da utilizzare come ‘involucro’ per la diffusione degli agenti biologici. Si sa che il prodotto finale è una specie di polvere della consistenza del talco le cui microsfere contengono il patogeno. Il vettore destinato a trasportare le testate biologiche è il missile intercontinentale SS-18 che contiene dieci ogive, e secondo Alibekov è in grado di colpire dieci diverse città americane. L’attacco era previsto nelle ore immediatamente dopo l’imbrunire perché il patogeno contenuto nell’aerosol tende a degradarsi per l’azione della radiazione ultravioletta, perdendo efficacia.
La dissoluzione dei blocchi e lo smantellamento dell’Unione Sovietica hanno stimolato negli anni Novanta un nuovo filone di studi relativo ai problemi di proliferazione non solo nucleare ma anche biologica. È più che probabile che l’ascesa di nuove potenze regionali dopo il crollo del muro di Berlino e lo smantellamento del Biopreparat abbia portato non pochi tecnici dell’ex Unione Sovietica in molti Paesi del Terzo Mondo dove l’opzione nucleare sembra ancora impraticabile. Nel 1991 la guerra del Golfo convince molti strateghi delle potenze emergenti che il conflitto ‘classico’ non ha più ragione di esistere perché nessun Paese al mondo può sfidare in un confronto aperto gli Stati Uniti. Si afferma quindi un nuovo scenario di riferimento, l’asymmetric warfare, dove gli agenti biologici sembrerebbero l’arma più appropriata per attentati di tipo terroristico per la facilità con cui li si può ottenere e soprattutto per i limitatissimi costi di produzione.
Un rapporto dell’ONU stima che un’operazione su larga scala contro la popolazione civile di un Paese costerebbe 2000 dollari per km2 con armi convenzionali, 800 con il nucleare, 600 con i gas nervini, ma solo un dollaro con agenti biologici. La produzione di 50 kg di antrace è alla portata di un piccolo laboratorio e non presenta particolari difficoltà: un tale quantitativo disperso da un aereo da turismo sopra una grande città potrebbe fare 95.000 vittime e sarebbe in grado di infettare almeno 125.000 persone per diverse settimane, portando al collasso le strutture sanitarie. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 l’emergenza antrace, innescata da una serie di lettere inviate a uffici federali, network televisivi e giornali, sembra dar corpo a questo scenario e negli Stati Uniti vengono varati piani per la difesa da simili minacce. Tuttavia, nonostante il risalto dato a queste azioni, le lettere all’antrace non rappresentano un episodio isolato di terrorismo perché negli anni Ottanta e Novanta diversi gruppi eversivi americani avevano già fatto uso di agenti biologici per attentati progettati o eseguiti.
Nel 2001 vengono condotte due esercitazioni, a Topoff e Dark Winter, dove si dimostra la straordinaria vulnerabilità delle metropoli americane: un rilascio di vaiolo in quattro centri commerciali di Oklahoma City produrrebbe circa 3 milioni di contagiati e un milione di vittime nell’arco di otto settimane. Ma negli stessi anni alcuni risultati scientifici lasciano presagire la possibilità di utilizzare la tecnologia del DNA ricombinante per la produzione di nuovi agenti letali. Il caso scoppia nel 2001 quando alcuni ricercatori australiani, nel tentativo di ridurre la prolificità dei roditori, tentano di ingegnerizzare il virus Ectromelia – un parente stretto del virus del vaiolo umano – per ottenere una sorta di vaccino contraccettivo. Il virus ingegnerizzato si dimostra però letale anche in topi che erano stati precedentemente vaccinati contro il vaiolo murino. Il lavoro viene pubblicato per allertare la comunità scientifica internazionale, ma solleva aspre polemiche perché secondo alcuni indica la strada per potenziare la virulenza di un patogeno e rendere inefficace anche un’eventuale vaccinazione preventiva.
L’anno successivo il gruppo di Eckard Wimmer dimostra la possibilità di ricostruire il virus della polio a partire dagli oligonucleotidi disponibili commercialmente nel catalogo di aziende biotech. Un risultato simile era stato già ottenuto da David Baltimore nel 1981, e in ogni caso il virus sviluppato da Wimmer è assai meno virulento della versione wild, ma tanto basta per generare l’ennesimo allarme. Nel 2002 viene anche pubblicato sui “Proceedings of the National Academy of Sciences” (PNAS) un lavoro del gruppo di Ariella M. Rosengard in cui si compara la risposta immunitaria nei confronti di Variola major, il virus responsabile del vaiolo ormai eradicato da decenni, e Vaccinia, ovvero il virus attenuato che è stato utilizzato per immunizzare la popolazione umana nei confronti di questa malattia. Non avendo a disposizione il virus selvatico, per confrontare i geni che codificano un inibitore chiave della risposta immunitaria i ricercatori ne ricostruiscono il gene utilizzando tecniche di sintesi. In sostanza, per ricostruire il gene di Variola sostituiscono nel corrispondente di Vaccinia 13 oligonucleotidi. Per alcuni il risultato di Rosengard è di grande importanza perché se il vaiolo ricomparisse nella popolazione umana si potrebbe tentare di ridurre la risposta del gene in questione, ma per altri esiste il pericolo che ingegnerizzando il Vaccinia con lo stesso gene si potrebbe aumentarne la virulenza e quindi riportare in vita il virus del vaiolo.
Nel 2003 un comitato del National Research Council pubblica un rapporto – spesso citato come ‘rapporto Fink’ – in cui riepilogando questi casi raccomanda alla comunità scientifica di porre particolare attenzione ai problemi di sicurezza e consiglia di agire a stretto contatto con esperti del settore per prevenire usi impropri di questa tecnica. L’ennesimo caso che genera scalpore è la pubblicazione nel 2003 di un lavoro del gruppo di Craig Venter in cui si annuncia la ricostruzione in vitro del batteriofago FX174 a partire da oligonucleotidi di sintesi disponibili in commercio. In circa due settimane, è possibile ricostruire i 5386 oligonucleotidi del genoma e successivi esperimenti dimostrano che il costrutto artificiale è in grado di infettare il suo ospite naturale Escherichia coli.
Due anni dopo un ricercatore dell’Università di Stanford, Lawrence Wein e un suo laureando, Yifan Liu, mettono a soqquadro i media americani pubblicando su PNAS una simulazione delle vittime prodotte da un attentato terroristico che contaminasse con 10 g di botulino alcuni silos di stoccaggio del latte. Secondo la stima effettuata, il consumo del latte contaminato renderebbe necessario il ricovero in ospedale e il ricorso alla ventilazione meccanica per almeno 50.000 persone. A causa dell’impossibilità per le strutture sanitarie americane di garantire simili terapie a un così ampio numero di pazienti, i due ricercatori valutano che nella popolazione adulta il tasso di mortalità sarebbe di circa il 60 %, con punte ancora più elevate tra i bambini che sono forti consumatori di questo alimento. Nonostante il rapporto Fink raccomandi la creazione di un board per la biosicurezza che dovrebbe autorizzare la pubblicazione di lavori con possibili ripercussioni sulla sicurezza nazionale, al momento in cui la rivista riceve il lavoro il board non è ancora operativo; si decide di pubblicarlo in ogni caso nonostante le proteste del Dipartimento di Sanità. L’articolo viene accompagnato da un editoriale di Bruce Albert, presidente della National Academy of Sciences, in cui si ricostruisce il percorso di peer review a cui è stato sottoposto l’articolo in questione e si ribadisce che la libera circolazione di dati scientifici è di per sé utile per la sicurezza nazionale, al contrario della censura preventiva. A contribuire al clamore suscitato dai risultati di Wein e Liu è la rivelazione di alcuni quotidiani statunitensi che riferiscono di aver trovato in un sito di fondamentalisti islamici un manuale di 28 pagine dove si spiega la procedura per ottenere il botulino.
I risultati scientifici sul genoma di sintesi scatenano un vivace dibattito nella comunità scientifica, ma molti ricercatori ribadiscono che la via più semplice per progettare e realizzare un attentato è far ricorso ad agenti infettivi o tossici largamente presenti in natura. Non va infatti dimenticato che le tecniche di sintesi richiedono sofisticati laboratori e personale altamente specializzato. Peraltro i think tank che si occupano di terrorismo raramente sono stati in grado di anticiparne le tendenze: di volta in volta sono state annunciate forme di transizione nella tecnica terroristica, per esempio le cosiddette bombe sporche o patogeni vegetali che potrebbero produrre ingenti danni al settore agricolo, ma le cronache degli ultimi anni dimostrano che l’attentato suicida con il ricorso a esplosivi convenzionali è ancora la via più semplice, più facile da praticare e che assicura i risultati migliori perché non richiede alcun know how. L’adozione di misure di secretazione e di restrizione della circolazione dei risultati scientifici è quindi innaturale e mette in crisi un sistema di validazione che garantisce risultati non solo in termini di sicurezza nazionale ma anche di biopreparedness.