Linguista (Ginevra 1857 - Vufflens 1913). Nipote di Nicolas-Théodore, pronipote di Horace-Benedict, in un ambiente di fine e antica cultura S. sviluppò un'intelligenza precoce, spesso applicata a fatti linguistici. Compì gli studî universitarî a Lipsia, dove conobbe K. Brugmann e gli altri linguisti di scuola neogrammatica e dove si laureò nel 1880 con una tesi, stampata l'anno successivo, De l'emploi du génitif absolu en sanscrit. Egli era già ben noto agli specialisti (durante la seduta di laurea gli fu chiesto se era parente del "famoso Saussure") poiché da due anni aveva pubblicato il Mémoire sur le système primitif des voyelles dans les langues indoeuropéennes, immediatamente rivelatosi una ricostruzione tanto arditamente innovativa quanto solida e durevole del sistema fonematico dell'indoeuropeo comune, ricca altresì di suggerimenti teorico-metodologici per il trattamento di qualsivoglia sistema fonologico. L'anno stesso della laurea S. si trasferì a Parigi, per studiare col caposcuola della linguistica francese, M. Bréal, che andava in quegli anni elaborando una nuova scienza del significato, da lui di lì a poco battezzata semantica, e con L. Havet e J. Darmesteter. Un anno dopo fu nominato maître de conference alla Sorbona, succedendo a Bréal negli insegnamenti di linguistica comparata e storica delle lingue indoeuropee. Per dieci anni alla sua scuola si formarono allievi destinati a figurare tra i maggiori linguisti europei del primo Novecento, tra i quali A. Meillet e i fonetisti P. Passy e M. Grannont. Nel 1891 per ragioni familiari dové lasciare Parigi per la allora periferica università di Ginevra, dove fu professore di lingue indoeuropee e sanscrito, poi, dal 1906, di "linguistique générale et histoire et comparaison des langues indouropéennes". Poté così tenere tre corsi di una materia prima preclusagli, la linguistica generale, nel 1907, 1908-09, 1910-11. Tra i suoi allievi ginevrini erano destinati a emergere A. Sechehaye e Ch. Bally, inziatori della scuola linguistica di Ginevra, e il russo S. Karcevskij, il quale rese note a Mosca le teorie di S., ciò che portò alla costituzione del circolo linguistico di Mosca ed ebbe influenza decisiva su N. Trubeckoj e R. Jakobson, allora giovani. Nel 1912, colpito da cancro, si ritirò nel castello familiare di Vufflens dove morì. Dalla moglie Marie Faesch ebbe due figli, Raymond, affermatosi negli S.U.A. come psicanalista, e Jacques. A parte la tesi di laurea e il Mémoire, in vita S. pubblicò soltanto alcuni importanti articoli specialistici, riuniti dopo la morte nel Recueil des publications scientifiques de F.d.S. (1922). La sua fama e la sua vastissima influenza sono legate a un'opera che egli vagheggiava, ma che non scrisse e fu in qualche modo messa insieme nei tre anni seguenti alla sua morte da tre allievi ginevrini, Bally e Sechehaye, già ricordati, e un più giovane e fedele studente, A. Riedlinger. I tre raccolsero i quaderni di appunti degli allievi dei tre corsi ginevrini di linguistica generale, consultarono i rari appunti manoscritti del maestro e rifusero il tutto in una trattazione unitaria cui dettero il titolo, destinato a diventare famoso, di Cours de linguistique générale (1916). L'opera, apparsa in pieno conflitto mondiale, ebbe dapprima un'accoglienza solo moderatamente positiva. Chi aveva ammirato lo straordinario stile delle lezioni di S. stentava a trovarne un'eco nelle pagine del Cours, e quanti non conoscevano l'autore non sempre ne rintracciarono subito le linee portanti del pensiero. L'opera, ripubblicata in miglior veste nel 1922, fu riedita nel 1931, e solo dal 1949 si moltiplicarono le edizioni e ristampe, dal 1972 accompagnate dal commento all'ed. e trad. italiana di T. De Mauro (1967). Dopo una traduzione in giapponese (1929), il Cours fu tradotto in numerose altre lingue, spesso (dopo il 1967) col commento all'ed. italiana. Ciò che si affermò in Europa e in America tra gli anni Venti e Trenta fu una sorta di "vulgata" del pensiero saussuriano. S. apparve come un assertore del primato dello studio della lingua "in sé stessa e per sé stessa", un assertore, dunque del primato della linguistica che egli chiama sincronica e che, si riteneva, intendeva tenere separata dalla considerazione evolutiva, diacronica, della lingua. La lingua, secondo la vulgata, sarebbe fondata sul principio dell'arbitrarietà del segno, che unisce appunto arbitrariamente significante e significato, e il cui valore dipende unicamente dal posto che esso tiene nel sistema della langue, considerata in una dimensione atemporale e astorica. Questa lettura vulgata suscitò consensi nel nascente strutturalismo europeo, ma anche aspre critiche nello stesso ambito strutturalista: nelle loro Thèses presentate nel 1929 al congresso dell'Aia, R. Jakobson, N. Trubeckoj e gli altri linguisti "praghesi" rimproverarono vivacemente a S. di avere separato sincronia e diacronia. La lettura vulgata eliminava intere parti non solo del pensiero originario di S., solo poi faticosamente recuperato, ma interi blocchi di pagine dello stesso Cours. Sono le pagine in cui, per esempio, si dice che materia della linguistica sono tutti i fatti linguistici e le relazioni tra tali fatti, le lingue e la masse parlante e il temps, dunque i contesti storici delle lingue; oppure si definivano tre grandi compiti della linguistica: 1. fare la storia interna ed esterna e la descrizione, sincronica, ma anche diacronica, sociologica e storico-culturale, del maggior numero possibile di lingue; 2. cercare le forze universali che operano in tutte le lingue e limitano le possibilità di organizzazione arbitraria delle lingue; 3. definire e delimitare i proprî termini teorici e concetti. Pagine del genere si accordavano male con l'immagine di un S. antistorico assertore del primato, anzi della esclusività della mera indagine sincronica di singole lingue, avulse da masse parlante e temporalità storica (temps), ciascuna facente parte a sé senza possibili confronti. Fra i tardi anni Trenta e gli anni Quaranta, studiosi diversi (E. Benveniste in Francia, M. Lucidi in Italia, H. Frei in Svizzera) affacciarono dubbî circostanziati sulla coerenza e sull'attendibilità delle letture prevalenti del Cours. Nello stesso tempo, L. Hjelmslev in saggi interpretativi e nei suoi Fondamenti della teoria del linguaggio suggeriva una reinterpretazione, una rilettura e una ripresa rigorosamente formale delle idee di Saussure. Negli anni Cinquanta un valoroso latinista e armenologo ginevrino, R. Godel, si assunse il compito di risalire alle fonti e di rileggere i manoscritti degli allievi e del maestro, conservati a Ginevra nella biblioteca universitaria, e pubblicò nel 1957 le Sources manuscrites du Cours de linquistique générale. L'opera ha segnato una svolta profonda nella conoscenza del pensiero linguistico saussuriano. Altri decisi progressi si sono avuti grazie al pluriennale lavoro del filologo di Berna R. Engler, che a partire dal 1967 ha ripubblicato in fascicoli il testo del Cours in una edizione sinottica che affianca, a ciascuna delle oltre tremila frasi che lo costituiscono, i passi degli appunti di alunni o dei manoscritti di S. che ne furono fonte per i primi editori. Grazie a questo lavoro filologico si è proseguito con il recupero e l'edizione di altri manoscritti saussuriani e degli appunti di altri corsi di linguistica storica; ma anche grazie all'avanzamento degli studî di semiologia (L. Prieto), di critica della semiologia (E. Garroni) e di linguistica teorica (E. Coseriu, N. Chomsky), si è venuta ricomponendo e delineando un'immagine nuova del pensiero saussuriano. Dobbiamo soprattutto a L. Hjelmslev l'aver compreso che la prima mossa della partita teorica di S. è stata ricollocare la teoria del linguaggio umano e delle lingue nella prospettiva di un confronto con altri modi di comunicazione, cioè in una prospettiva semiologica. Su una via già aperta e in parte esplorata in epoche del passato da Aristotele, Leibniz, Vico, S. vede chiaro che soltanto in tale prospettiva comparativa e semiologica è possibile dare conto analiticamente di ciò che nella parola trascende la mera segnicità di altri codici di comunicazione. S. elabora una batteria di termini teorici che, riferibili anche alla lingua e, per dir così, nati sul terreno della sua analisi, hanno in realtà una valenza semiologica generale. Tali sono l'arbitrarietà più o meno assoluta o relativa della ripartizione dei sensi in significati, delle espressioni in significanti e della unione di significati e significanti in segni; la delimitazione reciproca dei segni previsti dal sistema (la langue, nel caso del linguaggio); la natura di esecuzione, di realizzazione contingente propria dei singoli atti comunicativi (la parole, nel caso del linguaggio); la decomponibilità dei segni in unità minori componibili secondo le regole della sintassi (cioè, nel caso del linguaggio, la decomponibilità delle frasi in parole); la produttività del sistema, che si concreta nella potenzialità di sempre nuovi segni e sempre nuove unità. In un orizzonte semiologico si colgono bene le peculiarità delle lingue e del linguaggio. Esse stanno in ciò che fin dagli anni Novanta S. aveva chiamato "incalcolabilità" degli spostamenti di senso delle parole e in ciò che, di conseguenza, S. addita come la potenziale, imprevedibile dilatabilità del significato di ogni parola, in un passo sfuggito all'attenzione dei primi editori. Ciò rende nel caso della lingua assai particolare il ruolo della parole individuale, non mera esecuzione, ma luogo e fonte di risistemazione dei significati e, quindi, di riassetto della langue. Questa dunque non può essere considerata fuori della considerazione dei parlanti, cioè, come specifica S., della masse parlante e del temps in cui i parlanti e quindi la lingua e i suoi modi di uso si collocano, cioè fuori (dice S.) della storia. Il carattere non meramente esecutivo della parole rispetto al segno e alla langue, e il continuo intreccio di sistematicità e di temporalità, di formalità e di dipendenza dagli usi sociali storici della langue, rendono necessario per i linguisti un lavoro di continua sorveglianza teorica (il terzo dei tre compiti della linguistica) e di elaborazione di accurate distinzioni delle dimensioni su cui si collocano i fatti linguistici reali: la dimensione dell'uso concreto, cioè della parole, la dimensione formale della langue, e la dimensione di ciò che è invece universale, cioè la dimensione del langage; e, nell'analisi di una langue, la dimensione di ciò che ad essa è interno e la dimensione esterna dei suoi rapporti con la masse parlante; la dimensione della simultaneità sincronica, quella della successione diacronica e quella dalla universalità pancronica. Intrecciate in re, tali dimensioni sono necessarie sul piano metodologico per collocare adeguatamente in sede di analisi i fatti linguistici. Anche per S., come per Hegel e Humboldt e, oggi, per teorici come N. Chomsky, la capacità di dominare una realtà così complessa come una lingua (di fronte a essa, dice S., siamo abbandonati da ogni altra analogia del cielo e della terra) non è oggetto di apprendimento: possiamo apprendere e apprendiamo la singola lingua, ma non il linguaggio, che invece è nativamente insediato nel nostro cervello e che nel suo costituirsi e funzionare risente di quelle limitations de l'arbitraire, di quei vincoli di origine biologica e psicologica, indagare i quali è compito della considerazione pancronica (il secondo dei tre compiti della linguistica).