Un affare di stato
Non tutte le società hanno sviluppato forme di teatro, ma laddove il teatro è esistito «è sempre stato un affare di Stato» (Badiou: 2015, p. 53). Ogni arte ambisce a essere pubblica, esige per sé uno spazio d’incontro e di condivisione aperto all’esterno, si nutre delle proiezioni, dei desideri, delle aspettative della società, e incorre nelle censure che tale condizione comporta, ma solo il teatro – assieme alle altre arti performative – fa della partecipazione pubblica, della relazione con lo spettatore la sua cifra ontologica. Il teatro esiste nell’avverarsi di un incontro fra soggetti, fra chi agisce (actor) e chi assiste a questa azione (spectator). Per fare teatro non si può prescindere solo da una cosa: “l’elemento umano” (Brook: 2005, p. 11), ed esso risiede innanzitutto nell’esposizione del corpo, di una presenza corporea che è limite e tensione verso la libertà, verso l’altro da sé. Dalla scena, l’attore comunica questa sua aspirazione agli spettatori, portando l’atto della comunicazione dal piano dei bisogni primari a quello della creazione artistica, della condivisione dell’esperienza estetica. Lo spazio scenico è spazio simbolico che realizza la possibilità dell’uomo di aprirsi all’esterno e di offrirsi all’altro, riconoscendosi uomo fra gli uomini. L’attore si presta a simulare il diverso da sé e dà l’opportunità allo spettatore di essere chi non è, di immedesimarsi, di emozionarsi. In questo processo lo spettatore è presenza fisica, partecipa della rappresentazione, riconosce la propria umanità, si scopre appartenente ad una comunità, in cui si coabita in una rete di diritti e di doveri. La storia del teatro è, anche e sempre, una storia di luoghi. Non a caso è arte il cui nome fa coincidere la sua pratica con lo spazio fruitivo, poiché il teatro è laddove “accade” qualcosa e, a farla accadere, sono le persone che si incontrano, stabiliscono delle regole, si attribuiscono dei ruoli. Il teatro è arte che per esistere ha bisogno del pubblico, condivide con lo Stato il destinatario della ricezione: la società. Esso attiene al politico, nei pregi e nei limiti, e se può darsi come espressione dello Stato, può anche esserne strumentalizzato. Può contribuire alla sua formazione, in direzione della democrazia, ma può anche diventare un mezzo di oppressione e controllo, in direzione dei regimi dittatoriali; può essere strumento educativo e di emancipazione del popolo, ma anche strumento di propaganda per condizionare le masse. La storia del teatro rende conto di un rapporto continuo e dialettico, con le istituzioni politiche nelle diverse epoche. Dal teatro nell’antica Grecia, in cui il teatro ha camminato assieme al concetto di democrazia, influenzandone gli assetti, facendosi osservatorio privilegiato delle trasformazioni culturali, legislative ed economiche, fino alla storia dell’Occidente moderno, in cui il rapporto del teatro con lo Stato si è sviluppato come laboratorio permanente di discussione sulle molteplici forme del potere. Infatti la storia dello spettacolo teatrale è «assimilabile piuttosto alla storia politica che a quella delle arti» (Molinari: 1997, p. 4), poiché il teatro e la politica condividono la comune natura fenomenica, il loro scaturire dall’elemento umano, l’esistenza fondata sulla messa in relazione dell’uomo con altri uomini, una tensione partecipativa che mira al coinvolgimento dell’opinione pubblica.
Nel mondo antico, la magnifica coincidenza
Uno dei momenti più significativi, in cui si verifica un incontro fra teatro e democrazia fondamentale per lo sviluppo e l’evoluzione delle loro stesse identità e delle istituzioni culturali e sociali in genere, è il teatro greco prima ancora della sua codificazione in tragedia e commedia (VI secolo a. C.), nel suo formarsi nell’agorà. Elemento essenziale e originario della città greca, l’agorà era il centro della vita quotidiana della polis e la sede del choròs, e teneva unite le funzioni attinenti al politico e al sacro, luogo di incontro e confronto pubblico e luogo di rappresentazione dell’arte coreutica. Nella cultura greca arcaica non esistono i concetti di autore, attore e spettatore, ciò che accade nell’agorà è la rappresentazione danzata, corale di un patrimonio condiviso: il rinnovamento di una memoria collettiva in cui l’intera comunità si riconosce. Le stesse danze e i canti del coro rispondono a esigenze sociali, sono frutto di pratiche culturali, e in esse è riconoscibile quel patrimonio paideutico di cui è depositaria la tradizione epica. È da questa dimensione corale, paritaria e partecipata che si svilupperanno i concorsi tragici e quel fenomeno straordinario, breve e ancora misterioso che fu la tragedia classica (V secolo a. C.). La tragedia per essere compresa deve essere considerata proprio nella sua duplice natura di forma d’arte e di istituzione sociale affiancata agli organi politici e giudiziari della polis greca. Nella messa in scena tragica «la città si fa teatro; in un certo senso essa prende se stessa come oggetto di rappresentazione e interpreta se stessa davanti al pubblico» (Vernant e Vidal-Naquet: 1976, p. 12). Il darsi come oggetto di rappresentazione significa non solo affermarsi identitariamente, ma soprattutto esporsi ad un tribunale giudicante, capace sia di decretare il successo o l’insuccesso dell’opera, sia di misurarne la reale incidenza nelle strutture costitutive della cosa pubblica. L’esperienza tragica, come ogni fenomeno teatrale, può essere compresa solo in relazione ai valori sviluppati nei contesti sociali e politici di riferimento, in questo caso incarnati dalla città di Pisistrato, di Clistene, di Temistocle, di Pericle, cioè dalla nuova città democratica.
Nel mondo moderno, in cerca di democrazia
Una simile coincidenza non si verificherà più, ed è su questa irripetibilità che è possibile una riflessione sul rapporto fra teatro e politica in epoche che non possono dirsi democratiche. L’assenza di forme di governo basate sulla democrazia non significa che il teatro e la società non ambiscano ai valori che ad essa si riferiscono. Una tensione democratica del teatro può essere individuata in quei momenti della storia in cui la partecipazione della società all’evento spettacolare è ampia e diffusa. Il Rinascimento, con il mito della città e della piazza, è sicuramente uno di questi, un momento fertile di produzione teatrale nonché di riorganizzazione degli spazi pubblici e privati. Si assiste a una mondanizzazione del teatro e a una teatralizzazione del mondo: il teatro mette in scena la piazza idealizzandola, chiudendola e regolandola, mentre la piazza della città ospita i ciarlatani e i girovaghi in un’atmosfera ambigua, caotica ma stimolante al punto da incidere sull’immaginario e sulla produzione teatrale a venire. La teatralità contesa fra gli edifici chiusi e riservati a un certo pubblico e le piazze esposte alla partecipazione popolare determina ogni manifestazione spettacolare fino alla nascita delle democrazie moderne. La progressiva apertura ai temi di attualità più urgenti, l’ambizione a coinvolgere un numero ampio di spettatori e a incidere nel dibattito culturale, politico e sociale del proprio tempo sono alcune delle caratteristiche del teatro del Novecento. Un teatro in cui ogni questione estetica è sempre anche una questione politica; in cui ogni aspetto è degno di attenzione e rinnovamento: il testo, la scena, l’attore, lo spettatore. Si cerca un teatro nuovo, che dia senso a un’epoca contraddittoria, dominata da media più veloci e pervasivi (la radio, il cinema e, infine, la televisione). Sono tanti gli spunti che arrivano dalle esperienze avanguardistiche della vecchia Europa: il teatro della crudeltà di A. Artaud in Francia; la “biomeccanica” di Mejerchol’d in Unione Sovietica; il teatro epico di B. Brecht e E. Piscator in Germania. Un mosaico che unisce, alla tradizione del teatro politico europeo, nuove modalità di produzione e di fruizione, una rinnovata centralità riconosciuta a un’arte che fa del “qui e ora” della rappresentazione scenica un momento irripetibile e unico, proprio nell’epoca in cui l’arte conosce la riproducibilità tecnica. È questo il terreno, fertile e contraddittorio, che accoglierà l’ondata di rinnovamento in arrivo dagli USA con il Living Theatre. Fondato nel 1947 da J. Beck e J. Malina, il Living proporrà un approccio politico ed estetico fondato sulla critica ai limiti della democrazia americana. Nel mondo occidentale, in cui quello democratico diventa nel Novecento il sistema politico di riferimento, il teatro ne rilancerà le istanze più importanti, a partire dal principio di uguaglianza. La compagnia teatrale si porrà sempre più come una comunità, il ruolo degli spettatori sarà sempre più improntato su dinamiche partecipative, il testo drammatico e l’autore cederanno il passo a un processo creativo, condiviso e collettivo, di cui lo spettacolo-evento sarà l’espressione più piena. L’aspirazione a cui il teatro ambisce oggi è quella di essere necessario in una società postmoderna, priva ormai di riti collettivi, in cui l’evento spettacolare resiste come momento di incontro fra persone, di festa, di interazione e gioco. In un’epoca dominata dalla tecnologia, dai simulacri, dall’annichilimento della dimensione corporea ed emozionale, l’unico teatro possibile è quello che ha introiettato i princìpi democratici e che si propone come crocevia d’incontro fra culture diverse; il teatro che si riappropria di uno “spazio pubblico” per offrirsi, come nell’antica Grecia, sia in quanto luogo di aggregazione sociale, di espressione della creatività umana e della bellezza dell’arte, sia in quanto laboratorio permanente di formazione pedagogica e politica.
Riferimenti bibliografici
A. Badiou, Rapsodia per il teatro. Arte, politica, evento, trad. it., Pellegrini, Cosenza 2015.
P. Brook, La porta aperta, trad. it., Einaudi, Torino 2005.
C. Molinari, Storia del teatro, Laterza, Roma-Bari 1997.
J.-P. Vernant, P. Vidal-Naquet, Mito e tragedia nell’antica Grecia, trad. it., Einaudi, Torino 1976.