Termine usato per connotare la condizione antropologica e culturale conseguente alla crisi e all’asserito tramonto della modernità nelle società del capitalismo maturo, entrate circa dagli anni 1960 in una fase caratterizzata dalle dimensioni planetarie dell’economia e dei mercati finanziari, dall’aggressività dei messaggi pubblicitari, dall’invadenza della televisione, dal flusso ininterrotto delle informazioni sulle reti telematiche. In connessione con tali fenomeni, e in contrasto con il carattere utopico, con la ricerca del nuovo e l’avanguardismo tipici dell’ideologia modernista, la condizione culturale p. si caratterizza soprattutto per una disincantata rilettura della storia, definitivamente sottratta a ogni finalismo, e per l’abbandono dei grandi progetti elaborati a partire dall’Illuminismo e fatti propri dalla modernità, dando luogo, sul versante creativo, più che a un nuovo stile, a una sorta di estetica della citazione e del riuso, ironico e spregiudicato, del repertorio di forme del passato, in cui è abolita ogni residua distinzione tra i prodotti ‘alti’ della cultura e quelli della cultura di massa.
Rintracciabile fin dagli anni 1930 nella cultura di lingua spagnola (Antología de la poesía española e hispanoamericana. 1882-1932, a cura di F. de Onís, 1934), diffuso poi dagli anni 1950 nella cultura di lingua inglese e soprattutto negli USA nell’ambito degli studi estetico-letterari, il termine ha trovato poi una più precisa codificazione in architettura e nelle arti, anche dello spettacolo, ed è entrato nel linguaggio filosofico.
Il postmodernismo è una tendenza critica, promossa nel 1961 da P. Johnson, nei confronti degli assunti del razionalismo o del cosiddetto Movimento Moderno (il concetto di funzione, la flessibilità distributiva, la pianta libera ecc.). I testi di P. Blake (Form follows fiasco, 1977) o di C. Jencks (The language of post-modern architecture, 1977) ne forniscono le prime definizioni. Conseguenza di una riaffermazione del legame con la storia, il postmodernismo, con connotati di ambiguità e ironia, si rivela in una molteplicità stilistica che riscopre la valenza liberatoria di pratiche condannate dall’ortodossia modernista, come l’eclettismo e il revival. R. Venturi ne è indicato come uno dei personaggi chiave, come pure C. Moore (piazza d’Italia a New Orleans, 1977-79). Manifestazioni del postmodernismo sono state individuate nelle opere di T. Gordon Smith, di M. Graves, C. Gwathmey e R. Siegel ecc. In Italia il fenomeno ha avuto un’eco sensibile nella 1a Mostra internazionale di architettura (Presenza del passato, 1980).
Nel campo artistico il dibattito sulla postmodernità si è sviluppato parallelamente a ricerche che evidenziavano l’esaurirsi della fiducia nell’effetto ‘liberatorio’ dell’arte e nei procedimenti autoriflessivi delle neoavanguardie degli anni 1960 e 1970. Assieme all’attenuarsi dell’opposizione alle forme artistiche del passato, il postmodernismo è contrassegnato, secondo i suoi teorici, dall’accantonamento del modello estetico modernista fondato sul perpetuo rinnovarsi dei linguaggi. Una revisione delle modalità operative e dell’orizzonte problematico si è imposta anche in campo critico in Europa e negli USA con J.-C. Ammann, B.H.D. Buchloch, H. Foster, T. McEvilley, A. Bonito Oliva, H. Szeeman ecc. Obiettivo polemico è divenuto il tipico schema di perfezionamento (C. Greenberg) in cui la vicenda dell’arte dal tardo Ottocento in avanti era ricostruita come un’evoluzione in senso non rappresentativo e autoreferenziale. La produzione artistica p. appare più come ‘campo’ consapevolmente aperto a interferenze culturali che come uno stile; questa visione non finalistica trova una corrispondenza nella pratica del montaggio, in cui sono sfruttate tutte le tecniche di produzione e riproduzione delle immagini e perde consistenza il concetto di ‘originale’. Si diffonde una visione critica dei rapporti tra produzione culturale e società (B. Bloom, B. Kruger, J. Holzer). Nei primi anni 1990 si stringe il rapporto tra l’arte e il contesto sociale e politico; soprattutto negli Stati Uniti, si assiste all’emergere di artisti appartenenti a gruppi etnici di minoranza e a movimenti trasversali di opposizione. In Europa, dopo una fase volta al recupero di pittura di ascendenza espressionista (tra gli altri, G. Baselitz, E. Cucchi, A. Kiefer), si registra un’ampia diversificazione di tendenze, dall’indagine fotografica (T. Ruff, M. Clegg & M. Guttman), a raffinate variazioni su colore e spazio (D. Bianchi, A. Kapoor), a riflessioni sui ‘modi’ di presentazione e i comportamenti nello spazio dell’opera (C. Boutin, R. Horn, R. Mucha, M. Serebrjakova).
Il concetto di p. entra nel dibattito filosofico e culturale a partire dal 1979, anno in cui J.-F. Lyotard pubblica La condition postmoderne. L’età contemporanea vi è descritta come quella in cui la modernità ha raggiunto il suo termine con la delegittimazione dei «grandi racconti» (grands récits), ovvero delle prospettive filosofiche e ideologiche che, a partire dall’Illuminismo, hanno ispirato e condizionato le credenze e i valori della cultura occidentale: il ‘racconto’ del processo di emancipazione degli individui dallo sfruttamento, quello del progresso come indefinito miglioramento delle condizioni di vita, quello della dialettica come legittimazione del sapere in una prospettiva assoluta. Non più legata ai grandi progetti, l’età p. si caratterizzerebbe piuttosto per la pluralità dei discorsi pragmatici che pretendono soltanto una validità strumentale e contingente. In tale prospettiva si situano le riflessioni dello statunitense R. Rorty, che, in una conciliazione di temi della filosofia analitica e del pragmatismo, ha sottolineato il superamento del mito del discorso vero inteso come conformità a una realtà data e ha ridimensionato i progetti fondazionali delle filosofie del passato, contrapponendo a essi un atteggiamento che mira a dare risposte pragmatiche ai problemi dell’uomo.
In Italia, al concetto di p. ha dedicato attenzione G. Vattimo, elaborando la nozione di ‘pensiero debole’ per definire l’atteggiamento filosofico che ha preso atto della dissoluzione delle certezze e dei valori assoluti, dissoluzione che non porterebbe comunque a una totale negazione del passato, ma piuttosto a un sentimento di pietas nei confronti dei valori e degli ideali della tradizione.
La nozione di p. è entrata dagli anni 1980 nel dibattito critico-estetico, non senza fondate riserve per la sua indeterminatezza; con essa si allude al mutamento di sensibilità prodottosi nelle società del tardo capitalismo, cui corrisponderebbero, in letteratura, un ritorno della poesia all’immagine lirica e alla libera espressione dell’io, e della prosa al piacere della narrazione, mista di elementi storici e fantastici, nonché soprattutto la consapevolezza delle nuove generazioni di scrittori di venire ‘dopo’, e la volontà di andare ‘oltre’, i vari sperimentalismi che hanno caratterizzato il Novecento. Più sicure manifestazioni di un’estetica p. si sono avute nel teatro con le ricerche di gruppi (Magazzini criminali, La gaia scienza, Falso movimento ecc.) che negli anni 1970-80, sviluppando alcune intuizioni della più vivace sperimentazione teatrale, specie romana, hanno dato vita a una stilizzata contaminazione di generi e linguaggi (danza, performance, musica, pubblicità, cinema, video), detta ‘nuova spettacolarità’.
Si è parlato di p. anche per la danza, con riferimento alle nuove forme di teatro-danza e alla post-modern dance statunitense, la quale peraltro trova la sua più precisa definizione in rapporto all’evoluzione della modern dance.