Oncogeni e oncosoppressori
Il cancro è una malattia genetica somatica che colpisce un numero ristretto di geni: gli oncogeni e i geni oncosoppressori. I primi controllano la crescita cellulare stimolando la cellula a dividersi. Le lesioni di questi geni comportano l'acquisizione di una funzione incontrollata. I geni oncosoppressori inibiscono la crescita e, se danneggiati, vengono inattivati. Le lesioni dei geni responsabili del cancro in rari casi vengono ereditate, più spesso sono frutto di mutazioni indotte da cancerogeni chimici. Poiché queste mutazioni colpiscono le cellule somatiche e non quelle germinali, esse non sono ereditarie ma causano la malattia soltanto nell'individuo esposto all'azione mutagenica. Il cancro è una malattia a lento sviluppo perché richiede l'accumulo di danni successivi a carico del programma genetico che controlla la proliferazione cellulare. La progressione neoplastica verso la malignità è frutto della perdita graduale della sensibilità della cellula a segnali che ne regolano la capacità di interagire con l'ambiente circostante. La medicina molecolare progetta l'impiego della terapia genica, che consentirà di sostituire o riparare i geni difettosi delle cellule neoplastiche.
Gli svariati miliardi di cellule di un organismo pluricellulare vivono in una comunità complessa e interdipendente, all'interno della quale la proliferazione di ogni singolo elemento è strettamente controllata. Infatti, le cellule normali danno origine a cellule figlie solo quando il bilancio fra segnali stimolatori e inibitori è a favore della divisione cellulare. Questi segnali consistono in molecole secrete da altre cellule che diffondono liberamente nell'ambiente extracellulare; in questo modo possono essere captati da cellule che espongono appropriate 'antenne', dette 'recettori', sulla loro superficie. Attraverso una fitta rete di segnali, le cellule controllano vicendevolmente le proprie attività e ogni tessuto, cioè l'insieme di cellule simili fra loro, mantiene le dimensioni, la struttura e le funzioni appropriate ai bisogni dell'organismo. Le cellule tumorali, o neoplastiche, sono elementi anarchici che violano la regola dell'obbedienza ai segnali comuni, sfuggono ai meccanismi di controllo della proliferazione e seguono un loro programma autonomo di riproduzione. Inoltre, possono sviluppare una capacità ancora più pericolosa: quella di staccarsi dal luogo di origine, migrare attraverso i tessuti e farsi trasportare dalla circolazione sanguigna: in questo modo riescono a formare tumori secondari sparsi in diversi organi, le metastasi. La capacità di invadere i tessuti e di formare metastasi distingue il tumore maligno, cioè il cancro, da quello benigno. Le cellule cancerose tendono a evolvere spontaneamente verso un aumento dell'autonomia di crescita e della capacità di colonizzare ed espandersi in diversi tessuti, finché l'organismo soccombe a questa specie di 'parassita', generato nel suo stesso interno.
Oggi è noto che, nella maggior parte dei casi, le cellule di un tumore discendono tutte da una singola cellula progenitrice comune che ha subito un danno, cioè una mutazione, a carico dei propri geni; questi, contenuti nei cromosomi del nucleo cellulare, sono costituiti da DNA e codificano le istruzioni necessarie per sintetizzare le proteine, ovvero i componenti strutturali e funzionali della cellula. Il danno genetico può verificarsi anche molti anni prima che il tumore diventi clinicamente evidente e conferisce alla cellula interessata la capacità di dividersi senza rispettare i segnali di controllo provenienti dall'esterno. La cellula trasmetterà alle cellule figlie anche questa proprietà, insieme al resto del suo patrimonio genetico. Secondo la teoria della selezione clonale (fig. 2) la trasformazione di una cellula, o meglio, di una popolazione di cellule, da normale a tumorale avviene gradualmente, attraverso l'accumulo progressivo di numerose mutazioni trasmesse dalla cellula madre alle cellule figlie. Ciascuna di queste lesioni genetiche accresce l'autonomia proliferativa della cellula, che espanderà la propria progenie, cioè il clone, a scapito di tutte le altre. Si realizza, in altre parole, un processo biologico evolutivo in miniatura, in cui le mutazioni producono cloni capaci di riprodursi in modo sempre più rapido e indipendente; la condizione stessa di proliferazione attiva predispone la cellula a subire lesioni genetiche.
Lo studio dell'andamento clinico dei tumori umani e dei modelli sperimentali animali conferma la teoria dell'evoluzione graduale del tumore. È infatti possibile individuare diversi stadi, ben distinguibili morfologicamente, che vanno dalla comparsa di cellule con un aumento della capacità proliferativa, l'iperplasia, e con qualche alterazione morfologica, la displasia, alla formazione del tumore benigno, capace di accrescersi rapidamente ma non di travalicare i confini del tessuto; la trasformazione in tumore maligno prevede la comparsa del cosiddetto 'cancro in situ' , che oltrepassa i confini tessutali ma non penetra nei vasi sanguiferi; in seguito, si sviluppa un cancro dotato di piene capacità invasive e metastatiche. Man mano che il tumore procede verso stadi di maggiore aggressività, si riscontra un aumento nel numero delle lesioni genetiche. Nella fig. 3 è rappresentata l'evoluzione dell'accumulo di mutazioni che caratterizza le varie fasi del cancro del colon. Le ricerche svolte dalla fine degli anni Settanta del Novecento hanno chiarito che le lesioni responsabili dell'insorgenza dei tumori sono riconducibili a due ben definiti gruppi di geni, i protooncogeni e i geni oncosoppressori. In condizioni fisiologiche, le proteine codificate da questi geni partecipano al normale controllo della proliferazione cellulare in risposta agli stimoli extracellulari. I prodotti dei protooncogeni realizzano la trasmissione dei segnali proliferativi dalla superficie della cellula al suo nucleo: qui inducono l'evento chiave della replicazione della cellula, cioè la duplicazione del suo patrimonio genetico. I prodotti dei geni oncosoppressori, al contrario dei precedenti, trasmettono invece segnali inibitori, che agiscono con segno opposto sulla proliferazione cellulare.
Nelle cellule neoplastiche, le lesioni genetiche riscontrate a carico dei protooncogeni sono mutazioni che comportano un'aumentata o incontrollata attività del prodotto proteico, cioè l'attivazione dell'oncogene, o entrambe queste caratteristiche. Di conseguenza, la proliferazione cellulare è iperstimolata ed eventualmente autonoma dai segnali extracellulari. Al contrario, le lesioni dei geni oncosoppressori, responsabili dell'insorgenza dei tumori, sono mutazioni inattivanti: queste, infatti, provocano la perdita di un freno alla divisione cellulare. L'accumulo di un numero di mutazioni sufficienti per la trasformazione di una cellula normale in una cancerosa invasiva richiede, in genere, molti anni: questo giustifica un aumento dell'incidenza di tumori maligni proporzionale all'età. Inoltre, ciò significa che vi è teoricamente molto tempo per accorgersi di una neoplasia in fase iniziale e per estirparla prima che diventi maligna e letale. Tuttavia, gli stadi avanzati della trasformazione neoplastica evolvono molto rapidamente: le lesioni tendono ad accumularsi con una cinetica esponenziale, che non può essere giustificata dal semplice tasso di mutazione spontanea. Il clone neoplastico manifesta cioè una instabilità genetica: la responsabilità di questo fenomeno è attribuibile soprattutto alla lesione di geni che non controllano direttamente la proliferazione cellulare. I prodotti di questi geni, invece, sono preposti ai meccanismi di controllo e riparazione delle lesioni del DNA stesso, che si verificano soprattutto durante la delicata fase di replicazione del materiale genetico. La perdita dei meccanismi di difesa contro il danno genetico fa aumentare notevolmente l'insorgenza di mutazioni che accelerano la selezione di cloni tumorali sempre più aggressivi.
I protooncogeni codificano proteine che trasmettono segnali stimolatori della proliferazione cellulare. Queste proteine mediano una cascata di eventi biochimici che partono dall'esterno della cellula e ne raggiungono il nucleo. L'evento finale è il controllo della trascrizione di numerosi geni, e quindi della sintesi di proteine, alcune delle quali inducono la replicazione del DNA. Questo evento si accompagna alla duplicazione di tutte le strutture cellulari e termina nella divisione in due cellule figlie. In dettaglio, il ciclo di duplicazione di una cellula, detto semplicemente ciclo cellulare, comprende diverse fasi: fase G1, caratterizzata dall'attivazione dei geni da parte degli stimoli proliferativi; fase S, in cui il DNA è duplicato; fase G2, in cui si raddoppia il corredo delle altre strutture cellulari; fase M, la mitosi, in cui la cellula, attraverso una complessa e accurata ripartizione del suo materiale genetico, condensato nei cromosomi, si suddivide in due cellule figlie.
Come regola generale, dopo il completamento della fase M e in mancanza di un segnale proliferativo esterno, la cellula entra in una fase 'quiescente', chiamata G0. La maggior parte delle cellule del nostro organismo si trova normalmente in questa condizione e, dopo che l'organismo ha raggiunto forma e dimensioni adulte, solo eccezionalmente può rientrare nel ciclo proliferativo. Alcune cellule, come quelle nervose, perdono definitivamente la capacità di proliferare ed è questa la ragione per cui le lesioni del sistema nervoso sono in gran parte irreversibili: la perdita di cellule non può essere riparata dalla moltiplicazione di quelle rimaste intatte. Nella maggior parte degli altri organi vi è però un piccolo numero di cellule, molto difficili da identificare e da isolare: le cellule staminali. Queste non escono mai dal ciclo di replicazione, perché hanno il compito di rimpiazzare le perdite fisiologiche o patologiche delle cellule del tessuto in cui risiedono. In ogni tessuto si verifica una situazione simile a quella di un alveare: molte api operaie (le cellule 'normali') svolgono un intenso lavoro (costruire le cellette, produrre il miele, ecc.) ma non hanno il privilegio di riprodursi. La continuità della stirpe è assicurata dall'ape regina (la cellula staminale), la cui unica occupazione è procreare. Nelle cellule staminali, i meccanismi di proliferazione sono dunque fisiologicamente attivati. Se un protooncogene subisce una mutazione che rende il suo prodotto costitutivamente attivo, è facile che la cellula assuma la capacità di proliferare anche in assenza di segnali positivi o che ignori segnali inibitori provenienti dall'esterno. La perdita di questi vincoli è un passo cruciale nella trasformazione in cellula neoplastica.
Qual è la natura dei protooncogeni e quali sono le mutazioni che trasformano questi regolatori fisiologici della proliferazione cellulare in oncogeni attivati, cioè nei responsabili dell'insorgenza del cancro? Sono potenzialmente oncogeni tutti i geni che codificano le proteine coinvolte nella trasmissione di uno stimolo proliferativo, a partire dalle molecole-segnale extracellulari (fig. 4). Queste, dette fattori di crescita, sono per lo più piccole proteine solubili, libere di diffondere nell'ambiente extracellulare e talvolta di circolare nel sangue. In base alla specifica funzione che svolgono, i fattori di crescita vengono distinti in fattori di competenza e fattori di progressione. I primi reclutano le cellule quiescenti nel ciclo cellulare, cioè provocano il transito dalla fase G0 alla fase G1; ne sono esempio l'EGF (Epidermal growth factor), il PDGF (Platelet-derived growth factor), l'FGF (Fibroblast growth factor). I secondi, per esempio l'HGF (Hepatocyte growth factor) e l'IGF1 (Insulin growth factor) sono responsabili della transizione dalla fase G1 alla fase S, cioè del superamento del cosiddetto 'punto di restrizione' del ciclo cellulare. L'attività biologica dei fattori di crescita è mediata da recettori proteici localizzati nella membrana plasmatica, cioè l'involucro, delle cellule bersaglio. I recettori possiedono una porzione extracellulare con cui legano con elevata affinità il fattore, una porzione che attraversa la membrana plasmatica e una terza porzione intracellulare dotata di attività enzimatica. Nella maggioranza dei casi si tratta di un'attività tirosinchinasica, che catalizza cioè il trasferimento di gruppi fosfato dall'ATP a residui di tirosina del substrato.
L'attività enzimatica è strettamente regolata e in condizioni di riposo è inibita. Il legame del fattore alla parte extracellulare del recettore rimuove questa inibizione. L'attività tirosinchinasica, a sua volta, innesca una cascata di reazioni biochimiche, all'interno della cellula, che connettono la captazione del segnale extracellulare con il bersaglio cruciale: i geni del nucleo. I veicoli citoplasmatici del segnale, o trasduttori, sono anch'essi enzimi dotati di subunità regolatrici particolarmente complesse, gli adattatori: questi si 'passano la parola' l'un l'altro attraverso modificazioni come la fosforilazione di residui di tirosina e serina o la produzione di secondi messaggeri, quali particolari fosfolipidi derivati dell'inositolo. I bersagli finali di questa catena di trasmissione di segnali sono i fattori trascrizionali nucleari. Queste proteine stimolano o inibiscono le funzioni del complesso enzimatico della RNA-polimerasi II, cui compete la trascrizione dei geni negli RNA messaggeri che fungono da stampo per la sintesi delle proteine.
L'intero processo, in condizioni fisiologiche, è regolato accuratamente da meccanismi a feedback negativo, capaci di interrompere, a ogni stadio, il flusso dei segnali dalla membrana al nucleo. A differenza dei protooncogeni descritti, gli oncogeni attivati da una mutazione codificano proteine alterate, capaci di innescare la proliferazione, ma insensibili ai meccanismi di retroinibizione che la controllano. Generalmente, l'alterazione della struttura fisica del recettore o del trasduttore del segnale è il risultato di una delezione, di una traslocazione o di una mutazione puntiforme. Le prime sono alterazioni grossolane dei geni: nella delezione, parte della sequenza di DNA è andata perduta, mentre nella traslocazione il gene si è spezzato e poi fuso con frammenti di altri geni. La mutazione puntiforme è un danno genetico apparentemente piccolo, ma con possibili conseguenze devastanti sulla funzionalità del prodotto: può causare la sostituzione di un amminoacido con un altro, che assegna alla proteina proprietà completamente diverse, oppure può inserire un segnale che blocca la sintesi proteica, producendo una proteina incompleta. L'attivazione dell'oncogene, inoltre, può essere conseguenza dell'amplificazione genica: invece che in copia duplice, l'oncogene è presente in numerose copie; in questo modo la trascrizione in RNA messaggero è aumentata e la proteina si accumula nella cellula. Altre volte, la trascrizione può essere eccessiva, anche in presenza di un normale numero di copie del gene: questo fenomeno può derivare da un'anomalia del promotore, la regione regolatrice della trascrizione del gene, o dall'iperattività dei fattori trascrizionali che lo controllano.
Gli oncogeni sono classificati in base alla funzione dei loro prodotti. La classificazione più comune li suddivide in gruppi, partendo dalle proteine che agiscono a livello della superficie della cellula per procedere con quelle localizzate nel citoplasma e quindi nel nucleo. La classe I comprende oncogeni che codificano i fattori di crescita, quali sis che codifica la catena β del PDGF, hst e int-2 che codificano molecole della famiglia dell'FGF. In questi casi, il potere oncogenetico di tali proteine sembra risiedere soprattutto nella formazione di circuiti di stimolazione autocrina. In condizioni fisiologiche, le cellule che espongono i recettori per un fattore di crescita sono distinte dalle cellule che producono il fattore stesso. Invece, la condizione patologica in cui il fattore e il recettore vengono prodotti dalla stessa cellula si chiama autocrinia e dà luogo a una stimolazione della proliferazione molto difficile da interrompere. Inoltre, quando fattore di crescita e recettore sono prodotti congiuntamente, possono incontrarsi all'interno della cellula stessa, dando luogo a uno stimolo particolarmente pericoloso. Un circuito autocrino del PDGF è coinvolto in alcuni tumori cerebrali detti 'gliomi'.
La classe II comprende oncogeni che codificano forme mutate di recettori di membrana per fattori di crescita. Fra i primi a essere stati identificati vi sono membri della famiglia di recettori che legano l'EGF e fattori simili, quali HER1 e HER2 (Human EGF receptor 1 e 2), coinvolti nel cancro mammario. Più di recente è stato identificato l'oncogene MET, che codifica il recettore dell'HGF ed è attivato nel cancro del rene, del colon-retto, della tiroide, dell'ovaio e dell'osso, l'osteosarcoma. Sia il recettore dell'EGF sia quello dell'HGF sono attivati in conseguenza dell'iperespressione e dell'accumulo di una gran quantità di recettori nella membrana della cellula. Questa situazione di 'sovraffollamento' causa l'attivazione dei recettori anche in assenza del fattore di crescita all'esterno della cellula. L'oncogene MET è inoltre attivato da mutazioni puntiformi individuate in forme ereditarie e sporadiche di cancro renale. L'oncogene RET, responsabile di forme tumorali ereditarie (MEN2, Multiple endocrine neoplasia type 2), codifica un recettore la cui attività catalitica ha alterazioni nell'affinità per i substrati a causa di mutazioni puntiformi.
Oltre a tirosina-chinasi recettoriali, gli oncogeni codificano anche tirosina-chinasi completamente citoplasmatiche, come quelle della famiglia SRC, o come ABL, la cui attività è presente anche a livello nucleare. Questi oncogeni appartengono alla classe III. L'alterazione di ABL è dovuta alla fusione parziale con il gene BCR, a seguito di una traslocazione che dà luogo al cosiddetto 'cromosoma Philadelphia'. Questa alterazione è tipica delle cellule del sangue colpite da una forma tumorale detta 'leucemia mieloide cronica'. Le lesioni di questi oncogeni causano un aumento dell'attività tirosinchinasica dei loro prodotti. La classe IV comprende gli oncogeni della famiglia RAS, che si ritrovano attivati in un'elevata percentuale di tumori che si sviluppano da organi differenti. I prodotti di questi oncogeni sono proteine monomeriche associate alla faccia interna della membrana plasmatica e dotate di attività GTPasica, in maniera simile alle cosiddette 'proteine G'. Ricevono un segnale attivatore da parte dei recettori tirosinchinasici e a loro volta lo trasmettono alla serinchinasi citoplasmatica codificata da raf, il capostipite della classe V. Le proteine Ras isolate dai tumori portano in genere delle mutazioni puntiformi che rallentano l'attività di idrolisi del GTP, la quale ha il ruolo di autolimitare le funzioni-segnale della proteina. La classe VI codifica proteine a localizzazione nucleare, molte delle quali sono fattori trascrizionali. Un esempio rappresentativo è myc, la cui proteina, in condizioni fisiologiche, è prodotta nelle cellule soltanto dopo stimolazione con fattori di crescita. In numerose forme di cancro, soprattutto leucemie, l'oncogene è iperespresso e i livelli della proteina restano costantemente elevati. Altri fattori trascrizionali coinvolti nell'insorgenza di neoplasie sono Fos e Jun.
Perché una cellula si trasformi da normale in neoplastica è indispensabile che, oltre all'attivazione di uno o più oncogeni, vengano inattivati geni oncosoppressori. Al contrario dei precedenti, questi geni codificano proteine che mediano segnali negativi per la proliferazione cellulare. Questi segnali comprendono sia molecole solubili, cioè fattori inibenti la crescita, sia molecole presenti sulla superficie delle cellule contigue, sia componenti strutturali fissi dell'ambiente che circonda le cellule, cioè della matrice extracellulare. Il contatto con la superficie delle cellule circostanti, o con proteine da esse prodotte, tiene a freno la tendenza della cellula a espandersi con la proliferazione. La cellula capta questi messaggi inibitori con recettori a elevata affinità, analogamente a quanto avviene per i recettori dei fattori di crescita. Anche in questo caso, il segnale è trasdotto al nucleo della cellula attraverso attivazioni molecolari a catena. La natura e le relazioni delle proteine che partecipano a queste vie di segnalazione sono poco note, rispetto a quanto si sa degli oncogeni: è infatti tecnicamente più difficile studiare un segnale cellulare negativo piuttosto che uno positivo. Tuttavia, nonostante le difficoltà d'indagine, viene riconosciuta un'importanza sempre maggiore alle alterazioni dei geni oncosoppressori: essi sembrano avere un ruolo fondamentale soprattutto nelle prime fasi della trasformazione neoplastica e conferiscono una predisposizione ereditaria al cancro.
Le lesioni responsabili della cancerogenesi sono infatti di tipo inattivante, al contrario di quelle degli oncogeni, che sono di tipo attivatore. All'interno di ciascuna cellula ogni gene è rappresentato in due copie, gli alleli, ognuna delle quali è ereditata da ciascuno dei due genitori; perché vi sia un effetto patologico è necessario che siano inattivati entrambi gli alleli di un gene oncosoppressore. La doppia inattivazione è un evento che richiede molto tempo per realizzarsi, ma le probabilità che accada aumentano notevolmente se uno dei due alleli è ricevuto in forma già mutata da uno dei due genitori. Al contrario, un oncogene attivato non è di regola trasmesso dal genitore al figlio, poiché può essere così pericoloso da danneggiare irreparabilmente lo sviluppo intrauterino, cioè può dar luogo a una mutazione letale. La classificazione dei geni oncosoppressori non segue criteri precisi come quella degli oncogeni, ma si possono comunque distinguere geni che codificano: (a) fattori extracellulari e loro recettori; (b) proteine citoplasmatiche; (c) proteine nucleari (fig. 5).
Il TGF-β (Trasforming growth factor) è una proteina solubile extracellulare che, a dispetto del suo nome, ha la capacità di bloccare la proliferazione delle cellule. In alcune forme di cancro del colon risulta inattivato il recettore per questo fattore: una proteina dotata di attività catalitica intracellulare di tipo serinchinasico, capace cioè di fosforilare residui di serina. In alcuni tumori del pancreas è invece inattivo il gene DPC4, il cui prodotto proteico opera a valle del recettore del TGF-β. La proteina codificata dall'oncosoppressore DCC (Deleted in colon carcinoma) attraversa la membrana plasmatica in modo analogo ai recettori per i fattori di crescita ed è capace di legare elementi strutturali della matrice extracellulare. È stata identificata una famiglia di geni, detti GAS (Growth arrest specific), che codificano proteine, alcune delle quali situate sulla membrana della cellula, responsabili di segnali inibitori della proliferazione.
Fra le proteine citoplasmatiche codificate da geni oncosoppressori, sono rappresentativi i prodotti di APC e NF1. APC è responsabile della poliposi adenomatosa ereditaria del colon, una malattia relativamente rara caratterizzata dalla precoce comparsa di centinaia di tumori benigni nel colon, che col tempo diventano maligni. Inoltre, APC si ritrova mutato nelle fasi iniziali di insorgenza di altri tumori, non ereditari, dell'apparato digerente. La proteina codificata da questo gene svolge un ruolo di modulatore dei segnali di contatto fra le cellule, agendo a valle di recettori, detti 'caderine', situati nelle zone di giunzione intercellulare. L'alterazione di NF1 è implicata nella neurofibromatosi ereditaria di Von Recklinghausen, caratterizzata dall'insorgenza di tumori del sistema nervoso. Il prodotto di questo oncosoppressore è una proteina capace di inibire l'attività dell'oncogene Ras che è un potente stimolatore della proliferazione cellulare.
Fra gli oncosoppressori che codificano proteine a localizzazione nucleare, quelli meglio studiati sono p53, Rb, p16, VHL. L'oncosoppressore p53 è inattivato in una rara malattia ereditaria, la sindrome di Li-Fraumeni, che predispone all'insorgenza di cancri multipli, ma soprattutto si ritrova mutato in parecchi tumori non ereditari. È, dunque, un gene di straordinario interesse per la comprensione dei meccanismi di cancerogenesi ed è anche uno dei più promettenti candidati per la terapia molecolare del cancro. La proteina p53 è stata soprannominata 'il guardiano del genoma' perché ha la funzione di monitorare l'integrità del DNA: quando si imbatte in un danno genetico si attiva come fattore trascrizionale e promuove l'espressione di geni che arrestano la divisione della cellula e, in casi estremi, ne provocano la morte: in questo modo si scongiura il pericolo di trasmettere la mutazione alle cellule figlie. Il gene Rb è l'oncosoppressore la cui inattivazione è responsabile del retinoblastoma, un cancro dell'occhio a incidenza familiare che insorge nei bambini. La proteina Rb corrispondente è un inibitore della progressione nel ciclo cellulare. L'oncosoppressore p16 si ritrova inattivato in numerosi tipi di cancro non ereditario: anche il prodotto di questo gene è un inibitore dei fattori che regolano il passaggio attraverso le varie fasi del ciclo cellulare. VHL, uno degli oncosoppressori identificati più recentemente, è responsabile della rara sindrome di Von Hippel-Lindau, caratterizzata dall'insorgenza di numerosi tumori maligni localizzati nel rene, nella ghiandola surrenale e nei vasi sanguiferi. Il suo prodotto è una proteina che regola le funzioni dell'RNA-polimerasi. In mancanza di VHL, viene prodotto un eccesso di RNA messaggero per la sintesi di proteine che stimolano la proliferazione cellulare.
I geni, capaci di regolare negativamente la duplicazione della cellula, sono stati definiti collettivamente geni gatekeepers (letteralmente, 'geni uscieri'). Alcuni geni, fino a poco tempo fa definiti genericamente oncosoppressori per la loro trasmissione familiare e il tipo di lesione, cioè l'inattivazione di entrambi gli alleli, si stanno configurando come un gruppo a parte, i geni caretakers (letteralmente, 'geni manutentori'). Questi geni non hanno il compito di mediare segnali stimolatori o inibitori della proliferazione, ma sono coinvolti nel controllo dell'integrità o nei processi di riparazione del DNA, che la cellula deve tenere sempre attivi per difendersi dagli insulti ambientali. Appartengono a questo gruppo i geni BRCA1 e BRCA2, inattivati nel cancro della mammella a trasmissione familiare; sebbene abbiano struttura diversa, le proteine che codificano sono entrambe coinvolte nella sorveglianza della corretta replicazione dei cromosomi.
Il gene ATM codifica una proteina che controlla l'integrità del DNA; risulta mutato nella sindrome atassia-teleangectasia, caratterizzata da disturbi nervosi, malformazioni dei vasi sanguiferi e ipersensibilità alla cancerogenesi da radiazioni. Fra i geni oncosoppressori, p53 esplica sia la funzione di caretaker, perché rileva le mutazioni del DNA, sia quella di gatekeeper, perché inibisce la proliferazione cellulare. Altri geni caretakers codificano gli enzimi che riparano le lesioni rilevate dalle proteine che controllano la struttura del DNA. La presenza di una lesione ereditaria dei geni caretakers predispone fortemente allo sviluppo del cancro. D'altra parte, anche quando il processo della trasformazione neoplastica è iniziato a causa delle mutazioni di oncogeni e oncosoppressori, la compromissione di un gene caretaker innesca il fenomeno dell'instabilità genetica che causa una rapida evoluzione del tumore verso la massima aggressività. La scoperta dei geni caretakers ha fatto luce sui meccanismi che generano e su quelli che, in condizioni fisiologiche, riparano i danni dei geni regolatori della proliferazione cellulare.
Tutto il nostro patrimonio genetico è soggetto a danni che ne minacciano l'integrità e che rischiano di distruggere o distorcere le informazioni per la costruzione e il mantenimento delle cellule e, in definitiva, dell'intero organismo. La perdita di una copia di una proteina danneggiata non è, entro certi limiti, un evento pericoloso per la cellula: anzi, la maggior parte dei componenti macromolecolari è soggetta a usura fisiologica e a continuo rinnovo. Al contrario, il materiale genetico viene custodito gelosamente ed è sintetizzato ex novo solo in occasione della replicazione cellulare. Com'è noto, esso contiene una sequenza complessa di informazioni, conservate in copia duplice o addirittura semplice, nel caso dei cromosomi sessuali. Il DNA è costituito da due filamenti paralleli e complementari che sono l'uno la copia speculare dell'altro. Durante la replicazione i due filamenti si scindono e fungono ciascuno da 'calco' per la sintesi di quello parallelo.
Per preservare intatto nel tempo questo patrimonio di informazioni preziose, la copiatura viene limitata allo stretto necessario, così da minimizzare il rischio di errori. Inoltre vi sono complessi sistemi di monitoraggio dell'integrità del DNA nonché meccanismi di riparazione; la cellula cerca di scongiurare in tutti i modi possibili la trasmissione di copie sbagliate di un gene alle cellule figlie. Il genoma è in equilibrio fra eventi che ne causano l'alterazione e sistemi di pronto intervento per la riparazione delle lesioni. Le mutazioni sono in parte spontanee, cioè insite nell'imperfezione del sistema di duplicazione del DNA. Questo non ha solo conseguenze negative: determina anche la comparsa di nuovi caratteri che, se costituiscono un vantaggio selettivo, possono trasmettersi con successo attraverso le generazioni e sono alla base dell'evoluzione delle specie. Vi sono però situazioni ambientali che accelerano il tasso spontaneo di mutazione, con conseguenze più spesso nefaste che positive.
Risale a due secoli fa il riconoscimento delle prime sostanze chimiche cancerogene: il medico inglese Percival Pott (1713-1788) mise in relazione il cancro dello scroto degli spazzacamini con l'esposizione prolungata al catrame contenuto nella fuliggine. Più tardi si scoprì che i coloranti chimici provocano il cancro della vescica nei lavoratori dell'industria delle vernici. Da queste sostanze si isolarono quindi dei composti capaci di indurre il cancro in animali da esperimento e, per analogia di struttura molecolare, se ne individuarono numerosi altri presenti nell'ambiente, sia naturali sia artificiali. Fra i più diffusi vi sono composti appartenenti alle famiglie degli idrocarburi policiclici aromatici, delle ammine aromatiche, delle nitrosammine e degli idrocarburi clorurati. Queste molecole sono prodotti di sintesi industriale; talvolta residuano dalla combustione di molecole organiche, presenti nel fumo delle ciminiere così come in quello delle sigarette. Sono cancerogene anche molecole inorganiche quali i composti del berillio, del cadmio, del cobalto, del cromo e del nichel. Molte molecole di sintesi, di cui è stato riconosciuto il potere cancerogeno, sono state abolite dalla produzione e dal commercio, tra cui i coloranti alimentari banditi negli anni Settanta del Novecento. Tuttavia, molti composti cancerogeni sono ancora ignoti o sfuggono al controllo di chi dovrebbe tutelare la salubrità dell'ambiente; altri, come per esempio quelli presenti nel tabacco, sopravvivono grazie a interessi commerciali difficili da intaccare. Oltre ai prodotti della civiltà industriale, sono cancerogene anche sostanze di origine vegetale, come la cicasina, o microfungine, come l'aflatossina B1; il rischio di esposizione a questi composti è però basso, almeno nei Paesi occidentali.
L'identificazione dei 'cancerogeni' con i 'mutageni' non è stata immediata: ci sono voluti molti studi, e grandi controversie, prima di riconoscere che il bersaglio dell'attività lesiva dei cancerogeni è il DNA e che il cancro insorge a causa delle sue mutazioni. Uno degli ostacoli alla comprensione del meccanismo d'azione dei cancerogeni è il fatto che molte di queste molecole non sono mutagene così come si trovano nell'ambiente: lo diventano solo a seguito di trasformazioni chimiche che subiscono all'interno del corpo umano. Queste reazioni metaboliche sono paradossalmente catalizzate dai sistemi di detossificazione, catene di enzimi presenti nel fegato e in altri tessuti esposti al contatto con l'ambiente esterno. Si tratta di modificazioni volte a facilitare lo smaltimento delle sostanze estranee attraverso gli organi escretori della bile e dell'urina. Tuttavia, prima di giungere alla forma definitiva, i composti assumono forme intermedie ossidate, molto reattive nei confronti di altre molecole elettricamente cariche, tra cui il DNA; i cancerogeni reagiscono con le basi puriniche, Adenina e Guanina, e pirimidiniche, Citosina e Timina, che costituiscono l'alfabeto a quattro caratteri con cui sono scritte tutte le informazioni genetiche. Ogni volta che una base è danneggiata, si distorce o si perde una lettera di una parola genetica, il cui significato originale può non essere più ricostruibile: si verifica cioè una mutazione.
Non esistono solo cancerogeni chimici: le radiazioni ionizzanti emesse durante la fissione nucleare e i raggi X hanno dimostrato di essere potenti agenti mutageni e cancerogeni. Queste radiazioni sono onde elettromagnetiche come quelle che costituiscono la luce visibile, ma dotate di energia molto più grande: riescono a ionizzare le molecole che colpiscono, cioè a perturbare la nuvola elettronica che ne circonda gli atomi, e trasformano le molecole chimicamente inerti in specie reattive. Anche i raggi solari ultravioletti sono radiazioni ionizzanti, sebbene abbiano minore energia dei raggi X; sono tuttavia capaci di penetrare negli strati superficiali della cute, dove provocano mutazioni. Particolarmente sensibili a tali radiazioni risultano le cellule pigmentate dell'epidermide, i melanociti, da cui origina una forma di cancro molto aggressiva detta melanoma. Le radiazioni possono colpire il DNA direttamente o indirettamente, attraverso la ionizzazione di altre molecole presenti nella cellula. Come nel caso dei cancerogeni chimici, la molecola di DNA subisce delle alterazioni strutturali che modificano l'informazione contenuta nel gene.
Le alterazioni genetiche che possono colpire oncogeni e oncosoppressori non si limitano però al danno indotto dai cancerogeni chimici e alle radiazioni. La scoperta degli oncogeni, anzi, è avvenuta contestualmente a quella dei virus oncogeni, alimentando, per un breve periodo, la speranza di aver scoperto gli agenti eziologici del cancro. Più tardi si è compreso che i virus sono responsabili solo di una percentuale minima di tumori umani. Tra quelli strettamente associati a neoplasie vi sono i virus della leucemia umana a cellule T, dell'epatite B, di Epstein-Barr e quello del papilloma umano. I virus sono microrganismi che, a differenza dei batteri, non sono capaci di replicarsi in maniera autonoma; devono infettare altre cellule, inserendovi il proprio genoma, e sfruttare l'apparato di replicazione del DNA dell'ospite. Così facendo, essi danneggiano la struttura del DNA come i cancerogeni chimici; si verifica cioè la mutagenesi inserzionale. In alcune specie animali i virus possono produrre il cancro veicolando tratti di DNA mutati, che interferiscono con le informazioni genetiche della cellula ospite.
Qualunque sia l'agente mutageno, le lesioni riscontrate a carico degli oncogeni e dei geni oncosoppressori possono essere di tipo qualitativo o quantitativo. Le lesioni minime sono le cosiddette 'mutazioni puntiformi'. In termini molto semplificati, quando una sola base della sequenza di DNA è modificata, la copiatura fedele del filamento è compromessa e al posto della base danneggiata ne viene introdotta un'altra a caso. Di conseguenza, l'informazione per la costruzione della proteina presenta un errore che causa la sostituzione di un amminoacido con un altro. Da ciò possono derivare proprietà strutturali e funzionali drammaticamente diverse. Un esempio di mutazione puntiforme attivante è quella che colpisce l'oncogene Ras: la sostituzione di un amminoacido nel sito catalitico GTPasico abolisce l'autolimitazione del segnale proliferativo. Mutazioni puntiformi inattivanti sono comuni nel gene oncosoppressore p53.
Talvolta, invece, i danni strutturali prodotti dai mutageni sono vistosi: possono verificarsi delezioni, cioè rotture, nel filamento di DNA, che causano la produzione di proteine tronche. Di regola, le delezioni si accompagnano a una perdita di funzione, particolarmente pericolosa nel caso di geni oncosoppressori. Talvolta possono avere un risultato opposto, provocando l'attivazione di un oncogene. Un caso rappresentativo è quello dell'oncogene v-erbB: veicolato da un virus aviario, codifica una forma tronca di recettore dell'EGF, privo di dominio extracellulare e dotato di attività tirosinchinasica costitutivamente attiva. Quando le rotture nel DNA sono multiple, possono verificarsi ricuciture tra frammenti di geni diversi, cui segue la produzione di proteine chimeriche, con prevedibili alterazioni funzionali, come il caso del già citato oncogene bcr-abl. Le rotture e le ricuciture anomale possono essere visibili a livello dei cromosomi, sotto forma delle cosiddette 'traslocazioni'.
Nelle cellule neoplastiche, i danni quantitativi all'informazione genetica sono dovuti soprattutto a errori che si accumulano nella duplicazione degli interi cromosomi. Ciò si verifica molto spesso a seguito del cattivo funzionamento di geni che sorvegliano l'integrità del genoma. Questi errori generano anomalie cromosomiche dette HSR (Homogenously staining regions), o ABR (Abnormally banding regions), o ancora DM (Double minutes). Queste anomalie corrispondono a regioni di amplificazione genica, cioè a zone contenenti molteplici copie di uno stesso gene. Questo fenomeno contribuisce direttamente alla trasformazione neoplastica perché, come discusso, un oncogene può essere attivato anche quando il suo prodotto, strutturalmente corretto, è sintetizzato in quantità eccessiva.
La cellula ha sviluppato complessi sistemi per difendersi dai danni al DNA: già prima che il nostro ambiente fosse contaminato dai cancerogeni artificiali era necessario riparare le lesioni indotte dall'esposizione ai raggi ultravioletti e da alcuni prodotti endogeni del metabolismo ossidativo, cioè i radicali liberi, che si comportano come blandi agenti mutageni. I principali enzimi coinvolti nella riparazione del DNA comprendono le nucleasi, capaci di riconoscere le alterazioni dei nucleotidi del DNA e di scinderli dalla sequenza in cui sono inseriti; la DNA-polimerasi, che sostituisce i nucleotidi asportati con nucleotidi corretti; le ligasi, che riformano i legami per rendere continua la catena del DNA. Sono note malattie genetiche ereditarie in cui gli enzimi riparativi del DNA sono deficitari: tutte predispongono all'insorgenza di tumori già in età infantile. La più nota è lo xeroderma pigmentoso, caratterizzato da ipersensibilità ai raggi ultravioletti, che causano danni gravissimi alla cute e agli occhi anche dopo brevi esposizioni al sole. In questa malattia sono difettosi i geni delle nucleasi. È stata anche chiarita l'importanza degli enzimi preposti alla correzione postreplicativa dei cosiddetti mismatch, cioè degli errori di accoppiamento fra basi giustapposte sui due filamenti paralleli del DNA. Alcuni dei geni che li codificano, fra cui hMSH2 e hMLH1, sono inattivati nel cancro ereditario non poliposico del colon-retto.
Il bersaglio dei segnali positivi o negativi mediante i quali gli oncogeni e i geni oncosoppressori regolano la proliferazione è chiamato 'orologio cellulare' (fig. 6). Questo orologio biologico scandisce i tempi di replicazione della cellula. Il passaggio fra le varie fasi del ciclo, G1, S, G2 e M, è causato dall'attività di complessi proteici formati da una subunità regolatrice, detta 'ciclina', e una subunità enzimatica, detta chinasi ciclina-dipendente (Cdk). Esistono diversi tipi di cicline e di Cdk, che si associano a formare complessi specifici che regolano il passaggio attraverso ciascuna delle fasi del ciclo. Durante la fase G1, i fattori di crescita stimolano la sintesi delle cicline D che si legano alla Cdk4 o alla Cdk6. Il complesso attivato fosforila, a livello di diversi residui di serina, la proteina Rb, un potente inibitore di fattori trascrizionali. Quando Rb è fosforilata, i fattori trascrizionali vengono liberati e stimolano l'espressione di una serie di geni fra cui quello della ciclina E. La ciclina E, a sua volta, forma con la chinasi Cdk2 un complesso attivo, responsabile della transizione dalla fase G1 del ciclo a quella S, in cui avviene la sintesi del DNA. Per il completamento della duplicazione del materiale genetico e la suddivisione in due cellule figlie, intervengono altri due complessi enzimatici ciclina-chinasi composti dalla Cdk1 con la ciclina A e con la ciclina B.
Questi complessi proteici, che stimolano il passaggio attraverso le varie fasi del ciclo, sono controbilanciati da proteine capaci di rallentare o bloccare l'attività dei sistemi ciclina-chinasi. Fra queste vi sono la p15, la p16 e la p27, che hanno la funzione di bloccare l'attività delle Cdk dipendenti dalla ciclina D, impedendo così il passaggio attraverso la fase G1; la p27, inoltre, inibisce il complesso ciclina E-Cdk2 specifico per il passaggio da G1 a S. I fattori inibitori della proliferazione provenienti dall'ambiente extracellulare, come il già menzionato TGF-β, inducono l'espressione di queste tre proteine. Esiste anche un inibitore attivo su tutte le Cdk, chiamato p21, che può dunque bloccare la cellula in qualunque fase del suo ciclo. La p21 è indotta a livello trascrizionale dalla p53, la proteina oncosoppressore che sorveglia l'integrità del DNA cromosomico soprattutto durante il delicato momento della replicazione.
Come incidono le alterazioni degli oncogeni e degli oncosoppressori in questo complesso meccanismo di regolazione del ciclo? Uno dei punti critici è sicuramente il passaggio dalla fase G1 alla S. L'attivazione degli oncogeni che mediano la trasduzione del segnale dei fattori di crescita è potenzialmente in grado di iperstimolare la sintesi della ciclina D, e dunque di attivare il complesso con la Cdk4 o 6, che stimola la progressione attraverso G1. In alcuni tumori è stata evidenziata una sovrapproduzione spontanea di cicline D ed E; tuttavia non è mai stato possibile dimostrare che le cicline possano da sole indurre la trasformazione neoplastica. Per quanto riguarda i geni oncosoppressori, l'inattivazione del gene Rb, che si verifica in una percentuale elevata di tumori, causa l'attivazione costitutiva dei fattori trascrizionali che stimolano la sintesi della ciclina E e dei geni responsabili per l'inizio della sintesi del DNA. L'inattivazione di p15 e p16, riscontrata nei tumori della mammella e della cute, provoca la perdita dei due principali inibitori diretti del passaggio fra G1 e S.
Fra tutti i regolatori positivi e negativi del ciclo cellulare un'importanza cruciale è attribuibile alla p53, che è inattivata in un numero molto alto di casi di cancro. Questa proteina oncosoppressore è in grado di rilevare un danno fisico al DNA e di bloccare, in conseguenza, il ciclo cellulare in qualunque fase, attraverso l'induzione della p21. In questo modo esercita la fondamentale funzione di impedire a una cellula mutata di trasmettere la lesione alla sua progenie. La p53 è anche un regolatore-chiave della morte cellulare programmata o apoptosi. Tale fenomeno avviene fisiologicamente durante lo sviluppo e l'accrescimento dei tessuti sani, in cui la forma, le dimensioni e le funzioni definitive vengono raggiunte grazie a un bilancio continuo fra aumento del numero di cellule e perdita di elementi superflui o addirittura dannosi. In condizioni patologiche, la distruzione di una cellula danneggiata è un'ottima strategia per l'organismo nel suo complesso, in quanto il potenziale pericolo rappresentato da una mutazione è assai più grave della semplice perdita di una singola cellula. La p53 induce una proteina, Bax, che a sua volta inibisce la proteina Bcl-2. Quest'ultima, prodotta in abbondante quantità da una linea di leucemia a cellule B, tiene a freno, in condizioni di normalità, i programmi genetici che conducono all'apoptosi. Il risultato conclusivo di questa complessa serie di attivazioni e inibizioni è che la p53 mutata delle cellule tumorali non è più capace di stimolare l'apoptosi delle cellule danneggiate.
Mentre disponiamo di una serie consistente di informazioni sui meccanismi che portano alla trasformazione neoplastica, conosciamo ancora poco o nulla delle alterazioni genetiche che favoriscono la progressione della malignità verso gli stadi successivi. In particolare, sono ancora elusivi i geni che permettono alle cellule neoplastiche di attrarre i vasi sanguiferi che le alimentano, cioè promuovere la neoangiogenesi, di invadere i tessuti circostanti e di formare metastasi. Nel processo di metastasi diventa critica una serie di eventi indipendenti, ma collegati tra loro in una specifica sequenza: distacco delle cellule dalla massa del tumore primario; invasione del tessuto connettivo locale e dei vasi sanguiferi e linfatici; disseminazione ematica o linfatica; arresto in una nuova sede; fuoriuscita dai vasi e invasione del nuovo territorio; colonizzazione della nuova sede. Per tutto il corso del processo sono inoltre necessarie la promozione di angiogenesi, cioè la formazione di nuove ramificazioni vascolari, e la resistenza verso il sistema immunitario dell'ospite. Infine, le cellule neoplastiche migranti, avulse dal loro contesto fisiologico, devono sopravvivere all'apoptosi.
L'invasione tessutale e la disseminazione delle metastasi avvengono attraverso l'esecuzione di programmi genetici, la cui espressione è normalmente limitata ad alcune cellule embrionali nel corso del processo di sviluppo. La simulazione di questi programmi da parte di una cellula neoplastica può avvenire per alterazioni dell'espressione di geni attivi in limitate fasi della vita embrionale ma repressi nelle cellule somatiche dell'organismo adulto. La regolazione di questi geni risponde a segnali extracellulari che comprendono fattori di migrazione (motogeni), di crescita (mitogeni) e di differenziamento (morfogeni) ed è mediata dall'apparato di trasduzione intracellulare e da fattori trascrizionali specifici. Nel corso del processo differenziativo, le cellule embrionali, come le cellule metastatiche, si muovono nell'interno delle matrici intercellulari. Il movimento comporta una serie di modificazioni coordinate delle strutture citoscheletriche e adesive della cellula. Sono state identificate molecole diffusibili capaci di stimolare la motilità cellulare e di orientarla in direzioni precise.
Questi fattori, motogeni, sono secreti dalle cellule stromali, cioè i fibroblasti e le cellule endoteliali, o dalle cellule migranti che infiltrano i tessuti e agiscono sulle cellule parenchimali circostanti secondo un circuito paracrino. In modo aberrante, una neoplasia può indurre la secrezione di fattori motogeni da parte dello stroma circostante o produrli essa stessa, secondo un circuito autocrino. La conseguenza è una stimolazione del movimento delle cellule neoplastiche e lo scatenamento delle loro proprietà invasive. Un esempio è rappresentato dai fattori della famiglia degli scatter factors (fattori di dispersione), molecole secrete dai fibroblasti stromali che stimolano la dissociazione dei foglietti epiteliali e l'invasione delle matrici extracellulari, orientando la migrazione delle cellule secondo il proprio gradiente di concentrazione. I primi due fattori di dispersione identificati sono l'HGF e l'MSP (Macrofage stimulating protein); è interessante notare che i loro recettori sono codificati da due oncogeni: MET e RON. Entrambi i fattori sono capaci di indurre, da soli, nelle cellule epiteliali l'intero programma biologico di invasione e migrazione nei tessuti.
Il processo metastatico è accompagnato, con frequenza, dalla delezione o dall'inattivazione funzionale di geni per le caderine o per altri recettori di molecole che mediano l'adesione tra le cellule. In altre situazioni questi recettori vengono inattivati a seguito di modificazioni post-trascrizionali, che includono lo splicing alternativo o la fosforilazione sulla tirosina del complesso recettore-catenine nell'interno della cellula. La fosforilazione interferisce con l'ancoraggio della membrana al citoscheletro e destabilizza l'adesione intercellulare. Le caderine sono proteine integrali di membrana che mediano l'adesione tra cellule dello stesso tipo e sono le principali responsabili della coesione dei tessuti epiteliali. La porzione extracellulare di questi recettori omofilici si lega in maniera specifica, in presenza di ioni calcio, a una molecola identica su una cellula adiacente. In tal modo, cellule dello stesso tipo si riconoscono e si ancorano reciprocamente. La caderina E sembra coinvolta direttamente nel processo di metastatizzazione: manipolandone con tecniche di ingegneria genetica il livello di espressione, si è osservato che una sua riduzione promuove la dissociazione delle cellule epiteliali in coltura. D'altro canto, l'introduzione della caderina E in cellule maligne ne sopprime la capacità invasiva in vitro. L'analisi dell'espressione in tumori umani della caderina E ha riscontrato che la progressione verso le forme tumorali più maligne si correla con una tendenza generale alla sua riduzione. Per invadere un tessuto, la cellula neoplastica aderisce alla matrice extracellulare e, dopo averla modificata, la utilizza come supporto per la propria migrazione. Le molecole di adesione responsabili dell'interazione con la matrice sono le integrine, molecole dimeriche costituite da due diverse subunità, dette α e β. Le varie subunità α e β si combinano tra loro a formare almeno venti integrine diverse. Queste molecole funzionano da recettori per i principali componenti della matrice, quali fibronectina, laminina e collageni. La specifica espressione di alcuni tipi di integrina contribuisce in modo positivo o negativo alla progressione della malignità. Nelle cellule neoplastiche sono state inoltre identificate varianti post-trascrizionali che si comportano come recettori dominanti negativi, capaci di inibire l'adesione cellulare.
La capacità invasiva costituisce l'aspetto cruciale della progressione verso il fenotipo metastatico. Con l'invasività la cellula neoplastica compie la più grave infrazione 'all'ordine sociale' dell'organismo: superare le barriere che delimitano le nicchie dei tessuti, un confine inviolabile per le cellule epiteliali. In condizioni fisiologiche, la separazione dei compartimenti occupati dai tessuti viene attuata precocemente nel corso dello sviluppo embrionale ed è realizzata da strutture specializzate della matrice extracellulare, dette 'membrane basali'. Queste costituiscono una barriera efficiente alla disseminazione cellulare. Per attraversarle, la cellula neoplastica deve provvedere alla loro parziale demolizione. La superficie delle cellule capaci di migrare e di invadere è dotata di un ricco complemento di enzimi idrolitici in grado di digerire le varie componenti della matrice. Tra questi, i più noti comprendono attivatori del plasminogeno come quello di tipo urochinasi (u-PA, Urokinase-plasminogen activator), plasmina, collagenasi, metalloproteasi, catepsine e glicosidasi. I geni che codificano questi enzimi sono soggetti a una regolazione complessa, che garantisce la delimitazione spaziotemporale della loro attività litica.
Una neoplasia primitiva e le sue metastasi possono accrescersi e, contemporaneamente, rifornire di sufficiente nutrimento le cellule al loro interno solo inducendo la propria vascolarizzazione, cioè dando luogo a neoangiogenesi. Sono stati identificati geni che codificano fattori neoangiogenici, il più noto dei quali è il VEGF (Vascular endothelial growth factor). La produzione non regolata di questo fattore da parte di cellule neoplastiche di natura epiteliale è un fenomeno relativamente frequente.
Il cancro è sicuramente una malattia che si può in gran parte prevenire, conoscendo i comportamenti che espongono i nostri geni al rischio di mutazioni ed evitandoli. Basti ricordare poche cifre: nel 1990, nella Comunità Europea, si sono ammalati di cancro al polmone 140.000 fumatori di sigarette e solo 15.000 non fumatori. Tuttavia, la tendenza ad accumulare lesioni è una caratteristica insita nella natura stessa del DNA ed è il prezzo che la cellula paga per conservare la capacità di adattarsi all'ambiente. L'invecchiamento cellulare porta con sé un'incontrastabile tendenza a subire danni genetici di varia natura, fra cui quelli che portano alla trasformazione neoplastica. Man mano che l'età media della popolazione aumenta, l'incidenza dei tumori è destinata a crescere proporzionalmente. La comprensione sempre più profonda delle cause del cancro ci porta a concludere che non è possibile debellarlo dalla faccia della Terra come il vaiolo o la poliomielite, e come prima o poi, forse, sarà possibile fare con l'AIDS.
I traguardi raggiungibili nella lotta contro il cancro sono però la sua diagnosi tempestiva e la sua guarigione. La diagnosi precoce è addirittura definita 'prevenzione secondaria', perché aumenta enormemente le possibilità di successo della cura. Consiste nel rilevare il tumore quando si trova in uno stadio iniziale, precedente la trasformazione in cancro invasivo. Quando la neoplasia è ben delimitata e, soprattutto, non ha ancora prodotto metastasi, è facilmente aggredibile da un 'arsenale di armi' già a nostra disposizione: la resezione chirurgica, i chemioterapici e, in qualche misura, le radiazioni. La situazione si complica in modo drammatico quando il cancro si è disseminato nell'organismo, poiché per guarirlo definitivamente è necessario uccidere tutte le cellule neoplastiche. Basta infatti che pochissime sopravvivano al trattamento, perché la straordinaria capacità replicativa che le contraddistingue causi nuovamente la formazione del tumore. Il limite più grande delle terapie oggi a disposizione è la loro estrema tossicità per i tessuti sani, soprattutto per il midollo osseo e per gli epiteli di rivestimento. Gli effetti collaterali di questi trattamenti sono gravi e comprendono, paradossalmente, il rischio di sviluppare nuovi tumori. Infatti, i chemioterapici sono quasi invariabilmente agenti mutageni, in quanto attaccano il DNA. La terapia antitumorale ideale dovrebbe rispondere a due requisiti fondamentali: la capacità di debellare tutte le cellule tumorali e una bassa tossicità per le cellule sane.
L'individuazione dei meccanismi molecolari responsabili dell'insorgenza dei tumori identifica i bersagli verso cui rivolgere le terapie del futuro: la cura del male deve essere mirata all'anomalia che ne è responsabile e che contraddistingue specificamente la cellula neoplastica da quella sana. Molti farmaci antitumorali di nuova generazione sono in fase di sperimentazione avanzata e presto saranno pronti per essere somministrati ai pazienti. Uno degli esempi più incoraggianti è rappresentato dagli inibitori dell'oncogene Ras, che è attivato nel 20÷30 % dei tumori. Perché la proteina codificata da Ras funzioni, è necessario che venga legata a una sequenza lipidica, il farnesile, che le consente di associarsi al versante intracellulare della membrana plasmatica della cellula. La reazione è catalizzata dall'enzima farnesiltransferasi. In animali da esperimento è stato dimostrato che l'inibizione specifica di questo enzima è capace di bloccare completamente l'attività patologica della proteina Ras e di indurre la regressione dei tumori in cui è coinvolta. Un altro gruppo di oncogeni per i quali si stanno studiando inibitori specifici sono quelli che codificano i recettori e i trasduttori citoplasmatici ad attività tirosinchinasica. L'approccio classico è la progettazione di molecole capaci di competere con la loro funzione enzimatica: sono così state sintetizzate tirfostine, lavendustine e chinazoline. Più di recente sono stati tentati approcci più sofisticati, come l'uso degli inibitori antisenso, cioè di frammenti di materiale genetico capaci di interferire con gli RNA che dirigono la sintesi della proteina oncogenica. Sono infine in corso approfondite sperimentazioni che utilizzano peptidi di sintesi, che competono per il legame con i trasduttori intracellulari, per modulare la trasduzione del segnale dei recettori per fattori di crescita.
Come abbiamo già descritto, numerosi geni sono in difetto anziché iperattivati nelle cellule tumorali: è il caso degli oncosoppressori e dei geni che codificano gli enzimi della riparazione del DNA. Questi sono destinati a suscitare sempre maggiore interesse clinico, perché ereditabili e quindi responsabili della predisposizione all'insorgenza del cancro. Un'attività di prevenzione ideale dovrebbe tendere al riconoscimento sistematico di queste lesioni e alla loro correzione prima dello sviluppo del tumore. Grande attenzione è stata rivolta alle proteine p53 e Rb, che inibiscono la progressione lungo il ciclo cellulare, e ai geni della riparazione dei mismatch, per la notevole frequenza con cui sono trovati inattivati. In tutti questi casi la terapia deve provvedere a ripristinare la funzione mancante, restituendo alla cellula l'informazione genetica perduta o lesionata. Questo approccio è definito nel complesso 'terapia genica' ed è oggi l'obiettivo più ambizioso della medicina molecolare. Esso consiste nel ricostruire artificialmente le informazioni genetiche necessarie alla sintesi della proteina e nel sostituirle al gene danneggiato, con una sorta di chirurgia molecolare.
Oggi è relativamente facile riprodurre l'intera sequenza di DNA di un gene, corredata di regioni di controllo della sua espressione, ma sussistono ancora numerose difficoltà nel direzionare il DNA sul bersaglio desiderato. Un secondo problema è quello di rendere stabile la presenza e la funzione del gene esogeno all'interno delle cellule, che tendono a rigettarlo come un corpo estraneo. Per indirizzare geni 'terapeutici' alle cellule cancerose si stanno usando virus geneticamente modificati. I virus sono vettori genetici naturali molto potenti, poiché si sono selezionati per penetrare all'interno delle cellule con elevata specificità, dopo aver riconosciuto i loro bersagli con meccanismi di tipo ligando-recettore. Inoltre essi sono dotati di dispositivi, ulteriormente manipolabili, che consentono l'integrazione del materiale genetico trasportato in quello della cellula ospite, inserendolo in un contesto fisiologico. Enormi difficoltà tecnologiche hanno ridimensionato i grandi entusiasmi iniziali. Una speranza sorprendente ci viene dal virus dell'AIDS che, opportunamente modificato, si sta rivelando uno degli strumenti più potenti a disposizione.
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