Psicanalista italiano (Penne, Pescara, 1897 - Roma 1970). P. è da annoverare tra i fondatori della psicoanalisi in Italia. Laureato in Medicina nel 1922, diventa allievo del triestino Edoardo Weiss, il padre della psicoanalisi italiana, con il quale svolge la sua analisi personale e fonda nel 1932 la prima Rivista di Psicoanalisi, che sarà poi soppressa dal regime fascista nel 1934. La sua formazione teorica, quale appare già nei diversi articoli pubblicati dal 1930 al 1933 sulla rivista non specialistica Il Saggiatore, comprende le opere di Freud, Jung, Adler, Federn e Jones, per lo più lette nelle traduzioni francesi. In Italia, oltre che con Weiss, Musatti e Servadio, ha contatti con De Santis e Levi-Bianchini, entrambi fra i pochi psichiatri aperti al confronto con le ipotesi freudiane. La Società Psicoanalitica Italiana risorge nel 1946 e nel 1950 P. fonda a Roma l’Istituto di Psicoanalisi. Nel 1948 P. fonda la rivista Psiche (“Rivista internazionale di Psicoanalisi e delle Scienze dell’Uomo”) che dirige fino al 1952, anno di chiusura. Nel 1955, insieme a Musatti e Servadio, fonda la nuova Rivista di Psicoanalisi, che ancora oggi è l’organo ufficiale della Società psicoanalitica italiana. Nel 1964, sotto la sua direzione, riapre la rivista Psiche, caratterizzata dall’intento di mantenere il dialogo fra psicoanalisi e altre discipline, ampliandone i confini al di fuori del campo clinico. La seconda Psiche, tuttavia, richiuderà i battenti nel 1971, dopo la morte di Perrotti. Fin dagli scritti comparsi sul Saggiatore, P. manifesta il suo atteggiamento di appassionato difensore della psicoanalisi contro i suoi detrattori e al contempo, tuttavia, esprime una costruttiva critica nei confronti dei colleghi psicoanalisti. Condanna le incomprensioni e le mistificazioni con cui la psicoanalisi è stata accolta nella cultura italiana, da lui attribuite in particolare all’atteggiamento di “superiorità” dei “sapienti” della filosofia accademica, all’epoca improntata all’idealismo di Croce e di Gentile, così come rimprovera agli articoli della Rivista di Psicoanalisi i toni troppo dotti e poco accessibili a un pubblico colto ma profano (David, 1966).
Coerentemente con la sua missione di diffondere la psicoanalisi, gli articoli di P. spaziano fra diversi argomenti, alternando saggi teorico-clinici sulla psicopatologia a studi che applicano la psicoanalisi come metodo di indagine ad altri settori della psicologia, mettendo in luce le potenzialità delle categorie psicoanalitiche nell’interpretazione di diversi fenomeni psicologici. Alcuni titoli della sua poliedrica produzione mostrano il suo interesse per lo studio psicologico dei temi più disparati, come la politica, l’arte, la letteratura, la morale, nonché di fenomeni psico-sociali quali il matrimonio, lo sport e la moda. Si può dire che, con la sua opera di proselitismo per l’adesione alle teorie psicoanalitiche, P. abbia intuitivamente anticipato alcuni futuri sviluppi della ricerca psicologica e della psicologia clinica, all’epoca solo agli albori anche per gli ostacoli frapposti allo sviluppo della psicologia accademica in Italia dal predominio dell’idealismo in filosofia e del neopositivismo in psichiatria.
Anche il suo personale approccio alla psicoanalisi freudiana mostra la vivacità intellettuale di questo autore, che appare pronto a sacrificare in parte la sua ortodossia alla teoria viennese pur di spaziare curiosamente nelle aree di confine, come quando indaga le relazioni fra psiche individuale e psiche collettiva, pur mettendo in guardia dall’errore metodologico di estendere concetti psicologici sic et simpliciter allo studio dei fenomeni sociali. In un articolo del 1949, per esempio, mutua da Jung il concetto di inconscio collettivo per sottolineare l’influenza che la dimensione sociale ha inevitabilmente sui conflitti dell’individuo: “il suo modo di sentire e di reagire deriva in gran parte dall’intersecarsi delle varie anime collettive [di cui fa parte] e tutto questo si svolge in lui, senza ch’egli se ne renda minimamente conto” (p. 213). E conclude, con un’affermazione che appare implicitamente critica rispetto alla Psicologia delle masse di Freud: “non è pertanto opponendosi al collettivo che l’individuo potrà personalmente progredire, bensì elaborando personalmente tutte le possibilità contenute nell’inconscio collettivo” (ivi, p. 219).
I suoi contributi clinici sono peraltro molto rispettosi del paradigma freudiano, come appare chiaramente dall’articolo sulla “Rigofobia” (la fobia del freddo), pubblicato nel 1934 sulla Rivista di Psicoanalisi e poi tradotto nel ’35 sulla Internationale Zeitschrift fuer Psychoanalyse, dove fu apprezzato dallo stesso Freud (Corrao, 1970). In questo articolo, aderendo alla teoria freudiana dello sviluppo psicosessuale, presentava una riflessione originale e ben articolata sulla fobia del freddo, fondandola su numerose esemplificazioni cliniche; la sensazione di freddo è interpretata in associazione a quella del bagnato, che a sua volta rinviava alle paure infantili di “bagnare” il letto, collegate da Freud ai conflitti relativi alla masturbazione notturna. L’approccio biologista di Freud risulta tuttavia in P. sempre sfumato da una grande attenzione allo studio delle situazioni esperienziali e potenzialmente traumatiche dei singoli pazienti, evitando facili generalizzazioni (Perrotti, 1934, pp. 43-6).
Così, nel saggio sull’aggressività del 1951, pur aderendo in linea generale alla teoria pulsionale, P. contesta il concetto freudiano di “istinto di morte”, anche nella sua rielaborazione ad opera di Melanie Klein, sottolineando – in armonia con la revisione operata dagli psicologi dell’Io negli Stati Uniti – la valenza adattativa dell’aggressività: dunque, l’eros e l’aggressività sarebbero “una differenziazione di un unico istinto di vita” (p. 730). Addirittura, la stessa “nozione di istinto può essere superflua, dal momento che si confonde con quella di <vita>. Basterebbe dire, infatti, che si tratta sempre della vita che si svolge e si manifesta attraverso impulsi, tendenze, conflitti, sentimenti, azioni, volontà, realizzazioni, ecc.” (p. 732).
In un articolo successivo dal titolo “L’Io e il Sé”, che compare su Psiche nel 1964, P. porta avanti una posizione innovativa, in dialogo con l’approccio fenomenologico, mettendo a confronto diverse formulazioni del concetto di “Sé”. In termini che possono essere considerati molto moderni, P. propone di considerare il Sé come una sorta di “cornice di riferimento delle nostre percezioni interne” che, grazie alla persistenza nel tempo, “ci dà l’impressione della continuità”; il Sé è dunque “la base, l’ossatura dell’Io”, o meglio quella parte dell’Io fondata sulla “vita vissuta”, “che si è automatizzata nella sua essenzialità” (pp. 99-100).
Complessivamente, l’opera di P. è stata caratterizzata da un continuo intrecciarsi di un lavoro di ricerca teorica e clinica all’interno del movimento psicoanalitico italiano e di un impegno politico e sociale che contribuì alla diffusione della psicoanalisi anche a livello istituzionale (fu deputato in Parlamento dal 1948 al 1953). La quasi totalità dei suoi scritti consiste di brevi saggi, pubblicati su riviste specialistiche e non: diversi di questi sono stati pubblicati in una raccolta postuma, intitolata L’Io legato e la libertà (Astrolabio Ubaldini, 1989). Nel 2011 la SPI ha dato nuova vita alla “sua” rivista Psiche, oggi accessibile anche online, per la terza volta.
Riferimenti:
Corrao, F. (1970), “Nicola Perrotti (1897-1970)”. Rivista di Psicoanalisi, pp. 11-14.
David, M. (1966), La psicoanalisi nella cultura italiana. Torino: Boringhieri.
Perrotti, N. (1934), “La rigofobia”. Rivista di Psicoanalisi, 1, pp. 37-51.
Perrotti, N. (1949), “Psicologia individuale e psicologia collettiva”. Psiche, 5, pp.203-228.
Perrotti, N. (1951), “La teoria generale dell’aggressività umana. Parte I”. Psiche, 17, pp.713-735.
Perrotti, N. (1964), “L’Io e il Sé”. Psiche, 2, pp. 95-109.