In biologia molecolare, qualsiasi traccia di DNA proveniente da organismi estinti o estratto da resti scheletrici fossili, per il cui studio a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta l'impiego della tecnica della reazione a catena della polimerasi (PCR, Polymerase chain reaction) ha fornito ai ricercatori di paleontologia e di archeologia molecolare un potente strumento di amplificazione genica in vitro.
Abstract di approfondimento da DNA antico di Isolina Marota e Franco Rollo (Enciclopedia della Scienza e della Tecnica)
Nel DNA sono scritti i caratteri biologici di un organismo, che ne condizioneranno lo sviluppo embrionale e la capacità di crescere, adattarsi all’ambiente in cui si troverà a vivere e riprodursi. Non solo, il DNA conserva anche la testimonianza della storia naturale dell’organismo stesso. Attraverso il DNA, infatti, possiamo analizzare la struttura delle popolazioni umane o determinare la distanza evolutiva tra uomo e scimmie antropoidi. La possibilità di recuperare materiale genetico direttamente dai resti dei nostri progenitori e di studiarlo utilizzando i metodi dell’ingegneria genetica amplia le già vaste prospettive della ricerca molecolare. Il presupposto, naturalmente, è che il DNA si conservi attraverso i secoli e i millenni nelle ossa o nei tessuti molli mummificati.
La prima dimostrazione convincente che un tale tipo di studio fosse realizzabile fu fornita nel 1984 da una équipe americana diretta da Russell Higuchi. I ricercatori riuscirono a isolare una piccola quantità di DNA da un frammento di muscolo essiccato di quagga, un equide simile alla zebra. L’ultimo esemplare di quagga conosciuto era morto in cattività nell’Ottocento; fortunatamente i resti mummificati dell’animale erano stati conservati in un museo. Higuchi e i suoi colleghi non si limitarono a osservare la presenza di DNA, peraltro fortemente degradato, nel tessuto cellulare, ma ne replicarono alcuni frammenti nel batterio Escherichia coli e giunsero infine a isolare una porzione di DNA presente negli organuli cellulari chiamati ‘mitocondri’ (DNA mitocondriale). Esaminatane la sequenza nucleotidica, si osservò che non differiva da quella di una zebra attuale.
L’anno successivo fu la volta della prima mummia umana. Studiando i tessuti molli essiccati di alcune decine di mummie egizie, lo svedese Svante Pääbo trovò, infine, che quelli di un infante di 2400 anni fa contenevano ancora una certa quantità di materiale genetico. Anche in questo caso fu possibile purificare il DNA e quindi riprodurlo mediante clonazione in E. coli. Può essere interessante sottolineare che questo lavoro, che forse ancora più del precedente attirò l’attenzione del pubblico, contenesse già tutte le contraddizioni e le ambiguità che caratterizzeranno, negli anni successivi, lo sviluppo di questo nuovo settore della ricerca scientifica. Attualmente, infatti, sulla base della conoscenza che abbiamo dei processi di decadimento del DNA e su quella di numerose osservazioni empiriche su materiali archeologici, vi sono fondati motivi per ritenere che quello che Pääbo isolò nel 1985 non fosse il DNA originale della mummia bensì un contaminante moderno.
I ricercatori che nella metà degli anni Ottanta tentavano di isolare e replicare DNA conservato in materiali archeologici, fossero essi di origine umana, animale o vegetale, incontravano notevoli difficoltà operando con le tecniche dell’ingegneria genetica allora disponibili, in quanto il DNA risultava degradato, cioè ridotto a minuscoli frammenti e presente solo in minime tracce. Un paragone cui si è fatto spesso ricorso in passato è quello tra il DNA e un nastro magnetico. Se avessimo la possibilità di leggere o ascoltare nella sua interezza il nastro, questo ci rivelerebbe una quantità straordinaria di informazioni sulla cellula, nel cui nucleo è contenuto il DNA stesso, e sull’organismo di cui la cellula fa parte. Nel caso del DNA ‘fossile’, o più correttamente ‘antico’, è come se un nastro lungo una trentina di chilometri venisse ridotto a frammenti di 10420 cm. Inoltre, molti dei frammenti sarebbero in parte smagnetizzati. Si può fare il parallelo anche con un libro antico composto di migliaia di pagine, che giunge a noi ridotto in brandelli e con gran parte dei caratteri cancellati.
1. L'origine delle malattie
In senso sia biologico che culturale l’evoluzione adattativa della specie umana è profondamente influenzata dalle patologie. Esse variano nel tempo, in relazione a fattori socioambientali, tecnologici ed etnici. La disciplina che si occupa dello studio delle malattie nell’antichità si chiama ‘paleopatologia’. Tradizionalmente la ricerca paleopatologica utilizza fonti indirette (antichi testi e iconografie), fonti dirette (resti scheletrici, mummie e altri materiali biologici di origine umana) e fonti comparative (informazioni concernenti le malattie in altre specie animali). La possibilità di analizzare DNA conservato in antichi reperti ossei o nei tessuti molli delle mummie apre la strada alla paleopatologia molecolare. In linea di principio possiamo studiare infezioni, malattie ereditarie e neoplasie. Mentre la paleopatologia molecolare delle malattie ereditarie e quella delle neoplasie sono ancora a uno stadio pionieristico, la paleopatologia delle infezioni ha già prodotto numerosi risultati.
In pratica dobbiamo cercare il DNA di agenti patogeni di natura batterica, virale, protozoaria o fungina che, in relazione allo stato della malattia, siano presenti in maniera significativa nei tessuti molli, nel sangue o in lesioni ossee alla morte dell’individuo. Per quanto riguarda la ricerca di patogeni batterici nei contesti archeologici, fino a ora, è stato possibile individuare il DNA di Mycobacterium tuberculosis, agente causativo della tubercolosi, quello di M. leprae (agente causativo della lebbra), di Yersinia pestis (peste) e di Treponema pallidum (sifilide). Tra i patogeni sopraelencati quello di gran lunga meglio studiato è M. tuberculosis. Il principio della diagnosi paleomolecolare di questo batterio si basa sull’amplificazione mediante PCR di un breve tratto del cromosoma batterico denominato ‘sequenza di inserzione (IS) 6110’. Tale sequenza è specifica per i micobatteri del cosiddetto ‘complesso di M. tuberculosis’ (MTB) che comprende, oltre a M. tuberculosis stesso, anche M. bovis e M. africanum. È così possibile discriminare tra il DNA dei micobatteri del terreno, verosimilmente abbondanti nei materiali di scavo, e quello degli antichi patogeni. Particolarmente importanti, per le conoscenze sulla diffusione delle malattie infettive a seguito di eventi migratori, sono state le analisi del DNA compiute su mummie precolombiane a partire dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso. È stato possibile confermare l’ipotesi che la tubercolosi fosse diffusa presso le popolazioni dell’America Meridionale secoli prima della conquista spagnola.
Per quanto riguarda l’Europa, una ricerca particolarmente esauriente è stata recentemente compiuta su 168 mummie naturali ritrovate nelle cripte della chiesa dei Domenicani di Vác in Ungheria. L’insieme delle informazioni ottenute attraverso ricerche in archivio, esami radiografici e analisi del DNA antico, ha fornito una prova eloquente dell’endemicità della tubercolosi tra gli ungheresi dei secc. XVIII e XIX. La letteratura scientifica recente riporta anche diversi lavori che descrivono l’identificazione del DNA di M. tuberculosis in mummie naturali e artificiali dell’antico Egitto, alcune delle quali risalenti all’epoca predinastica (3300 a.C.). Questi ultimi risultati hanno sollevato un considerevole dibattito tra gli specialisti, in quanto contrastano con le stime teoriche ed empiriche sulla conservazione del DNA nei climi caldi. Tali stime indicano un tempo di sopravvivenza del DNA molto breve e pertanto incompatibile non solo con la sua presenza nelle mummie predinastiche, ma anche in quelle della più tarda epoca dinastica.
A loro volta, i sostenitori della verosimiglianza delle diagnosi molecolari nelle mummie egizie sottolineano diversi aspetti particolari della biologia dei micobatteri, quali la produzione di lesioni calcificate e una parete batterica spessa e ricca di lipidi che favorirebbero la conservazione del DNA per tempi particolarmente lunghi. Fanno inoltre osservare l’eccezionale resistenza di M. tuberculosis, in grado di sopravvivere al fissaggio in formalina. Il batterio ha addirittura infettato un incauto imbalsamatore a un anno di distanza dalla morte del soggetto. Parimenti oggetto di grande controversia sono state le ricerche finalizzate a ritrovare il DNA di Y. pestis nella cavità pulpare dei denti di vittime della peste risalenti al Medioevo e al Rinascimento. Mentre in un laboratorio francese è stata ottenuta un’alta percentuale di casi positivi, in altri due, ubicati rispettivamente in Inghilterra e in Danimarca, tutti i campioni esaminati sono risultati negativi.
Possiamo infine citare un caso che, pur facendo riferimento a materiale recente, rientra pienamente nella problematica di studio dell’origine delle malattie infettive e della loro diffusione. Si tratta dell’origine del virus dell’immunodeficienza umana (HIV). È noto che ambedue i virus che causano l’AIDS (HIV-1 e HIV-2) ebbero origine in Africa, probabilmente attraverso la mutazione di virus delle scimmie. L’analisi di campioni di sangue vecchi di quasi 40 anni e provenienti da Kinshasa (Repubblica Democratica del Congo) ha permesso di determinare la sequenza nucleotidica di un frammento lungo circa 300 bp del materiale genetico del virus. L’esame della sequenza ‘archeologica’ ha indicato che HIV-1 avrebbe iniziato a infettare l’uomo nel decennio che va dal 1940 al 1950, spinto con ogni probabilità da una serie di fattori ecologici e sanitari come le campagne di vaccinazione su larga scala (in cui uno stesso ago ipodermico veniva utilizzato per più soggetti senza essere sterilizzato), la diffusione dei mezzi di trasporto, l’incremento demografico e i contatti sessuali più frequenti.