Disciplina nata nella seconda metà del 19° sec., come branca autonoma dell’antropologia, per studiare l’origine e l’evoluzione dell’uomo partendo dai reperti scheletrici degli Ominini fossili, al fine di ricostruirne il processo di modificazione dopo la divergenza dagli altri ominidi (le antropomorfe africane gorilla e scimpanzé); è detta anche paleontologia umana.
La p. si focalizza sullo studio delle vicende evolutive che si sono succedute nell’arco degli ultimi 6-7 milioni di anni fino all’emergenza dei caratteri anatomici moderni e all’affermazione di Homo sapiens.
Nella seconda metà del 19° secolo lo studio dei vertebrati fossili fu intrapreso sulla base della teoria dell'evoluzione formulata da C. Darwin. Tuttavia, prima ancora che fosse avanzata l'ipotesi dell'origine dell'uomo da qualche primate estinto, alcuni studiosi (E. Tournal, E. Dumas, M. de Serres, che nel 1853 adottò il termine di paleontologia umana, S. Schmerling, D. Thomsen, J. Evans e altri ancora) osservando che in alcuni giacimenti oggetti litici intenzionalmente lavorati dall'uomo si trovavano frammisti a resti di animali estinti, prospettarono l'ipotesi di un'antichità assai remota dell'umanità e Boucher de Crèvecoeur de Perthes parlò (1838) di un uomo "antidiluviano". É. Lartet, che è considerato il fondatore della p., descrisse per primo forme fossili di grandi Primati e presentò le conclusioni dei suoi studi in Sur l'ancienneté géologique de l'espèce humaine dans l'Europe occidentale (1860), che alla sua pubblicazione suscitò molte discussioni. L’evento determinante per l’avvio della p. come scienza a sé, ben definita, può essere considerato, dunque, il ritrovamento nel 1856 nella grotta di una valle presso Düsseldorf (Germania) di una calotta cranica e di resti dello scheletro postcraniale del cosiddetto uomo di Neandertal. Questo reperto suscitò molte polemiche sulla sua attribuzione o meno alla linea dell’uomo, ma quando C. Darwin 3 anni dopo espose la sua teoria dell’evoluzione si cominciò a valutare l’uomo di Neandertal in una nuova luce abbandonando poco alla volta il catastrofismo di G.-L. Cuvier, secondo il quale le specie una volta create erano immutabili nei loro caratteri e non erano legate da rapporti di ascendenza/discendenza; in tal modo lo scienziato respingeva ogni idea di evoluzione della specie e in particolare l’esistenza di un’umanità fossile ‘antidiluviana’ («non esistono affatto ossa umane fossili»). D’altra parte, nell’anno stesso della pubblicazione della teoria darwiniana (1859), la questione dell’antichità geologica dell’uomo venne indirettamente confermata dal rinvenimento di manufatti litici risalenti al Paleolitico, indiscutibilmente indicativi di un’attività umana preistorica.
Una pietra miliare per lo sviluppo e la definizione del campo d’interesse della p. è il 1891 quando a Trinil, nell’isola di Giava, l’olandese E. Dubois trovò una calotta cranica e in un secondo tempo un femore e dei denti che attribuì al cosiddetto ‘anello mancante’ ovvero a una forma di raccordo tra l’uomo e le scimmie, tanto che attribuì tali resti scheletrici alla specie Pitecanthropus erectus. Il 1924 rappresenta un altro momento saliente negli studi di p.: l’interesse dei paleoantropologi si spostò infatti in Africa dove in quell’anno fu rinvenuto un cranio infantile fossile che il sudafricano R. Dart nel 1925 definì Australopithecus africanus, anch’egli proponendo che si trattasse di una forma intermedia tra le antropomorfe africane e l’uomo. La scoperta dell’Australopiteco, accompagnata da accese polemiche, è stata fondamentale per la storia delle conoscenze sull’evoluzione umana, perché ha indirizzato i paleoantropologi a sviluppare le ricerche in Africa permettendo di arrivare a una ricchissima serie di scoperte che hanno aiutato, e aiutano tuttora, con prove sempre più inoppugnabili, a individuare le radici più remote dell’umanità in tale continente, sconvolgendo quanto si andava asserendo sull’origine e l’evoluzione dell’uomo.
Per ricostruire la storia biologica dell’uomo occorre contestualizzare i reperti fossili nel tempo e nello spazio al fine di inquadrarne i rapporti filetici e le forme di adattamento; a tale scopo la p. si avvale del contributo di molte discipline. In primo luogo, la ricerca del materiale fossile necessita della conoscenza della geologia per determinare il tipo di deposito e quindi risalire al processo di fossilizzazione; la geocronologia permette a sua volta di datare i fossili sfruttando i metodi di datazione assoluta (radiometrici, termoluminescenza) dei terreni di deposito del materiale scheletrico, mentre i metodi di datazione relativa sono ottenuti stabilendo l’età dei componenti vegetali e faunistici presenti nel sito; la paleoecologia consente di inquadrare i fossili nel contesto paleoambientale al fine di ricostruire l’evoluzione dei comportamenti; la conoscenza dell’anatomia umana è indispensabile per lo studio e il confronto dei resti scheletrici e dei denti attraverso la morfometria tradizionale, cui si accompagna la morfometria geometrica che, partendo da materiale fossile anche frammentario, permette di ricomporre immagini tridimensionali con la grafica computerizzata.
A partire dagli ultimi 2 milioni di anni l’archeologia del Paleolitico, attraverso lo studio dei manufatti, consente di inquadrare i fossili anche in rapporto all’evoluzione della cultura materiale, pur tenendo presente che non vi è una stretta concordanza cronologica tra evoluzione biologica ed evoluzione delle tecnologie. Considerando tale aspetto, il termine p. assume un significato più ampio nel quale evoluzione biologica ed evoluzione culturale degli Ominini fossili rappresentano le due facce della medaglia unificando il concetto di evoluzione umana.
Per sistemare filogeneticamente i resti fossili, ai dati forniti dalla p. si affiancano oggi i dati neontologici ottenuti sfruttando tecniche biomolecolari. Applicati anche allo studio del DNA antico rilevato su reperti scheletrici, essi si sono dimostrati determinanti per confermare le datazioni di alcuni eventi evolutivi su cui i paleoantropologi hanno discusso molto e discutono ancora. Al momento, il confronto tra le sequenze genomiche (DNA autosomico, DNA mitocondriale o mtDNA, DNA del cromosoma Y) ha dato le seguenti conferme: la divergenza evolutiva tra uomo e scimpanzé è avvenuta tra 5-6 milioni di anni; l’Uomo di Neandertal non è l’antenato diretto di Homo sapiens ma rappresenta un ramo divergente nell’albero evolutivo degli Ominini, la specie Homo neanderthalensis; H. sapiens è comparso in Africa intorno a 200.000 anni fa; il ramo delle popolazioni africane subsahariane è geneticamente il più variabile e da esso si sono separate le popolazioni extra-africane che dal punto di vista genetico ne rappresentano dei sottoinsiemi.