Espressione (spesso abbreviata in MCA, e nella letteratura scientifica in CAM, Complementary and alternative medicines) con cui si fa riferimento a un complesso eterogeneo di pratiche diagnostico-terapeutiche non ufficialmente incorporate nella moderna medicina scientifica. Tali pratiche, che nel loro insieme sono di volta in volta connotate come alternative, complementari, integrative, tradizionali, non ortodosse, olistiche, naturali, dolci, ecc., non formano un corpo unico di conoscenze né un insieme omogeneo di prassi. In altri termini, i modelli teorici che stanno alla base degli approcci diagnostico-terapeutici delle pratiche comprese nelle MCA sono talmente eterogenei da rendere praticamente impossibile l'identificazione di caratteristiche che le possano accomunare. In questo contesto una possibile definizione potrebbe essere la seguente: "con medicine complementari e alternative si intende un insieme vasto di pratiche già disponibili, anche se più o meno estesamente utilizzate, le cui basi teoriche si riferiscono a contesti esplicativi diversi da quelli intrinseci al sistema sanitario di riferimento in un particolare momento e all'interno di una specifica società".
Abstract di approfondimento da Medicina complementare e alternativa di Roberto Raschetti (Enciclopedia della Scienza e della Tecnica)
Per ciascuna delle pratiche delle medicine complementari e alternative bisognerebbe porsi le seguenti domande: è intrinsecamente efficace o i cambiamenti osservati sono attribuibili a un effetto placebo? Se è efficace, come funziona? Per quali condizioni patologiche è efficace? È sicura, ci sono effetti collaterali? Può essere un’alternativa adeguata ad altri trattamenti di provata efficacia già disponibili? In sintesi, la questione da affrontare è quanto sia consistente la conoscenza scientifica disponibile in merito all’efficacia clinica, alla sicurezza d’uso e ai meccanismi di azione delle pratiche delle MCA. L’informazione disponibile su questi argomenti è spesso di tipo puramente enunciativo o basato sulla semplice descrizione di aneddoti. Il più delle volte ci si trova di fronte a forme di sapere soggettive e autoreferenziali, talvolta iniziatiche, che risultano essere refrattarie a forme di verifica pubblica, mentre, in campo medico, vi dovrebbe essere il costante sforzo di consolidare un tipo di conoscenza la quale, in quanto suffragata da sistematici riscontri sperimentali, diviene pubblicamente controllabile e intersoggettiva. Discutere degli aspetti scientifici relativi alle MCA equivale in realtà a discutere delle modalità con le quali viene acquisita la conoscenza anche nell’ambito delle discipline biomediche ufficiali. Di seguito sono illustrati alcuni degli aspetti più importanti in questo ambito.
L’effetto placebo può essere definito come l’insieme delle variazioni fisiologiche o psicologiche che si osservano negli individui quando questi sono sottoposti a un intervento terapeutico (la somministrazione di medicamenti, la messa in opera di procedure, ecc.) e che non sono direttamente riconducibili agli effetti specifici del trattamento. Il concetto di placebo si basa sull’idea che un terapeuta, intervenendo su una condizione clinica, possa produrre sui pazienti un duplice effetto: quello legato all’intervento stesso (l’attività intrinseca, per es., di un farmaco) e quello relativo alla percezione di essere stati trattati. A lungo (fino alla metà del Novecento) nella medicina occidentale la ‘pia frode’, come veniva definita la somministrazione di placebo, costituita, per esempio, da pillole di pane e da iniezioni sottocutanee di acqua, era parte integrante della pratica clinica. Questa era doppiamente legittimata dal primum non nocere e dall’ut aliquid fieri videatur.
Un ruolo importante per questi aspetti nelle MCA è quello giocato dalla relazione terapeuta-paziente. Infatti, pur in assenza di una comune base teorica, le MCA in genere condividono, distinguendosi in questo dalla medicina convenzionale, l’enfasi posta sull’esperienza soggettiva dei pazienti trattati. Questo approccio, che valorizza un’attenzione personalizzata, ponendo il focus sul paziente nella sua interezza piuttosto che sulla patologia di cui soffre, crea un contesto di guarigione connotato da un forte simbolismo rituale. Lo stile della consultazione dei terapeuti di alcune MCA è basato su un linguaggio semplice, con spiegazioni facilmente comprensibili, tendente a creare un buona relazione interpersonale (credibile, calda, aperta) che facilita lo scambio di informazioni. Tutto ciò può contribuire a sviluppare un effetto placebo e si riflette nel grado di soddisfazione, in genere alto, dichiarato dai pazienti. Nel caso delle pratiche delle MCA, la cui efficacia è spesso sostenuta da teorie che non trovano riscontro nel paradigma scientifico corrente, è dunque importante valutare se le eventuali risposte terapeutiche osservate in singoli casi di trattamento siano riconducibili o meno a un effetto placebo anche in virtù dei processi simbolici che di frequente accompagnano questi interventi.
L’osservazione che alcuni pazienti migliorano dopo aver ricevuto un trattamento può comprensibilmente produrre il convincimento che il miglioramento possa essere causato dal trattamento. Questo convincimento però esemplifica un errore logico. Tale errore, noto come ‘fallacia della falsa causa’ o post hoc, ergo propter hoc (letteralmente: dopo di ciò, dunque a causa di ciò), nasce dal fatto che il criterio temporale (una causa precede sempre un effetto) rappresenta una condizione necessaria, ma non sufficiente per definire una relazione di causalità. I miglioramenti osservati potrebbero infatti essere dovuti a molteplici fattori, diversi dall’efficacia del trattamento, quali il decorso benigno della patologia, l’attenuazione dei sintomi, la remissione spontanea della malattia, l’effetto placebo. L’approccio più rigoroso che consente di discriminare gli effetti veri di un trattamento è quello della sperimentazione clinica controllata (RCT, Randomised controlled trial).
Per capire la logica sottostante queste sperimentazioni occorre riflettere sulla nozione di effetto e, in una sorta di processo circolare, sulla natura delle cause che determinano questi effetti. Uno dei filosofi che più ha studiato i processi causali è stato David Hume (1711-1776) il quale nel 1748 così definiva una causa: «Possiamo definire una causa come essere un oggetto seguito da un altro dove, se il primo oggetto non ci fosse stato, il secondo non sarebbe mai esistito». Questa definizione, che potrebbe essere parafrasata nel seguente modo: «se C non fosse avvenuto non avrei osservato E», ipotizza cosa sarebbe avvenuto in condizioni contrarie a quelle attuali ed è perciò chiamata ‘argomentazione (condizionale) controfattuale’. Un esempio di questo tipo di argomentazione è: «se un’ora fa non avessi preso due aspirine, il mio mal di testa non sarebbe passato». Il problema è, ovviamente, che non possiamo tornare indietro nel tempo e cambiare trattamento per verificare cosa sarebbe accaduto se non avessimo preso le aspirine e siamo quindi costretti a confrontare un risultato osservato con uno non osservato. La manifesta impossibilità di operare questo confronto si supera con una misura indiretta effettuata tramite il confronto tra due gruppi: quello con il trattamento che intendiamo studiare e quello con un trattamento di controllo. L’esperienza derivata dal gruppo di controllo serve per comprendere cosa sarebbe avvenuto ai pazienti se non avessero ricevuto il trattamento, consentendo di discriminare gli esiti causati dal trattamento da quelli causati da altri fattori, come per esempio la progressione naturale della malattia. Il trattamento di controllo è frequentemente un trattamento inerte, un placebo. Il gruppo che assume il placebo diventa allora l’emblema dei miglioramenti osservati nei pazienti non trattati all’interno di una sperimentazione, comprendendo, cioè, tutti gli effetti non specificamente dipendenti dalla terapia in studio (quali, per es., gli effetti della relazione paziente-terapeuta, le aspettative dei pazienti, ecc.).
Naturalmente la qualità della misura di efficacia clinica che si ottiene in una sperimentazione di questo tipo dipende dall’effettiva comparabilità dei due gruppi formati. Questa comparabilità si ottiene tramite un meccanismo casuale di assegnazione dei pazienti ai trattamenti. Un meccanismo di assegnazione è casuale se per ogni paziente la probabilità di essere assegnato al trattamento in studio o al trattamento di controllo è indipendente dall’esito clinico che si intende osservare. Perciò quando un trattamento è confrontato con un placebo, nell’ambito di una sperimentazione, i pazienti dovrebbero differire solo nel trattamento che stanno ricevendo e non in altri aspetti.
In aggiunta al meccanismo di assegnazione casuale, nelle sperimentazioni viene di solito adottata una procedura di ‘cecità’, vale a dire sono predisposti meccanismi di mascheramento dei trattamenti tali da nascondere al paziente, ma spesso anche agli sperimentatori, la vera natura del trattamento somministrato (se quello in studio o quello di controllo). Per consentire questo processo di mascheramento, il placebo è realizzato in modo da simulare il più possibile (nella forma, nelle modalità di somministrazione, ecc.) il trattamento che si intende studiare. Anche quando il trattamento da studiare è una procedura medica e non una sostanza si realizzano dei placebo simulando i processi di intervento della procedura, senza che questi abbiano qualità terapeutiche ‘attive’. Per esempio, nel caso dell’agopuntura il placebo potrebbe consistere nel porre gli aghi in punti del corpo per i quali non ci si attende a priori nessuna risposta terapeutica. Con questo tipo di studi l’eventuale differenza tra gli esiti osservati al termine della sperimentazione negli individui all’interno dei due gruppi è una stima non distorta di quello che viene chiamato ‘effetto causale medio’. È sulla base di questo tipo di studi, per esempio, che vengono oggi autorizzati all’uso i nuovi farmaci in tutto il mondo industrializzato.
Sebbene le sperimentazioni cliniche controllate costituiscano il più forte riferimento operativo attualmente disponibile per valutare e misurare le potenzialità terapeutiche attribuite a determinati trattamenti, queste sono state poco utilizzate nell’ambito delle MCA. Queste terapie per loro natura (si potrebbe dire quasi per definizione) non vengono mai proposte sulla base di risultati sperimentali. Le ragioni sono sostanzialmente due: un’aprioristica opposizione nei riguardi del metodo scientifico e una presunta non praticabilità. Molti sostenitori della medicina non convenzionale ritengono semplicemente che il metodo scientifico non sia applicabile ai loro rimedi, e che l’efficacia possa essere sufficientemente dimostrata sulla base di teorie, convinzioni, testimonianze, aneddoti e opinioni. È certamente possibile sostenere che l’applicazione del metodo scientifico alle MCA comporta difficoltà metodologiche particolari. Queste pratiche coprono uno spettro molto ampio di prodotti, concetti, discipline e metodologie. Alcuni di questi interventi sono di natura fisica e altri coinvolgono aspetti di natura spirituale. Vi sono terapie che sono per loro genere impersonali (quali l’assunzione di pillole che contengono prodotti erboristici). Altre invece sembrano dipendere fortemente da una particolare relazione diadica terapeuta-paziente. Solo poche tra le MCA hanno una base biologica plausibile, mentre per altre il legame tra elementi metafisici e un meccanismo biologico comprensibile sembra inverosimile. Alcuni degli interventi delle MCA sono sufficientemente ben descritti, riproducibili, con esiti misurabili e si riferiscono a gruppi di pazienti che possono essere identificati anche nella medicina convenzionale. In molti altri casi questa strada è semplicemente non praticabile. Di seguito sono discussi i principali elementi di complessità che caratterizzano l’applicazione delle sperimentazioni cliniche controllate nell’ambito delle MCA.
In genere i pazienti che partecipano a una sperimentazione clinica devono essere omogenei rispetto alla definizione della patologia esaminata e ai suoi livelli di gravità. Nel caso delle MCA i pazienti possono essere classificati in modi diversi attraverso dei sintomi non facilmente misurabili o riproducibili (per es., uno sbilanciamento energetico). La quasi totalità di questi approcci terapeutici usa strategie di intervento che variano considerevolmente nei contenuti e nelle modalità, in funzione dei particolari individui cui si rivolgono. La variabilità individuale è considerata tale che l’applicazione di un intervento produrrà risposte differenti se applicato a diverse persone, o anche a una stessa persona in tempi differenti, e in diversi stadi della storia naturale della malattia. Ciò comporta un elevato grado di interazione tra pazienti e operatori (come per es., la procedura di repertorizzazione di cui si serve la medicina omeopatica), tale da rendere arduo il compito di individuare gruppi di controllo adeguati. Vi sono altre situazioni, come nel caso delle tecniche di manipolazione o nell’ipnosi, in cui il mascheramento dei trattamenti può essere problematico rendendo complicata l’applicazione della procedura di cecità. La difficoltà nell’identificare adeguati gruppi di controllo non è comunque una caratteristica specifica delle MCA. Vi sono molti casi anche nella medicina convenzionale, nei quali si possono incontrare analoghe difficoltà (per es., in studi clinici sperimentali riguardanti la psicoterapia). In queste situazioni la progettazione della sperimentazione deve concentrarsi sulle modalità che consentono di ridurre le potenziali distorsioni nella fase di valutazione degli esiti.
Alcuni approcci assumono che interventi di limitato impatto (l’introduzione di un ago in un punto specifico del corpo, l’assunzione di dosi omeopatiche, ecc.) se somministrati singolarmente e specificamente possono produrre variazioni sistemiche molto consistenti. Secondo questa visione, l’identificazione di esiti oggettivamente valutabili/misurabili (per es., la valutazione di particolari marker sierologici) può essere molto complessa. Inoltre alcune MCA assumono anche paradigmi operazionali relativi all’anatomia e alla fisiopatologia, che semplicemente non sono considerati reali dalla scienza attuale come, per esempio, la misurazione dei livelli di una ‘sottile energia’ (il Qi), la quale comporterebbe il ricorso a strumentazioni il cui funzionamento sarebbe basato su teorie che le leggi della fisica non hanno mai finora contemplato o identificato. Sulla base di queste considerazioni, definire chiaramente e operativamente l’obiettivo e gli scopi di uno studio clinico riguardante tali terapie può essere di notevole complessità.
Uno degli scopi principali di una sperimentazione controllata verso un trattamento inerte (placebo) è quello di separare l’influenza della terapia da altri fattori quali, per esempio, gli effetti psicologici del trattamento o quelli della relazione terapeuta-paziente. Il problema è quanto una sperimentazione possa riuscire a valutare l’efficacia di una specifica pratica, riproducendo le modalità con le quali questa è effettivamente utilizzata nella pratica applicata dai terapeuti. Gli argomenti sin qui discussi caratterizzano alcuni degli aspetti di complessità del processo di valutazione dell’efficacia delle pratiche delle MCA, ma queste difficoltà non costituiscono ostacoli insormontabili alla conduzione di studi di questo tipo, né ragioni epistemologiche di non praticabilità. La conseguenza pratica dello scarso ricorso al metodo sperimentale per la verifica dell’efficacia delle MCA è che oggi la conoscenza scientifica è limitata e spesso la domanda se una specifica pratica alternativa o complementare sia o meno di efficacia superiore a un trattamento inerte rimane inevasa.
La conoscenza disponibile nei riguardi dell’efficacia delle pratiche delle MCA potrebbe essere complessivamente oggi definita come ‘elusiva’: solo per alcune di queste pratiche (agopuntura, omeopatia, talune erbe medicinali) sono state effettuate delle valutazioni sistematiche i risultati delle quali si sono rivelati spesso non conclusivi. In uno studio recente sugli articoli scientifici pubblicati sulle MCA e indicizzati nella principale banca dati della letteratura scientifica in campo biomedico (la MedLine) è risultato che nell’arco di 6 anni (1997-2002) sono stati pubblicati, in tutto il mondo, circa 20.000 articoli scientifici sulle MCA (lo 0,7% di tutti gli articoli scientifici). Di questi solo l’8% circa riguardava sperimentazioni cliniche controllate, condotte principalmente su agopuntura e fitoterapia. La qualità di questi studi è risultata complessivamente piuttosto bassa, a causa della ridotta dimensione degli studi, di procedure di randomizzazione non idonee, o ancora di limitazioni nel processo di valutazione dei pazienti, ecc.