Borrè, Giuseppe (Pino). – Magistrato italiano (La Spezia 1932 - Genova 1997). Civilista per formazione, entrò in magistratura nel 1958. Fu per un breve periodo sostituto alla Procura della Repubblica di Acqui Terme e quindi pretore, prima a Milano e poi a Genova. Dal 1968 fu giudice presso la prima sezione civile del Tribunale genovese, dove rimase per oltre dieci anni sino alla nomina a dirigente della pretura del lavoro della stessa città, nel gennaio 1979. Un mese dopo lasciò Genova per la Corte costituzionale, chiamatovi come assistente da Virgilio Andrioli (già suo maestro all’Università di Pisa, e poi amico). I primi due decenni della sua attività giudiziaria corrisposero al periodo di più profondo rinnovamento della magistratura all’insegna del nuovo modello previsto dalla Carta del 1948, dopo il lungo periodo della “inadempienza costituzionale”. Di quella stagione, nella quale – come ebbe a scrivere anni dopo – «occorreva consumare uno scisma entro la cittadella della giurisdizione» con «la rottura di miti antichi, autorevoli, mai posti in dubbio» (Le scelte di Magistratura democratica, in N. Rossi [a cura di], Giudici e democrazia. La magistratura progressista nel mutamento istituzionale, Angeli, Milano, 1994, p. 41), egli fu protagonista tra i più autorevoli: nell’associativismo giudiziario e, soprattutto, sul piano culturale. In Magistratura democratica fin dai primi passi del gruppo nel 1964, ne fu, poi, dirigente di primo piano, come componente del comitato esecutivo dal 1975 al 1978 e come presidente dal 1978 al 1986. Ma soprattutto, dopo essere stato collaboratore di Qualegiustizia per tutto il periodo di pubblicazione (1970-1979), fondò, nel 1982, Questione giustizia di cui fu direttore per quindici anni, fino alla morte. All’eresia di Magistratura democratica e al parallelo rinnovamento del corpo giudiziario B. fornì solide basi teoriche fin dal saggio Unità e varietà nella giurisprudenza (a proposito della cd “rotazione” in Cassazione), scritto con P. Martinelli e L. Rovelli (Il Foro italiano, 1971, V, 45), nel quale, in contrasto con la cultura imperante, segnalava il valore e la doverosità del pluralismo interpretativo come carattere irrinunciabile di una giurisdizione costituzionalmente orientata. Di una giurisdizione – come scrisse più avanti, descrivendo le novità introdotte da Magistratura democratica negli anni Settanta – caratterizzata da «due istanze di fondo: da un lato il garantismo in senso stretto, come limite, come sbarramento a difesa delle “libertà da”, dall’altro la promozione dei diritti sociali positivi, delle “libertà di”, come presa di distanza dal diritto effettivo che le comprime, come sforzo interpretativo di approssimazione del diritto effettivo al diritto valido, come tarlo della ragione che costringe al confronto le insufficienze, le contraddizioni, le ingiustizie del diritto dei più forti». Altrettanto dirompente fu la sua teorizzazione della «politicità» della magistratura. Di una politicità del tutto particolare, «discendente dall’art. 101 Costituzione, la norma per la quale i magistrati “sono soggetti soltanto alla legge”», dove «l’accento cade sull’avverbio “soltanto”» con conseguente dovere di «disobbedienza a ciò che legge non è. Disobbedienza al pasoliniano “palazzo”, disobbedienza ai potentati economici, disobbedienza alla stessa interpretazione degli altri giudici e dunque libertà interpretativa. Quindi pluralismo, quindi, legittima presenza di diverse posizioni culturali e ideali all’interno della magistratura» (Le scelte di Magistratura democratica, cit.).
Dopo l’esperienza della Consulta B. approdò, nel dicembre 1984, in Cassazione. Eletto al Consiglio superiore della magistratura nel marzo 1986, ritornò, al termine del quadriennio, alla Suprema Corte, di cui venne nominato presidente di sezione nel luglio 1997. Furono, quelli, gli anni della maturità, caratterizzati da un’ampia produzione scientifica e da un intenso impegno giudiziario anche nelle sezioni unite. Della sua stagione consiliare resta, insieme interventi di grande spessore (in particolare sui temi della formazione e della professionalità dei magistrati), la stesura della risoluzione 18 maggio 1988 sulle proposte di riforma urgenti del processo civile: risoluzione che fu alla base dell’intervento novellistico di cui alla legge n. 353 del 1990 e che è stata definita da Andrea Proto Pisani «uno dei momenti più alti di rappresentazione del processo civile di cognizione, delle sue idealità, della sua struttura e funzione».
All’attività di magistrato B. affiancò quella di docente di diritto processuale civile e di diritto fallimentare nell’Università di Pisa e di studioso del processo, sempre attento a coniugare rigore dommatico e perseguimento della effettività della tutela giurisdizionale.
Appena un mese dopo la nomina a presidente di sezione della Suprema Corte morì a Genova, il 3 agosto 1997.
OPERE
Della produzione saggistica di B. è impossibile, data l’ampiezza, dar conto in maniera completa. Ci si limita, pertanto, a segnalare, tra gli scritti di carattere dottrinale, Esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare (Iovene, Napoli, 1966) e, tra quelli di politica giudiziaria, l’ampia raccolta contenuta in L. Pepino [a cura di], L’eresia di Magistratura democratica. Viaggio negli scritti di Giuseppe Borrè, Angeli, Milano, 2001.