Disciplina sviluppatasi di recente attraverso processi di interazione tra varie altre discipline, quali la botanica, la zoologia, l'ecologia, la genetica, l'etologia, la biogeografia, con lo scopo di risolvere i problemi di conservazione delle risorse animali e vegetali a rischio di scomparsa. Secondo Richard B. Primack, la moderna biologia della conservazione ha essenzialmente tre scopi: analizzare e descrivere la diversità dei viventi; comprendere gli effetti delle attività antropiche su specie, comunità ed ecosistemi; sviluppare metodologie interdisciplinari di intervento per proteggere e, se necessario, ripristinare la biodiversità.
Abstract di approfondimento da Biologia della conservazione di Alessandro Chiarucci e Sandro Lovari (Enciclopedia della Scienza e della Tecnica)
Uno degli aspetti più controversi di tutta la biologia della conservazione riguarda l’ecologia del ripristino, ossia quella disciplina scientifica che ha come finalità il restauro di uno stato originario, o comunque di riferimento, della struttura, ma anche delle funzioni di una comunità o di un ecosistema degradato, di solito a causa di attività antropiche. Questo tipo di approccio è spesso necessario per ricostruire l’habitat distrutto di molte specie che non avrebbero, altrimenti, modo di poter sopravvivere in natura. Ovviamente, la specificazione delle caratteristiche strutturali e funzionali di riferimento è spesso limitata dalla mancanza di dati ed è, pertanto, uno dei punti deboli dell’ecologia del ripristino. Inoltre è spesso difficile – se non addirittura impossibile – poter valutare a priori le capacità di mantenimento di comunità o ecosistemi ricostruiti artificialmente. Nonostante questi problemi, l’ecologia del ripristino è una disciplina che ha all’attivo molti successi sia teorici sia, soprattutto, pratici. Ci sono società scientifiche specificamente dedicate a questo fine, tra le quali spicca la Society for Ecological Restoration International (http://www.ser.org/) che, tra le sue varie attività, pubblica anche un’affermata rivista scientifica “Restoration ecology”. Il restauro ecologico può essere effettuato reimmettendo in natura taxa che si siano estinti localmente o abbiano ridotto significativamente la loro abbondanza. Queste operazioni devono essere compiute cercando di creare le migliori condizioni possibili per il mantenimento futuro delle popolazioni e limitando le necessità di interventi dall’esterno. Le immissioni biologiche comprendono operazioni di ripopolamento, introduzione, reintroduzione di organismi animali o vegetali autoctoni (popolazioni naturalmente residenti, in transito migratorio o che siano spontaneamente insediate in un’area geografica) o di organismi alloctoni (popolazioni insediatesi in un’area a seguito dell’intervento diretto o indiretto dell’uomo).
Nelle operazioni di ripopolamento si ha l’immissione di individui appartenenti a un’entità già presente in quell’area, ma in densità anormalmente bassa. I ripopolamenti non hanno nessuna efficacia se vengono effettuati senza prima aver individuato e rimosso le cause che hanno indotto la bassa consistenza della popolazione. Se, per esempio, il prelievo venatorio è eccessivo, il fatto di immettere individui non costituisce una soluzione. Anche un habitat carente può rendere vana la funzione dei ripopolamenti; nonostante ciò, essi sono stati effettuati e si attuano ancora con frequenza, ma con leggerezza d’approccio. Alcuni popolari travisamenti riguardo ai ripopolamenti sono piuttosto comuni: si ritiene per esempio che l’immissione di genotipi alloctoni aumenti la locale biodiversità, che effettuare molti ripopolamenti sia sinonimo di profonda sensibilità naturalistica, o che ripopolamenti massicci producano tanta fauna da cacciare (la fauna cacciata può essere anche abbondante, ma così è di qualità scadente). Questi interventi hanno una loro valenza gestionale perché possono aiutare in certi casi ad allontanare lo spettro dell’estinzione. Deve però essere previamente rimossa la causa che impedisce agli individui superstiti di aumentare di numero: i ripopolamenti hanno senso quando l’ambiente è idoneo, ma la consistenza della popolazione è bassa a causa di tare riproduttive.
Le introduzioni sono immissioni di un’entità faunistica o botanica in un’area in cui questa non sia mai stata presente. Queste operazioni sono di norma da escludere sia perché alterano il naturale profilo biogeografico dell’area interessata, sia per la probabile competizione che potrebbero determinare con taxa locali. Unica eccezione sono le introduzioni a fini di conservazione, o ‘introduzioni benigne’ (benign introductions): queste sono immissioni di entità faunistiche o floristiche in aree in cui non siano mai state presenti, ma in habitat e zone ecogeografiche appropriate, in seguito alla totale scomparsa dei genotipi autoctoni. Le reintroduzioni sono, invece, immissioni di entità faunistiche o botaniche in un’area in cui siano state sicuramente presenti e da cui siano scomparse in tempi storici (per lo più per azione diretta o indiretta dell’uomo). Esse sono operazioni gestionali positive nel caso in cui le cause dell’estinzione siano state previamente identificate e rimosse e qualora siano ancora presenti (o siano state restaurate) le condizioni ambientali necessarie per la sopravvivenza del taxon da reintrodurre. Le reintroduzioni possono essere importanti per motivi faunistici, botanici, biogeografici, conservazionistici ed economici (per es., nella caccia e nel turismo: un parco privo di fauna visibile ha scarsa attrattiva turistica). Nel quadro della gestione delle risorse biologiche, sono comunque accettate solo le immissioni che rispettino i seguenti criteri: (a) rimozione preventiva delle cause di estinzione o riduzione numerica; (b) ripristino di condizioni ambientali necessarie alla sopravvivenza del taxon da immettere. Nella scelta delle aree di reintroduzione o immissione, è importante tener conto delle dimensioni dell’area, che devono essere idonee alle necessità ecologiche del taxon (per es., deve essere possibile assicurare una diversità genetica sufficiente; deve essere garantita la possibilità dell’instaurarsi di una popolazione di consistenza almeno pari alla minimum population size, ossia al numero minimo di individui necessario per la buona sopravvivenza a lungo termine della popolazione) e l’assenza di specie competitrici. È inoltre opportuno accertarsi dell’assenza di potenziali interferenze con attività antropiche.
Un fondamentale contributo che discipline come la genetica possono offrire alla conservazione delle risorse biologiche è la comprensione del ruolo che i fattori ereditari svolgono nella dinamica di popolazione. Soprattutto in territori relativamente poco estesi, la salvaguardia di un taxon nativo si riduce il più delle volte alla conservazione di nuclei isolati, costituiti da un numero limitato di individui. La sopravvivenza di queste piccole popolazioni è collegata sia a fattori ambientali (tra questi anche la pressione antropica) sia a fattori intrinseci alla popolazione, per esempio la dinamica demografica e la struttura genetica. Individuare sistemi che consentano di valutare lo stato di ‘salute genetica’ delle popolazioni naturali, che permettano cioè di individuarne il livello di variabilità, il tasso di inbreeding (o ‘inincrocio’) e gli effetti della deriva casuale, rappresenta pertanto un valido supporto al buon esito degli interventi di conservazione. Questi studi sono particolarmente utili sia per la facilità di determinare le variazioni genetiche (in forma di frequenze geniche o genotipiche), sia per la sensibilità di queste ai fattori evolutivi e ai trascorsi demografici delle popolazioni. Sono numerosi i casi in cui le analisi teoriche della genetica di popolazione trovano un’immediata ricaduta applicativa. Nel caso di popolazioni (soprattutto di grandi Mammiferi) che abbiano subito pesanti contrazioni demografiche e che costituiscano la fonte esclusiva di soggetti per attuare operazioni di reintroduzione, si pone il problema di scegliere gli individui più adatti e di gestire in modo oculato, dal punto di vista genetico, il nucleo dei fondatori. Un’analisi degli alloenzimi effettuata su campioni di sangue o su biopsie di animali catturati è il primo passo da compiere per operare la scelta qualitativa dei riproduttori. È infatti necessario che essi costituiscano un gruppo geneticamente eterogeneo, al fine di fornire la nuova popolazione del maggior numero possibile di alleli presenti nel pool genico parentale. Le analisi genetiche permettono inoltre di stabilire la posizione tassonomica dei taxa a livello specifico e sottospecifico, e di verificare o avanzare ipotesi sull’origine autoctona delle popolazioni. Viene così limitato il rischio di commettere errori gestionali, come per esempio quelli di conservare il patrimonio genetico di un taxon in via di estinzione incrociandolo con altri filogeneticamente lontani, o di introdurre esemplari di diversa origine provocando l’inquinamento del pool genico di popolazioni autoctone.