Abbreviazione del termine inglese popular («popolare»), con cui sono state qualificate produzioni e manifestazioni artistiche di vario tipo che hanno avuto diffusione di massa nella seconda metà del Novecento.
Pop art Corrente artistica sviluppatasi in Inghilterra e, quindi, in particolare, negli USA dalla metà degli anni 1950. Nelle sue espressioni e motivazioni, è fenomeno di una società tecnologica caratterizzata da una cultura di massa, condizionata dai mass media. Alcune sue peculiarità vanno ricercate nella crisi attraversata dall’arte non figurativa in generale e, in particolare, dall’espressionismo astratto: tendenza che si sviluppa nella ricerca di una nuova espressione figurativa capace di attingere nuova linfa dalle forme della vita quotidiana. Le immagini prodotte dal cinema, dalla televisione, dalla pubblicità, gli oggetti commerciali di una società consumistica sono divenuti protagonisti e materiali espressivi di questa forma artistica.
Pur non mancando esperienze condotte da artisti isolati o da gruppi in ambito internazionale, la pop art va tuttavia considerata un fenomeno tipicamente anglosassone. J. Johns, con le sue bandiere, e R. Rauschenberg, coi suoi combines, sono considerati gli iniziatori della pop art americana, che ha in J. Dine, C. Oldenburg, J. Rosenquist, R. Lichtenstein, R. Indiana, A. Warhol alcuni dei più significativi esponenti. La pop art inglese si riallaccia alle ricerche dell’Indipendent Group, sorto nell’ambito del londinese Institute of Contemporary arts, che già dal 1952 poneva in discussione problemi della teoria dell’informazione e delle comunicazioni di massa. Nel 1956 R. Hamilton espose alla mostra This is tomorrow (Londra, Whitechapel Gallery) un collage (Just what is it that makes today’s homes so different, so appealing?) che può essere considerato la prima opera pop. Esponenti della pop art inglese, distinta da quella americana per una maggiore libertà e acutezza creativa, sono P. Blake, R. Smith, D. Hockney, l’americano R.B. Kitaj, A. Jones, J. Tilson, E. Paolozzi.
Originariamente in uso solo nei paesi anglofoni, la locuzione pop music è stata usata per designare la musica concepita e prodotta per il consumo popolare, urbano e di massa, nell’era della civiltà industriale. In quanto tale prende il posto, per funzione d’uso, del folclore musicale, retaggio della civiltà agricola e pastorale, di cui eredita certi modi di fruizione, ma non quelli della produzione, non più autogena ma delegata a una creatività fortemente influenzata dalle nuove forme di comunicazione.
La locuzione ‘popular music’ comparve già all’inizio del 19° sec. per distinguere il repertorio delle canzoni popolari dalla produzione di musica colta. Veniva genericamente usata per indicare forme musicali dalla struttura semplice, per lo più strofica, e dalla melodia accattivante, prive di cambi di tempo (genericamente in 4/4), di variazioni dinamiche e fondate su scale pentatoniche. La musica popolare, basata su una certa ripetitività melodica e capace al tempo stesso di un notevole potere aggregativo, ha subito profonde evoluzioni, sfuggendo talvolta a rigide classificazioni: lo dimostra anche il fatto che compositori classici come Mozart o J. Strauss figlio nel 18° e nel 19° sec. hanno goduto di enorme diffusione popolare.
Alla fine del 19° sec. e agli inizi del successivo, negli Stati Uniti la musica leggera (ribattezzata folk music) iniziò a divenire un fenomeno commerciale, con il mercato delle partiture di canzoni popolari, per lo più musica da vaudeville e ragtime i cui ritmi sincopati conquistarono l’America attraverso le composizioni di S. Joplin e I. Berlin. Nacque proprio in quel periodo a New York l’editoria musicale, antesignana della moderna industria discografica: un gran numero di autori e compositori furono ingaggiati da editori in cerca di melodie accattivanti e di fruizione immediata. Già a partire dall’inizio del 20° sec. la musica popolare si affermò quindi parallelamente allo sviluppo tecnologico dell’industria dell’intrattenimento, quella discografica in primo luogo. La commercializzazione del grammofono e del disco in lacca nitrocellulosa, successivamente perfezionato tanto nella forma quanto nei materiali, rivoluzionò il mercato musicale alla metà degli anni 1910. Ma è solamente negli anni 1930 che la musica pop cominciò a esercitare il suo impatto di massa raggiungendo le case di milioni di persone in tutto il mondo grazie alla diffusione del disco microsolco – che divenne il supporto d’elezione fino agli anni 1980 – e allo sviluppo della radiofonia.
Il trombettista L. Armstrong registrò con i suoi gruppi (Hot five e Hot seven) tra il 1926 e il 1928 dischi considerati uno snodo cruciale della storia del jazz. Personaggio istrionico e dotato di grande talento, contribuì negli anni successivi a rendere il jazz un fenomeno pop sommando le sintassi musicali dei due generi; in tal modo il jazz ottenne un grande successo non solo tra la popolazione afromericana. La commistione tra la sensibilità musicale bianca e quella nera avvenne nella sua forma più compiuta nel 1924 con la Rapsodia in blu del compositore G. Gershwin, prima vera e propria opera pop, caleidoscopio di influenze colte e popolari che riscosse un enorme successo in America. Tra gli anni 1920 e 1930 compositori come Gershwin, R. Rodgers e C. Porter introdussero arrangiamenti orchestrali jazz nelle commedie musicali per il teatro: il musical si affermò in quegli anni come genere pop, mentre dischi e partiture andavano a ruba.
La metà degli anni 1930 vide spopolare il genere swing delle grandi orchestre di D. Ellington, C. Basie, J. e T. Dorsey, G. Miller e B. Goodman. È stato ancora una volta l’incontro tra due culture, quella del ritmo prepotente del jazz e quella della musica orchestrale bianca di discendenza europea, a creare un fenomeno pop che l’America – impegnata in una faticosa via d’uscita dalla Grande depressione del 1929 – accolse come un’occasione di intrattenimento per dimenticare i problemi quotidiani.
Aspetto primario del pop è il divismo connesso ai suoi protagonisti. Se fino agli anni 1930 era la composizione, la canzone, il tema, l’opera il centro dell’attenzione degli ascoltatori, a partire dagli anni 1940 nacque la figura della pop star idolatrata da schiere di fan (abbreviazione di fanatics). Due i fattori che portarono al successo crooners («sussurratori») dalle voci ben spiegate e impostate, come B. Crosby e F. Sinatra: la vicinanza dei temi trattati – per lo più sentimentali – con quelli prediletti dal pubblico, e l’esponenziale aumento del pubblico stesso. A partire infatti dalla seconda metà degli anni 1940, la musica pop come fenomeno commerciale crebbe con l’aumento del benessere conseguente alla congiuntura economica positiva del secondo dopoguerra e con la nascita di una nuova categoria sociale, quella degli adolescenti come soggetti attivi di consumi. A soddisfare il bisogno di pop ci furono le case discografiche (majors) che si dotarono di strutture produttive e distributive e iniziarono a elaborare strategie di marketing puntando sul medium radiofonico e sui nuovi divi.
Quando E. Presley, all’inizio degli anni 1950, rivoluzionò la musica d’intrattenimento inventando la formula del rock’n’roll – incrocio tra country e blues dotato di una percussività energica e originale –, il mondo giovanile era pronto per un nuovo pop che assumeva per la prima volta le dimensioni di un fenomeno di massa: il rock diventava svago e divertimento, ma anche un segno generazionale distintivo. L’industria discografica intercettò questo bisogno di identificazione e vi costruì attorno una cultura in qualche modo già multimediale che utilizzava il cinema, i fumetti, la televisione, la radio, i dischi, l’abbigliamento, i giornali.
All’inizio degli anni 1960, quando il rock’n’roll era ormai codificato, un nuovo tipo di canzone pop si affermò: era l’ora di una generazione di autori cresciuti con il rock’n’roll (quali N. Sedaka, C. King e G. Goffin, D. Pomus e M. Shuman), ma attenti alla qualità degli arrangiamenti orchestrali di Porter o Gershwin. Per la musica pop la prima metà degli anni 1960 segnò un momento di grande tensione creativa. Negli Stati Uniti la black music, che rinnovava il pop in chiave rhythm’n’ blues, ottenne un grande successo di pubblico; in Gran Bretagna i Beatles, con la loro fusione di beat e rock’n’roll si affermarono come il più grande gruppo pop, nonché oggetto di idolatria da parte dei teenager.
La creazione pop, imboccando una tendenza tuttora viva, diventava transnazionale fino a obbedire a regole per confezionare un prodotto privato ormai di ogni connotazione regionale. Pop diventò un prefisso o un suffisso come nel caso di pop-rock, bubblegum pop, soul pop, synth pop, che di volta in volta restituiva una pallida coloritura a un genere di per sé difficilmente catalogabile. Gli anni del disimpegno, alla fine degli anni 1970, hanno prodotto l’ultimo fenomeno commerciale autenticamente pop, la disco-music, sintesi di soul, funk e arrangiamenti elettronici, nata nel circuito delle nascenti discoteche.
Negli anni 1980 solo il movimento hip hop e il rap sono riusciti a guadagnare lo status di cultura popolare autentica. Madonna e M. Jackson, modelli di un’epoca di riflusso, tra gli anni 1980 e 1990, e del predominio dell’emittente musicale Mtv, non hanno fatto che perpetuare con il loro pop artificiale ed edulcorato il culto del divismo. Tale culto è stato poi raccolto da artisti catalogabili come teen pop (B. Spears, C. Aguilera, Take that, Backstreet boys, Spice girls) per la loro capacità di rivolgersi a un pubblico adolescente e preadolescente.