Melodramma
Genere non omogeneo ma consolidato nella tradizione culturale ‒ teatrale, musicale e letteraria ‒, il m. si è imposto anche sullo schermo da quando il cinema ha cominciato a narrare storie, costituendo uno dei due generi primari accanto al comico, e più del dramma generico di cui rappresenta l'espressione estrema. Solo negli ultimi trent'anni del Novecento il genere è stato riconosciuto in quanto tale dalla critica internazionale, soprattutto in riferimento a Hollywood. Se è vero però che il cinema statunitense ha operato nel tempo una sorta di codificazione del m., la sua presenza ha contrassegnato quasi tutte le cinematografie: sue caratteristiche sono infatti il prosciugamento della letterarietà a vantaggio dell'essenzialità drammaturgica, l'esaltazione delle passioni primarie a scapito dei temi storico-esistenziali, l'accentuazione espressiva contro le divagazioni narrative. Questi elementi, connaturati al cinema, alla sua natura di spettacolo popolare dalle convenzioni linguistiche apertamente dichiarate, contribuirono a soppiantare il m. nel teatro di prosa, non del tutto quello in letteratura e per nulla quello in musica, matrice del genere, la cui radicata diffusione ne ha favorito la sopravvivenza nella tradizione spettacolare.
Già nei primi anni del Novecento il cinema, attingendo alle opere liriche (v. operistico, film) portate spesso sullo schermo, avviò una prima formalizzazione del genere: i film duravano poche decine di minuti e quindi imponevano la scelta delle sole scene madri dei grandi temi letterari e musicali. Conseguita una sua consapevolezza linguistica, il cinema negli anni Dieci poteva cominciare a mettere in scena vicende di "estremismo emotivo con stile adeguatamente eccitato" (Marchelli 1996, p. 12). La passione d'amore contrastato, quindi, prima di tutto, ma non solo questa. Sono passioni d'amore quelle che attraversano due film storicamente emblematici del genere: Assunta Spina (1915) di Gustavo Serena e Broken blossoms (1919; Giglio infranto) di David W. Griffith. Il cinema muto si rivelò particolarmente funzionale all'espressione melodrammatica perché, pur privo di parole e suoni, poteva far conto su gestualità ed espressioni necessariamente enfatizzate, e lo stesso Charlie Chaplin non ne rimase indenne. La sua comicità lasciò infatti spazio almeno un paio di volte a emozioni apertamente melodrammatiche in A woman of Paris (1923; La donna di Parigi) e City lights (1931; Luci della città). Quest'ultimo film immortalò tra l'altro uno dei temi più frequentati dalla struttura melodrammatica, la cecità, ripresa più volte, da Seventh heaven (1927; Settimo cielo) di Frank Borzage ai due Magnificent obsession, rispettivamente di John M. Stahl (1935; Al di là delle tenebre) e Douglas Sirk (1954; Magnifica ossessione), da Dark victory (1939; Tramonto) di Edmund Goulding a Vénus aveugle (1943; La Venere cieca) di Abel Gance e On dangerous ground (1951; Neve rossa) di Nicholas Ray.
Le molte sventure e i violenti contrasti che costituiscono la struttura della situazione melodrammatica non sono però la caratteristica unica del genere, che risulta invece fortemente segnato dall'intensità di tono e dalla forza stilistica impresse dai diversi autori. Così, ancora nel muto, grandi cineasti europei emigrati a Hollywood come Friedrich W. Murnau (Sunrise. A song of two humans, 1927, Aurora) e Victor Sjöström (The wind, 1928, Il vento) e autori caratterizzati dall'eccesso barocco come Erich Von Stroheim o Josef Von Sternberg avrebbero fatto significative incursioni nel genere; mentre il giovane Borzage, il primo maestro del m. al cinema, già nel 1922 aveva colto i termini essenziali della questione melodrammatica: "il vecchio melodramma che si designava come 'genere per sartine' non aveva qualità al di là della sua attitudine di suscitare l'emozione: non c'era caratterizzazione, salvo quella che veniva dalle situazioni stesse. Ma nei film di oggi noi abbiamo le stesse situazioni melodrammatiche alle quali sono adattate delle autentiche caratterizzazioni. I critici tendono a disprezzarle, ma sembrano non accorgersi che la vita è fatta in gran parte di melodramma" (in P. Milne, Motion picture directing; the facts and theories of the newest art, 1922, cit. in "Positif", 1976, 183-184, p. 5).
Seventh heaven, il film più giustamente celebrato di Borzage, non deve però solo alla sua alta qualità il peso storico che ha nei confronti del genere. Oltre al perfezionamento dello stile lirico-romantico ‒ che avrebbe avuto negli anni Sessanta l'erede ideale in Vincente Minnelli, così come l'aspetto più razionale sarebbe stato affrontato da Stahl, Sirk e Rainer W. Fassbinder ‒ il film lanciò gli interpreti, Charles Farrell e Janet Gaynor, come la coppia romantica per eccellenza del cinema statunitense, protagonista di una dozzina di film tra il 1927 e il 1933; e soprattutto avviò la pratica dei remake, particolarmente frequenti in ambito melodrammatico. Seventh heaven fu infatti ripreso nel 1937 da Henry King, uno dei massimi esponenti del genere, autore a sua volta nel 1925 di Stella Dallas, successivamente ripreso da King Vidor nel 1937 (Amore sublime), e ancora nel 1990 da John Erman (Stella). La verità poetica, la trasfigurazione dell'esperienza vitale attraverso l'intensità dell'amore contrassegnarono anche la lunga carriera di Borzage nel sonoro, di cui sono da citare almeno A farewell to arms (1932; Addio alle armi), primo adattamento del romanzo omonimo di E. Hemingway, da cui pure si discosta sensibilmente, essendo più coerentemente vicino al mondo intimista e lirico del regista che a quello asciutto dello scrittore; The shining hour (1938; Ossessione del passato), rilevante anche perché riunì due eroine del m., Joan Crawford e Margaret Sullavan; e The mortal storm (1940; Bufera mortale), un film in cui il sentimento privato si impone sull'attualità storica, trattando della questione ebraica in epoca nazista, argomento che indusse J.P. Goebbels a bandire dalla Germania i film della Metro Goldwyn Mayer. Al calore partecipato di Borzage, Stahl contrappose la lucidità quasi distaccata di chi guarda i suoi personaggi con assoluta neutralità. Nel celebre Back street (1932; La donna proibita) affrontò il tema, ripreso in seguito più volte, della donna che si sacrifica per amore, e lo perfezionò in Only yesterday (1933; Solo una notte), prima di affrontare una serie di film che sarebbero poi stati oggetto di rifacimento negli anni Cinquanta a opera di Sirk: Imitation of life (1934; Lo specchio della vita), Magnificent obsession (1935) e When tomorrow comes (1939; Vigilia d'amore).
Accanto agli specialisti, molti altri cineasti non esitarono a realizzare melodrammi più o meno 'puri'. Sono da citare almeno il delicato One way passage (1932; Amanti senza domani) di Tay Garnett; il celebre, prossimo al fantastico, Peter Ibbetson (1935; Sogno di prigioniero) di Henry Hathaway; e due titoli significativi perché firmati da due maestri della commedia: Forbidden (1932; Proibito) di Frank Capra e Broken lullaby (1932; L'uomo che ho ucciso) di Ernst Lubitsch. Ma soprattutto resta un punto fermo nel genere Make way for tomorrow (1937; Cupo tramonto) di Leo McCarey, supremo e originale esempio di contaminazione tra la leggerezza stilistica della commedia e la profondità del tono sentimentale. Caratteristiche riprese dallo stesso autore in Love affair (1939; Un grande amore), oggetto di remake dello stesso McCarey con An affair to remember (1957; Un amore splendido). È altrettanto rilevante la quasi costante presenza melodrammatica di Greta Garbo, che George Cukor esaltò nel film tratto da La dame aux camélias di A. Dumas figlio, Camille (1937; Margherita Gautier).
Gli anni Trenta, conclusi negli Stati Uniti con Gone with the wind (1939; Via col vento) di Victor Fleming, videro in Germania l'avvio della vocazione melodrammatica di Detlef Sierck/Douglas Sirk (Schlussakkord, 1936, La nona sinfonia; La Habanera, 1937, Habanera), in Francia il sanguigno contagio subito da Jean Renoir (La bête humaine, 1938, L'angelo del male), in Italia la prima definizione del personaggio che Amedeo Nazzari avrebbe poi sviluppato negli anni Cinquanta in Montevergine (1939) di Carlo Campogalliani.Nel decennio successivo, il m. contaminò i propri elementi con quelli di altri generi. K. Vidor firmò due opere personalissime che segnarono una svolta nel melodramma cinematografico: Duel in the Sun (1946; Duello al sole) è un western memorabile per l'ambientazione e per alcuni temi affrontati, ma i rapporti tra i personaggi e il celebre duello finale, intriso com'è di amore e morte, fanno appartenere il film alla migliore tradizione melodrammatica (così come vi appartiene un altro western diretto nel 1954 da N. Ray, Johnny Guitar); e più ancora The fountainhead (1949; La fonte meravigliosa), nel quale il tema della passione d'amore si trasfigura in quello della fedeltà irrinunciabile a un ideale estetico. Anche un autore come Alfred Hitchcock piegò il proprio inconfondibile mondo poetico alla migliore tensione melodrammatica nel suo film forse più ispirato, Notorious (1946; Notorius ‒ L'amante perduta), e l'apolide per anagrafe e per estetica Max Ophuls realizzò uno struggente connubio di letteratura e cinema in Letter from an unknown woman (1948; Lettera da una sconosciuta), dal racconto di S. Zweig. I maestri H. King e J.M. Stahl firmarono ancora due storie estreme di donne, ma su fronti opposti: il primo con il mistico The song of Bernadette (1943; Bernadette), il secondo con il patologico Leave her to heaven (1945; Femmina folle), rilevante anche per l'impiego fortemente espressivo del colore. Titolo hollywoodiano emblematico della decade è infine Casablanca (1942) di Michael Curtiz, suprema sintesi, in chiave melodrammatica, di tutto il cinema di genere.Al di qua dell'Atlantico, Francia, Gran Bretagna e Italia più volte fusero in celebri film caratteristiche nazionali con elementi tipici del m.: la letterarietà francese in Les enfants du paradis (1945; Amanti perduti) di Marcel Carné e La belle et la bête (1946; La bella e la bestia) di Jean Cocteau; la violazione della compostezza inglese in Brief encounter (1945; Breve incontro) di David Lean e in Black narcissus (1947; Narciso nero) di Michael Powell ed Emeric Pressburger; lo sforzo di rapportarsi con la realtà italiana nel propagandistico, pur se ambientato in Russia, Noi vivi ‒ Addio, Kira (1942) di Goffredo Alessandrini, e in uno dei capolavori del Neorealismo, ma forte di una struttura melodrammatica, Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica.
Negli anni Cinquanta si verificarono mutamenti sociali che il m. cinematografico non poteva non registrare. In particolare, fu il tema della famiglia che si impose con maggiore evidenza rispetto al passato. Ciò vale a proposito di Hollywood, ma ancora di più per il caso che segnò vistosamente il cinema italiano dei primi anni della decade. Accanto ai primi esiti della commedia all'italiana si impose infatti il m. di Raffaello Matarazzo: la trilogia realizzata tra il 1950 e il 1951 divenne emblematica sia per il clamoroso successo presso gli spettatori sia per l'interminabile dibattito pubblico sul quotidiano "l'Unità" nel quale la critica espose le sue ragioni di ferma ostilità a quei film (dibattito che coinvolse pubblico e registi e che durò dal novembre 1955 all'aprile 1956, poi ripubblicato nel 1978 dalla Mostra internazionale del nuovo cinema di Pesaro in Materiali sul cinema italiano degli anni '50, 2° vol.); sia, infine, per la rivalutazione promossa dalla critica francese all'inizio degli anni Settanta, prontamente raccolta da frange della cinefilia italiana, e solo in seguito da una parte della critica ufficiale. Catene (1949), Tormento (1950) e I figli di nessuno (1951) costruirono e fissarono a un tempo relazioni familiari così forti e spigolose da trascinare il pubblico e sconcertare la critica perché quest'ultima non si accorse di quanto recepì invece il primo, e cioè che gli attori, identificatisi presto con i personaggi interpretati, Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson, altro non erano che un 'tenore' e un 'soprano', la cui esistenza veniva scardinata dal baritono 'cattivo' o da fatali circostanze. Lo sceneggiatore 'librettista' Aldo De Benedetti aveva costruito impianti drammaturgici che il Matarazzo 'operista' fece lievitare dagli schematismi d'argomento (primo fra tutti la condizione femminile, sacrificata e subordinata a quella maschile); erano film, quindi, non assimilabili agli altri dell'epoca di soggetto analogo ai quali vennero accomunati.In quegli anni non mancarono tuttavia altre voci soliste, come quelle sensibili allo stile statunitense: il brillante Riccardo Freda (Vedi Napoli… e poi muori!, 1952; Beatrice Cenci, 1956) e il raffinato Vittorio Cottafavi (Traviata '53, 1953; Una donna libera, 1954). Ma soprattutto si imposero, seppure non al grande pubblico, Giuseppe De Santis e Luchino Visconti. Del primo sono Riso amaro (1949) e Non c'è pace tra gli ulivi (1950): due titoli che seppero fondere l'eredità neorealista e le incalzanti istanze ideologiche. Di Visconti è Senso (1954), che per molto tempo venne considerato il momento di passaggio dal Neorealismo al realismo e che oggi si può collocare tra gli esiti più alti del genere oltre che del suo autore, la cui poetica è attraversata da una rielaborazione delle strutture melodrammatiche. Tra i grandi nomi va annoverato anche quello di Roberto Rossellini, che fece vivere a Ingrid Bergman un m. intimista in Europa '51 (1952). Matarazzo, da parte sua, proseguì per tutta la decade a firmare m. (compreso Angelo bianco, 1955, il suo film più originale), sospendendo la carriera di regista di commedie, fatto significativo che lo avvicina ai colleghi statunitensi del periodo.D. Sirk e V. Minnelli, i due massimi autori di m. dell'ultima grande stagione hollywoodiana, sono stati infatti anche autorevoli autori di commedie, e il secondo anche di musical. Questo conferma la complementarietà tra genere melodrammtico e commedia. Al contrario di Billy Wilder, che fece seguire a una stagione drammatica (senza cioè gli estremismi emotivi propri del m.) una strepitosa stagione comica, Sirk, dopo aver firmato commedie, è entrato nella storia del cinema con una serie di film che restano un punto di riferimento nel genere melodrammatico. Tensione narrativa ed enfasi barocca, partecipazione d'autore e sguardo critico da intellettuale contrassegnano i suoi m., che sono stati oggetto di molte indagini a conferma dello status di maestro del regista. Written on the wind (1956; Come le foglie al vento) è il suo film più compiuto, ma anche Magnificent obsession e Imitation of life (1959; Lo specchio della vita) condensano la sua articolata poetica, compresa tra l'individualismo esasperato del primo e la struttura sociofamiliare del secondo. Di rilievo la quasi costante presenza di Rock Hudson, attore che grazie a Sirk diventò esponente del m. per eccellenza. Più sfaccettato di Sirk, Minnelli ha operato una sintesi dei toni e delle forme cinematografiche nell'ottica del poeta che interviene nel rapporto tra arte e vita. Some came running (1959; Qualcuno verrà), forse il suo capolavoro, è una sorta di compendio del m. cinematografico, dove l'individualismo del protagonista scrittore si incontra e si scontra con il mondo circostante, e dove formato dell'immagine a schermo grande e sua saturazione cromatica traducono il piacere e la difficoltà dell'espressione creativa. Lo stesso mondo del cinema, anzi dell'arte in genere, in cui ha ambientato alcuni suoi film, rivela quanto Minnelli dipendesse dal mondo estetico, anche se altri suoi riusciti m. sono da ascrivere alla pura condizione esistenziale (Tea and sympathy, 1956, Tè e simpatia), arricchita dall'estetismo e dalla narrazione al servizio della Storia (The four horsemen of the Apocalypse, 1962, I quattro cavalieri dell'Apocalisse), nonché alla crisi della condizione familiare (Home from the hill, 1960, A casa dopo l'uragano).Il tema dominante che si impose negli anni Cinquanta e Sessanta fu quello della condizione giovanile, affrontata in Rebel without a cause (1955; Gioventù bruciata) di N. Ray, A summer place (1959; Scandalo al sole) di Delmer Daves, Splendor in the grass (1961; Splendore nell'erba) di Elia Kazan, West Side story (1961) di Robert Wise e Jerome Robbins. Questa tendenza, unitamente ai casi di vecchie glorie impegnate a rielaborare antichi soggetti ‒ come G. Cukor in A star is born (1954; È nata una stella) e L. McCarey in An affair to remember, film 'copioni' ripresi ancora decine di anni dopo ‒, segnò una linea di demarcazione tra il m. classico e quello moderno, ormai destinato a manifestarsi in forme diverse rispetto al passato.
Si è soliti considerare il genere melodrammatico come espressione prevalentemente hollywoodiana e talvolta europea, tuttavia i suoi elementi caratteristici ‒ se non proprio le sue forme ‒ si ritrovano anche in altre cinematografie, come l'egiziana, l'indiana, l'argentina. Da ricordare il cinema messicano, ricco di componenti melodrammatiche con autori quali Emilio Fernández, Roberto Gavaldón, Arturo Ripstein, i capolavori giapponesi Saikaku ichidai onna (1952; Vita di Oharu, donna galante) e Chikamatsu monogatari (1954; Gli amanti crocifissi) di Mizoguchi Kenji, Yol (1982) di Yılmaz Güney e Şerif Gören, e Tilai (1990, Legge) di Idrissa Ouedraogo.
Tra gli anni Sessanta e Settanta la purezza di genere lasciò sempre più spazio a crescenti contaminazioni, mentre contemporaneamente si sviluppava il primo meditato interesse critico nei confronti di questo genere cinematografico, dapprima con studi sui singoli autori, quindi, a partire dagli anni Settanta, con analisi puntuali sulle strutture del genere effettuate in Francia e in Inghilterra. In Italia solo qualche anno dopo si è avviata la riflessione sul tema, e alla fine del 20° sec. sono state elaborate indagini storiche non disgiunte da considerazioni teoriche, destinate a produrre chiavi di lettura diversamente articolate.
Al fascino e alla lezione del m. non rimasero del resto insensibili gli esponenti del cinema più tipicamente moderno, quello della Nouvelle vague. Mentre Jean-Luc Godard percorreva la sua personale strada di ricerca, i colleghi Claude Chabrol e François Truffaut non esitavano, sia all'inizio della carriera sia in piena maturità, a vitalizzare ancora una volta l'impianto e lo stile melodrammatici, il primo con vari film personalissimi (tra questi Le boucher, 1970, Il tagliagole), il secondo con il classico La femme d'à côté (1981; La signora della porta accanto). E anche i cineasti delle ultime generazioni hanno impresso energia melodrammatica ai loro film, esplicitando rapporti con la psicoanalisi freudiana (già affiorati nel cinema hollywoodiano classico) e con lo straniamento brechtiano (che all'inizio degli anni Cinquanta segnava un film come Non c'è pace tra gli ulivi di G. De Santis). Di veramente inedito nei nuovi autori è l'equilibrio forzato tra incanto e disincanto nei confronti della realtà cinematografica messa in scena; così autori come Bernardo Bertolucci o Pedro Almodóvar si sono trovati spesso in rapporto con il m., ma senza mai appropriarsene interamente; mentre l'ambizioso 'dogmatismo' del danese Lars von Trier si è imbattuto nelle strutture melodrammatiche più di quanto le abbia ricercate. L'unico a dare una forma originale al genere, fondata sulla consapevolezza lucida delle sue caratteristiche, è stato il tedesco R.W. Fassbinder: il suo mondo esasperato e sentimentalmente violento è alla base di un'architettura melodrammatica complessa (non a caso fu il primo esegeta dei capolavori di D. Sirk fin dalla fine degli anni Sessanta). Su un altro versante, le sfumature che hanno attraversato l'opera dell'italiano Valerio Zurlini si sono pienamente espresse in uno degli ultimi capolavori del m. cinematografico, La prima notte di quiete (1972) Ancora in ambito europeo lo stile del m. è stato assimilato da registi come Manoel de Oliveira, Daniel Schmid, Werner Schröeter.Negli Stati Uniti hanno ancora subito l'influenza del m. molti autori come Michael Cimino (The deer hunter, 1978, Il cacciatore), Francis F. Coppola (Gardens of stone, 1987, Giardini di pietra), Steven Spielberg (Always, 1989, Always ‒ Per sempre), Martin Scorsese (The age of innocence, 1993, L'età dell'innocenza); fino all'ultimo autentico interprete-autore del cinema statunitense, Clint Eastwood, che nel corso della carriera ha progressivamente arricchito il suo personaggio e il suo mondo anche in chiave melodrammatica, esplicita in The bridges of Madison County (1995; I ponti di Madison County), per sfiorare poi la tragedia moderna in Mystic River (2003).
L'interesse rinnovato che il cinema contemporaneo ha mostrato rispetto al genere sembra confermare l'intima natura melodrammatica del cinema, la sua architettura di convenzioni ereditate e ricreate a un tempo; a confermarlo basterebbe l'impiego diffuso in tutti i generi del melos in quanto musica e in particolare la nobilitazione della facile emozione ‒ il 'lacrimoso' ‒ attraverso l'altezza di tono, esattamente come continua a fare il m. in senso stretto, l'opera lirica: entrambi, infatti, possono vantare l'insopprimibile valore degli interpreti che nessuna espressione scenotecnica sul palcoscenico e nessun effetto speciale sullo schermo sono mai riusciti a sostituire.
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