Operistico, film
L'opera in film, o filmopera che dir si voglia, nacque con il cinema stesso, ma prima ancora di assumere i connotati di un genere ben delineato manifestò la tendenza costante, soprattutto nel protocinema e nel cinema muto, a rifarsi a temi tratti dalla letteratura e dal teatro. Nel nostro caso, più che di teatro lirico in senso stretto, si dovrà parlare piuttosto di melodramma, nell'accezione più ampia del termine. Il modello originario non è basato sulla sostanza musicale, ma va ricercato infatti nel melodrama anglosassone, ben diffuso anche negli Stati Uniti dalla seconda metà dell'Ottocento al 1930 circa, e nel mélo francese, esauritosi nella transizione epocale tra 19° e 20° secolo. Sulla falsariga del romanzo d'appendice ‒ e come anticipazione di fenomeni paraletterari del Novecento come il fotoromanzo, il romanzo poliziesco e il fumetto ‒ entrambi i generi hanno in comune, in quanto prettamente popolari, la predilezione per i drammi edificanti, a forti tinte e dall'intreccio complesso, in cui, in un continuo ribaltamento di fronti, vizi e virtù si affrontano senza esclusione di colpi. Temi e personaggi indissolubilmente legati all'opera lirica vengono assunti per i loro caratteri simbolico-narrativi più che per quelli musicali, come dimostrano anche le molte pellicole dell'epoca del muto basate su soggetti operistici che, pur potendo ovviare all'assenza di sonoro con l'esecuzione dal vivo, non facevano ricorso alle musiche originali.
Tra filmopera propriamente detti, adattamenti e trasposizioni di varia natura (sulle cui differenze più avanti occorrerà distinguere), il personaggio Carmen conta 35 versioni a partire dal 1907; 27 sono le pellicole dedicate a Faust, già dal 1897; 20 realizzazioni vanta Cenerentola (dal 1899) e 18 Don Giovanni (dal 1898), mentre Violetta Valery è stata rivisitata dal 1907 al 1982 in una ventina di occasioni. I caratteri più specifici dell'opera lirica sono destinati a emergere soltanto con l'avvento del sonoro, benché nel periodo di transizione alcune tecniche sperimentali di sonorizzazione siano state applicate proprio a pellicole come Il barbiere di Siviglia (1923) di Azeglio e Lamberto Pineschi. In ogni caso l'individuazione dei modelli originari risulta in parte univoca, in parte ambigua. Se, per es., il personaggio Lulu rappresenta per lo spettatore musicale un riferimento pressoché assoluto all'incompiuta opera omonima di A. Berg (1937), i film Die Büchse der Pandora (1919) di A. von Czerepy, Erdgeist (1923) di Leopold Jessner e Die Büchse der Pandora (1929; Lulù ‒ Il vaso di Pandora) di Georg Wilhelm Pabst rimandano inequivocabilmente a F. Wedekind, ma altrettanto non si può affermare per film come Lulù (1953) di Fernando Cerchio, Lulu (1962; Lulù l'amore primitivo)di Rolf Thiele e Lulu (1980) di Walerian Borowczyk, che pur non essendo dei filmopera appartengono comunque a un filone che si alimenta in misura diversa al melodrame, al mélo, come anche all'opera lirica.Con tutti i limiti impliciti nelle classificazioni, conviene pertanto distinguere, all'interno di questo filone cinematografico, tre tipologie: a) i film ispirati più o meno liberamente a soggetti appartenenti al teatro musicale, in cui il canto appare marginalmente e non è comunque affidato ai protagonisti (a questa categoria possono anche appartenere i film biografici); b) le cosiddette opere parallele, in cui i protagonisti, immersi in una doppia storia, sono generalmente dei cantanti lirici che interpretano a loro volta personaggi d'opera, con conseguente alternanza e sovrapposizione dei due livelli narrativi, come avviene spesso nel musical hollywoodiano (in questa categoria rientrano anche le libere trasposizioni da opere liriche in cui parti cantate si alternano a parti recitate); c) i filmopera in senso stretto, ossia le trasposizioni filmiche più o meno fedeli di opere liriche di repertorio, in cui i protagonisti sono attori doppiati da cantanti e/o i cantanti stessi.
La prima tipologia è ben esemplificata da tre film del periodo del muto: Il trovatore (1910) di Louis Gasnier, con Francesca Bertini, Carmen (1915) di Cecil B. DeMille, con Geraldine Farrar, e La Bohème (1917) di Amleto Palermi, con Leda Gys. Una segnalazione a parte meritano, per le singolari implicazioni, Madame Butterfly (1915) di Sidney Olcott, basato sul racconto di J. L. Long e interpretato da Mary Pickford, che porta anche la firma di David Belasco ‒, l'autore del dramma da cui L. Illica e G. Giacosa avevano tratto ispirazione, assieme ad altre fonti, per il libretto scritto per G. Puccini ‒, e Der Rosenkavalier (1926) di Robert Wiene, che vide la partecipazione attiva di Richard Strauss e di Hugo von Hofmannsthal, già librettista e qui sceneggiatore.
Nella seconda categoria ‒ qui considerata con esclusivo riferimento al periodo del sonoro ‒ rientra invece La Wally (1931) di Guido Brignone, sospeso tra il romanzo di W. von Hillern e il libretto di L. Illica per V. Catalani, ma dal 1935 al 1955 si verificò una vera esplosione di queste 'opere parallele', un fenomeno che affiancava quello, prevalentemente italiano, del filmopera propriamente detto. Film come E lucean le stelle (1935) e Amami, Alfredo! (1940) di Carmine Gallone, Ridi, pagliaccio! (1941) di Camillo Mastrocinque, Il re si diverte (1941) di Mario Bonnard, Addio, Mimì (1949) ancora di Gallone, Rigoletto e la sua tragedia (1954) di Flavio Calzavara, Figaro "il barbiere di Siviglia" (1955) di Mastrocinque meriterebbero commenti specifici, ma basta forse l'esempio di Avanti a lui tremava tutta Roma (1946) di Gallone, in cui, nella capitale occupata dai nazisti, Tosca e Mario sono dei cantanti lirici simpatizzanti per i partigiani, mentre Scarpia è l'aguzzino fascista.Venendo alla terza categoria, che è anche la più rilevante, bisogna distinguere il filmopera vero e proprio, in cui si fa ricorso in misura diversa a tutti i mezzi tecnico-espressivi del cinema, da due tipologie vicine, cui si accenna soltanto, e cioè la ripresa cinematografica di un importante allestimento teatrale ‒ 'sottogenere' ormai trattato con le tecniche video, in cui la cinematografia austro-tedesca si era specializzata, grazie anche alla disponibilità di direttori come K. Böhm, W. Furtwängler, E. von Karajan, W. Sawallisch ‒ e la realizzazione di un'opera musicale contemporanea in forma cinematografica, un filone numericamente esiguo, di cui fanno parte opere come The Robber's symphony (1936) di Friedrich Feher, The Medium (1951) di Gian Carlo Menotti, The Beggar's Opera (1953) di Peter Brook, tratto da J. Gay, su musica originale di A. Bliss, e Giovanna d'Arco al rogo (1954) di Roberto Rossellini (basato sull'oratorio drammatico Jeanne d'Arc au bûcher di A. Honegger e P. Claudel).Tra i filmopera veri e propri, bisogna anzitutto ricordare Die Dreigroschenoper (1931; L'opera da tre soldi) di Georg Wilhelm Pabst, tratto dall'opera teatrale di Bertolt Brecht, una coproduzione franco-tedesca decisamente interessante ‒ osteggiata senza successo dallo stesso Brecht e da Kurt Weill, autore delle musiche, e la cui circolazione in Germania venne vietata ‒, e Die verkaufte Braut (1932; La sposa venduta) di Max Ophuls, film tratto da Prodana nevesta di B. Smetana e unanimemente riconosciuto come esempio tra i più felici di armonizzazione e fusione del flusso filmico e di quello musicale. La tradizione filmico-operistica, che sfiora soltanto una cinematografia vivacissima come quella statunitense (Carmen Jones, 1954, e Porgy and Bess, 1959, entrambi di Otto Preminger), può essere tuttavia ascritta principalmente all'Italia, dove dal 1946 al 1956 si produssero ben diciassette filmopera, e in misura minore all'Unione Sovietica. L'autore più prolifico è senza dubbio C. Gallone (Rigoletto e La signora delle camelie, 1947; La leggenda di Faust e Il trovatore, 1949; La forza del destino, 1950; Madama Butterfly, 1954; Tosca, 1956), ma si devono segnalare, fra gli altri, Mario Costa, regista di Il barbiere di Siviglia, grande successo del 1946 con il quale si apre il filone, e quindi di L'elisir d'amore (1947) e di Pagliacci ‒ Amore tragico (1948), e F. Cerchio, autore di Cenerentola (1949). La fedeltà alle opere originarie varia da film a film ma risulta generalmente compromessa da tagli e spostamenti di comodo. In ogni caso, in un inevitabile sottofondo di naïveté, appare evidente l'intenzione di frammentare la monoliticità teatrale a vantaggio di un cinema spigliato e leggero, non privo talvolta di soluzioni filmico-musicali piacevoli e argute, con ricorso frequente ad ambientazioni in esterni. Meno convincente risulta semmai il rapporto tra corpo e canto, tra emissione musicale, ovvero sforzo manifesto, e immagine filmica. Sui limiti del filmopera vi è stato un animato dibattito estetico soprattutto nel dopoguerra; infatti l'artificio che è alla base dello spettacolo lirico e la sua inscindibile componente fisiologica entrano in conflitto con la tendenza del cinema a mostrare con grande risalto oggetti idealizzati e smaterializzati; il filmopera rappresenta una sorta di trionfo del playback, l'affermazione di un artificio accettabile soltanto da parte di un pubblico poco esigente. La produzione cinematografica italiana vanta la presenza di interpreti come Mario del Monaco, Beniamino Gigli, Giuseppe Lugo, Tito Schipa, Gino Sinimberghi, Gino Bechi, Tito Gobbi, Italo Tajo, Maria Cebotari, Nelly Corradi generalmente capaci, se chiamati anche in veste di attori, di legare in modo abbastanza plausibile la loro stessa voce pre-registrata alla recitazione. Nel momento in cui vengono invece chiamati attori o attrici senza professionalità lirica a ricoprire il ruolo di personaggi d'opera, allora la dissociazione appare così stridente da risultare inaccettabile, non per ragioni di 'realismo' ma di mera esperienza psico-percettiva. Del corrispondente filone sovietico, la scarsa e in molti casi nulla distribuzione di quei film in Europa impedisce purtroppo un resoconto ragionevolmente consapevole. Dalle filmografie disponibili ci si deve perciò limitare a ricavare la presenza dei maggiori autori russi del teatro musicale dell'Ottocento, da M.P. Musorgskij ad A.P. Borodin, da N.A. Rimskij-Korsakov a P.I. Čajkovskij; la ricorrenza di registi particolarmente orientati alla musica come Vera P. Stroeva, regista di Boris Godunov (1955), definito dallo storico J. Leyda "la più efficace e fedele versione cinematografica di un'opera", e di Chovanščina (1959); l'insolito sconfinamento nel Novecento, per es. Katerina Izmajlova di D.D. Šostakovič, portata sullo schermo da Michail G. Šapiro nel 1967; e una certa persistenza del genere, ancora praticato negli anni Sessanta.
In Europa occidentale gli anni Settanta hanno aperto la stagione di maggiore felicità inventiva del filmopera, affrontato sia sulla falsariga della divulgazione popolare, da cui è nato e in cui ha prosperato, sia come opus filmico-musicale di insolite ambizioni. Un punto di raro equilibrio fra le due tendenze si può riscontare in Trollflöjten (1975; Il flauto magico) di Ingmar Bergman, che opta per un racconto caldo e partecipe dell'allestimento mozartiano in un piccolo teatro, alternando e collegando tecniche diverse di ripresa e relativi punti di vista. Non si tratta quindi di un'immersione totale e univoca, bensì di uno sguardo che dal primo piano e dai trucchi cinematografici (per es., la materializzazione del volto di Pamina in un ritratto che Tamino osserva) passa alla frontalità dell'impianto teatrale e da questo a un curiosare dietro le quinte, fino nei camerini, dove nell'intervallo la Regina della notte fuma voluttuosamente una sigaretta mentre Sarastro studia la partitura del Parsifal; tutto ciò come sdrammatizzazione e come occasione di un discorso indiretto sul teatro, ma non senza ammiccamenti alle identità dei personaggi del Singspiel (il ritardo con cui l'interprete di Papageno, assopitosi, riconosce appena in tempo l'aria con la quale dovrebbe entrare in scena nel primo atto). Anche il cast, composto da eccellenti attori-cantanti, contribuisce alla straordinarietà del risultato ‒ il Papageno di H. Hagegadr non fa rimpiangere quello di D. Fisher-Dieskau, unanimemente ritenuto un modello, e l'avvenenza maliziosa delle Tre damigelle e di Papagena rende piena giustizia all'erotismo mozartiano ‒ e pone questo Flauto magico tra i migliori risultati del genere. Quattro anni più tardi è uscito il Don Giovanni di Joseph Losey, esempio estremo, nel bene e nel male, del potenziale filmico-operistico. In un contesto sontuoso e magistralmente fotografato (la dilatazione spaziale delle ville palladiane e, per contro, gli spazi astratti del Teatro Olimpico di Vicenza), Losey dimostra un'attenzione davvero insolita per le peculiarità dell'opera settecentesca, arrivando a registrare i recitativi in presa diretta per conservare pieno rapporto tra emissione vocale e mimica facciale. Sul piano dell'intensità spettacolare e della 'verosimiglianza' il primato spetta forse a Carmen (1984) di Francesco Rosi, dove ancor più che in Losey il problema della staticità delle arie appare quasi sempre risolto con soluzioni di ambientazione, ovvero di animata partecipazione del contesto, o di movimento della macchina da presa o, ancora, di montaggio, sempre efficaci e rispettose delle esigenze musicali. Basti l'esempio dell'Ouverture, altro punto sul quale i registi mostrano generalmente qualche imbarazzo e affrontano con eccessi di natura diversa, che Rosi risolve con un 'documentario' sul rito della corrida, dove soltanto nei fotogrammi finali il torero rivela il volto di Escamillo/Raimondi. Infine, tra i registi che hanno mostrato intenti spiccatamente divulgativi occorre ricordare Franco Zeffirelli, autore di due filmopera (La traviata, 1983, e Otello, 1986), in cui a soluzioni filmicamente efficaci ‒ il flashback che nel preludio del primo atto già anticipa l'agonia della protagonista ‒ si alternano luoghi comuni. Sul versante opposto si collocano due realizzazioni insolite per questo genere cinematografico: Moses und Aaron (1975; Mosè e Aronne) di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet e Parsifal (1982) di Hans Jürgen Syberberg. Si tratta di due film profondamente diversi, accomunati però dal non concedere nulla allo spettatore: rigoroso, ai limiti della negazione stessa delle peculiarità cinematografiche il primo, i cui modelli sono la tragedia classica e l'antiretorica di matrice brechtiana; ridondante e iperlinguistico ‒ benché poco incline anch'esso a sfruttare i mezzi del cinema ‒ il secondo, che intreccia la mitologia del libretto con la mitologia wagneriana e con i molti fantasmi della cultura tedesca contemporanea, materializzati in ogni modo, per es., il piccolo rilievo sul quale si muove Gurnemanz, che si rivela essere un'enorme maschera mortuaria del compositore.
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G. Casadio, Opera e cinema. La musica lirica nel cinema italiano dall'avvento del sonoro ad oggi, Ravenna 1995.