Locuzione con cui si fa riferimento ai crimini di guerra compiuti dalle truppe nipponiche tra il dicembre 1937 e il gennaio 1938 nella città di Nanchino - all’epoca capitale della Cina -, durante la seconda guerra sino-giapponese (1937-45), scaturita dalla politica espansionistica dell’imperatore Hirohito che, a partire dall’invasione della Manciuria (1931) e dall’istituzione del regime fantoccio del Manchukuo, avrebbe portato anche all’occupazione del Vietnam meridionale (1940) fino all'intervento nella Seconda guerra mondiale con l'attacco agli Stati Uniti (1941). Il conflitto bellico iniziò senza formale dichiarazione di guerra con l’invasione della Cina, dopo gli eventi compresi tra l’incidente del ponte Marco Polo (Pechino) del luglio 1937 e la caduta di Shanghai del novembre successivo. L’avanzata dell'esercito nipponico proseguì fino alla presa di Nanchino, dove furono perpetrati tra i più cruenti massacri della storia contemporanea. Nonostante la strenua resistenza del generale cinese Chiang Kai-shek, le forze giapponesi riuscirono a ottenere il totale controllo di Nanchino il 13 dicembre 1937, perpetrando nelle sei settimane successive saccheggi, sevizie ed esecuzioni singole e di gruppo, compiendo un numero di stupri stimato tra i 20.000 e gli 80.000 (da cui si fa riferimento al’eccidio anche con la definizione di Stupro di Nanchino) e uccidendo – nonostante l’istituzione nella città di una zona di sicurezza demilitarizzata a presenza occidentale - almeno 300.000 civili, sebbene la valutazione del numero di morti sia oggetto di ampie controversie. Al termine della Seconda guerra mondiale il Tribunale militare internazionale per l’Estremo Oriente e il Tribunale per i crimini di guerra di Nanchino hanno condannato alla pena capitale alcuni generali giapponesi ritenuti responsabili del massacro, non essendo però incriminati l'imperatore Hirohito e i membri della famiglia imperiale in virtù di patti stipulati con il generale statunitense D. MacArthur.