Segno alfabetico (i lungo, raro iod, ant. iota) che non costituisce una lettera a sé dell’alfabeto latino, ma è una variante grafica della i, introdotta nella scrittura latina medievale come forma allungata in basso di i, I.
In repertori alfabetici di altre lingue la distinzione tra I e J è fortemente radicata, rispondendo alla necessità funzionale di rappresentare due fonemi in tutto diversi: all’i vocale si contrappone, secondo i casi, un j alveolo-palatale affricato (in inglese e in trascrizioni da altri alfabeti fondate per le consonanti sull’ortografia inglese), un j alveolo-palatale fricativo (in francese, portoghese e nello spagnolo antico), un j velare fricativo (nello spagnolo moderno), o un j uguale o simile all’i semiconsonante italiano ma più nettamente distinto dall’i vocale (in tedesco, nella maggior parte delle lingue germaniche e slave e in molte trascrizioni dall’alfabeto cirillico e da altri).
Come il punto sull’i, così risale alle scritture latine medievali e alle medesime ragioni di chiarezza l’introduzione della forma allungata in basso, j, J: la minuscola, come variante di i dopo altre lettere con aste verticali (i, m, n, u), e specialmente in fine di parola (per es., iudicij); la maiuscola, come variante di I in posizione iniziale. A. de Lebrija in Spagna (1492), G.G. Trissino in Italia (1524), L. Meigret in Francia (1542) furono i primi a servirsi delle due varianti grafiche per rappresentare due suoni differenti, riservando l’j alla funzione consonantica o semiconsonantica. Le loro proposte ebbero successo solo dal 17° sec. in poi e l’uso fu diverso da lingua a lingua, in rapporto ai vari sistemi fonologici. L’i semiconsonante iniziale del latino è continuato nelle lingue romanze da consonanti vere e proprie: it. giuoco, fr. jeu, sp. juego, port. jogo; mentre però le altre lingue che non avevano mai abbandonato la grafia latina, nonostante il notevole mutamento fonetico, trassero un’utilità dall’introduzione del segno j per il suono consonantico, minore utilità ne poté trarre l’italiano, che fin dalle origini aveva rappresentato il suono ǧ anche iniziale, qualunque ne fosse la provenienza, con la lettera g, o davanti ad a, o, u, con il digramma gi.
L’italiano si servì invece del segno j con due funzioni diverse: tra vocali o all’inizio di parola davanti ad altra vocale per indicare il valore semiconsonantico dell’i (per es., jeri); in fine di parola, come terminazione del plurale dei nomi in -io atono (per es., varj) per evitare confusioni, in qualche caso, con altre parole (per es., vari plur. di varo). In entrambe le funzioni, l’uso dell’j in parole italiane è quasi interamente scomparso tra la seconda metà del 19° e la prima del 20° sec.; è tuttora conservato ufficialmente nella scrittura di cognomi (per es., Ojetti, tale essendo la forma registrata dagli uffici anagrafici) e nomi propri (per es., Ajaccio). Molti conservano l’j iniziale, senza un criterio fisso (per es., Jacopo).
J è simbolo del joule; j è generalmente usato per indicare la densità di corrente elettrica.
Nella fisica atomica e nucleare, j e J sono usati per indicare il momento totale della quantità di moto.
J/Ψ è il simbolo del mesone vettoriale di massa 3,1 GeV/c2, scoperto nel 1974, che ha aperto la strada allo studio sperimentale del quark c.
Per quanto riguarda la matematica ➔ i.