Parola latina («diritto») che si usa anche in contesti italiani; seguita da particolari determinazioni, serve a indicare speciali istituti giuridici.
Al plurale, nell’esperienza giuridica postclassica, si indicavano come iura i passi delle opere dei grandi giuristi del passato, al fine di distinguerli dalle leges, che erano invece le costituzioni imperiali.
Parte del diritto romano che aveva la propria fonte nell’editto emanato dai titolari di magistrature (honores) munite di funzioni giurisdizionali in materia civile e che era anche detto ius praetorium, ma meno propriamente, giacché non erano solo i pretori a emanare gli editti in questione, ma anche gli edili curuli e i governatori provinciali. Il diritto onorario non era formato da regole generali e astratte, non essendo l’editto assimilabile alla legge, come fonte di norme; ma derivava dal complesso di rimedi processuali (formulae da adattare ai casi concreti, ma anche interdicta, stipulationes praetoriae, restitutiones in integrum) concessi ai privati dai magistrati. Questi ultimi avvertivano infatti l’esigenza di adeguare il diritto vigente alle mutate condizioni della vita e della società, che non poteva più reggersi soltanto sul rigido sistema dei mores e del i. civile. Scopo dello i. honorarium era proprio quello di adiuvare, supplere, corrigere il diritto civile, ossia di approntare un’efficace tutela processuale, in grado di corroborarne l’applicazione, ovvero di integrarla, ovvero addirittura di impedirla, quando lo i. civile si rivelasse superato sul piano etico-sociale.
Già verso la fine dell’età repubblicana, il diritto romano si presentava così come un sistema caratterizzato da una pluralità di ordinamenti, relativamente indipendenti l’uno dall’altro, perché ciascuno dotato di origini e regole proprie, sebbene storicamente il diritto onorario presupponesse, quanto meno, l’esistenza del diritto civile. Per ogni branca del diritto privato vennero quindi a emergere, accanto agli istituti dello i. civile, quelli dello i. honorarium, come tali riconosciuti e commentati poi dai giuristi, i quali ne erano anche gli artefici, essendo la loro instancabile attività di consulenza e di studio indispensabile agli stessi magistrati che di anno in anno emanavano l’editto aggiornandone il contenuto. Nell’ambito, per es., dei diritti reali, accanto al tradizionale dominium civilistico, sorse il cosiddetto in bonis habere, o proprietà pretoria, tutelata da un’apposita actio publiciana, nella cui formula si fingevano già decorsi i tempi necessari all’acquisto del dominium mediante usucapione, e che era talvolta vittoriosamente esperibile persino nei confronti dello stesso dominus del bene. Nell’ambito del diritto successorio, accanto alla tradizionale hereditas civilistica, si sviluppò la disciplina della cosiddetta bonorum possessio, che talora il pretore concedeva a chi risultasse essere apparentemente l’erede, talaltra invece del tutto a prescindere da una simile rilevazione, accordando anzi al bonorum possessor una tutela privilegiata rispetto al titolare formale dell’eredità (cosiddetta bonorum possessio cum re). Nell’ambito, per es., delle obbligazioni, accanto ai tradizionali oportere civilistici, venne dato riconoscimento ad altri istituti, che non erano previsti dal costume, bensì identificati ex novo dal pretore come fattispecie meritevoli di tutela processuale.
Nei primi secoli dell’impero la forza propulsiva dello i. honorarium si attenuò, fino a cessare del tutto, poiché i magistrati che si succedevano di anno in anno tendevano a emanare editti dal contenuto sempre uguale. Ma anche quando, con il cosiddetto edictum perpetuum di Salvio Giuliano, il contenuto dell’editto fu cristallizzato e reso immutabile, la giurisprudenza romana continuò a studiare e commentare gli istituti del diritto pretorio separatamente da quelli del diritto civile.
Nel diritto internazionale generale, norme di carattere imperativo (ossia cogenti, inderogabili). Tale nozione si affermò alla fine degli anni 1960, su pressione dei paesi socialisti e di quelli in via di sviluppo, per i quali esistevano alcune norme fondamentali, formatesi in via consuetudinaria, aventi una posizione gerarchicamente superiore rispetto alle altre norme internazionali. Per tali paesi, lo i. cogens era costituito da un nucleo di principi, essenziali per la pacifica convivenza tra Stati fondati su diversi sistemi politici ed economici, e talmente connaturati con le esigenze fondamentali della comunità internazionale da assumere carattere imperativo.
Oltre al diritto all’autodeterminazione dei popoli, vi rientravano il divieto di aggressione e le forme più gravi di violazione di diritti umani fondamentali (genocidio, di schiavitù e di apartheid). Malgrado i dubbi avanzati dai paesi occidentali circa l’esistenza di norme imperative di diritto internazionale, la nozione fu inserita tra le cause di nullità assoluta degli accordi internazionali nella Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969 (art. 53 e 64). Tale Convenzione prevede la giurisdizione obbligatoria della Corte internazionale di giustizia in caso di controversie relative all’applicazione o all’interpretazione delle norme imperative (art. 66), ma non contiene un elenco esemplificativo di dette norme, limitandosi a stabilire che è una norma di i. cogens quella accettata e riconosciuta dalla comunità internazionale nel suo insieme come norma alla quale non è permessa alcuna deroga e che può essere modificata solo da una nuova norma del diritto internazionale avente lo stesso carattere.
La prassi successiva, soprattutto giurisprudenziale, ha contribuito a consolidare l’idea dell’esistenza dello i. cogens internazionale, anche se permane la contrarietà a tale nozione da parte di alcuni Stati e mancano, finora, casi di applicazione delle norme della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati sopra richiamate.
Gli iura erano ancora considerati diritto vigente, sebbene la giurisprudenza, per il suo declino, non fosse più in grado di comprenderli appieno, né di garantirne una adeguata applicazione in ambito giudiziario. Per questa ragione, su iniziativa privata o degli stessi imperatori, furono compiuti vari tentativi di semplificazione e di riordino degli iura, che ebbero però successo soltanto nel corso del 6° sec., in Oriente (la parte dell’impero dove era sopravvissuta una tradizione scientifica di studi giuridici, grazie all’apporto specializzato delle scuole), con la grande compilazione giustinianea e in particolare con il Digesto. Nel frattempo, a partire dalla fine del 3° sec. d.C., erano circolate collezioni elementari di passi scelti e collezioni miste di leges e iura, mentre la citazione in giudizio delle opere classiche era stata sottoposta dall’imperatore Valentiniano III a una regolamentazione estremamente semplificativa (➔ citazioni), che sarebbe rimasta in vigore fino a Giustiniano, stante anche il fallimento del progetto iniziale di Teodosio II (➔), il quale si era prefisso lo scopo di varare addirittura un codice misto, in cui sotto ogni titolo fossero collocate le leges e gli iura afferenti alla stessa materia.
Iura novit curia Aforisma («il tribunale è a conoscenza delle leggi») di formazione medievale, che esprime sinteticamente il principio per il quale il giudice, la cui conoscenza delle norme di legge è presupposta, è tenuto all’applicazione di esse anche se non siano indicate dalla parte interessata. Con riferimento al processo civile, il principio esprime il potere-dovere dell’organo giudicante di inquadrare giuridicamente la fattispecie in modo corretto, anche in difetto ovvero in difformità rispetto alle norme richiamate dalle parti. Trova il suo fondamento normativo nell’art. 113 c.p.c., che sancisce la regola in base alla quale il giudice deve applicare le norme di diritto al fine di decidere la controversia, salvo i casi in cui la legge consente la decisione secondo equità. L’ambito applicativo del principio è rigorosamente circoscritto alle disposizioni di natura sostanziale, di modo che al monopolio delle parti circa l’individuazione dell’oggetto del processo si giustappone il monopolio del giudice sulla qualificazione giuridica del rapporto. Il principio in esame è di generale applicazione nel primo grado di giudizio, mentre in fase di impugnazione, al di là dell’ammissibile qualificazione giuridica di eventuali nuovi elementi, si discute se (in difetto di uno specifico motivo di gravame che abbia a oggetto proprio la qualificazione giuridica del rapporto) il giudice possa d’ufficio provvedere a una qualificazione difforme da quella risultante dal provvedimento impugnato. Nonostante la complessità del tema, sembra opportuno riconoscere che in sede di gravame il magistrato possa anche d’ufficio correggere la motivazione della sentenza, operando la riqualificazione in parola (nel caso in cui le parti non abbiano impugnato il relativo capo), allorché tale correzione in iure si ponga a livello di obiter dictum, senza incidere sul dispositivo del provvedimento impugnato.