Aforisma («il tribunale è a conoscenza delle leggi») di formazione medievale, che esprime sinteticamente il principio per il quale il giudice, la cui conoscenza delle norme di legge è presupposta, è tenuto all’applicazione di esse anche se non siano indicate dalla parte interessata.
Con riferimento al processo civile, il principio esprime il potere-dovere dell’organo giudicante di inquadrare giuridicamente la fattispecie in modo corretto, anche in difetto ovvero in difformità rispetto alle norme richiamate dalle parti. Trova il suo fondamento normativo nell’art. 113 c.p.c., che sancisce la regola in base alla quale il giudice deve applicare le norme di diritto al fine di decidere la controversia, salvo i casi in cui la legge consente la decisione secondo equità.
L’ambito applicativo del principio è rigorosamente circoscritto alle disposizioni di natura sostanziale, di modo che al monopolio delle parti circa l’individuazione dell’oggetto del processo si giustappone il monopolio del giudice sulla qualificazione giuridica del rapporto. Il principio in esame è di generale applicazione nel primo grado di giudizio, mentre in fase di impugnazione, al di là dell’ammissibile qualificazione giuridica di eventuali nuovi elementi, si discute se (in difetto di uno specifico motivo di gravame che abbia a oggetto proprio la qualificazione giuridica del rapporto) il giudice possa d’ufficio provvedere a una qualificazione difforme da quella risultante dal provvedimento impugnato. Nonostante la complessità del tema, sembra opportuno riconoscere che in sede di gravame il magistrato possa anche d’ufficio correggere la motivazione della sentenza, operando la riqualificazione in parola (nel caso in cui le parti non abbiano impugnato il relativo capo), allorché tale correzione in iure si ponga a livello di obiter dictum, senza incidere sul dispositivo del provvedimento impugnato.
Sentenza. Diritto processuale civile