Atti con i quali gli imperatori romani dettavano norme nuove, modificando così l’ordinamento vigente; furono dette anche leges, in età tardo-antica, allorché per la scomparsa delle leggi popolari ed essendo state a queste equiparate, le c. rimasero in effetti l’unica fonte del diritto di rango propriamente legislativo. Vengono tradizionalmente distinte in generali e particolari. Alla prima categoria appartengono gli atti con cui il principe disponeva in modo generale e astratto per la disciplina delle fattispecie-tipo individuate; tali erano gli edicta, formalmente indirizzati al senato e al popolo romano, e i mandata, la cui applicazione avveniva per il tramite dei governatori provinciali. Rientrano invece nella seconda categoria gli atti con cui il principe risolveva singoli casi o questioni sulla base di criteri giuridici che però, per il solo fatto di provenire da lui, erano considerati suscettivi di applicazione immediata a tutti i casi analoghi: tali erano i decreta, in realtà sentenze con cui l’imperatore decideva vertenze giudiziarie, i rescripta, pareri dati ai privati su questioni giuridiche, e le epistulae, pareri dati a funzionari e magistrati.
In epoca postclassica sorsero nuove tipologie di c., quali le pragmaticae sanctiones, utilizzate anche al fine di trasmettere leggi da una parte all’altra dell’impero (occidentale e orientale), e le orationes, derivanti dai discorsi tenuti dal principe in senato, la cui approvazione, da parte dell’assemblea, si era ormai da tempo ridotta a una pura formalità. Oggi conosciamo le leges soprattutto attraverso i codici, nei quali infatti esse (e soltanto esse: non altre fonti del diritto) furono a quel tempo raccolte.