In linguistica, unità minima non ulteriormente analizzabile del significante. Il termine si è affermato con J. Baudouin de Courtenay e F. de Saussure. Dopo N.S. Trubeckoj, in opposizione a suono, denota un segmento fonico-acustico non suscettibile di ulteriore segmentazione in unità dotate di capacità distintiva (cioè capaci di differenziare due unità d’ordine più complesso). I f. di una lingua si individuano in base alla differenza acustica delle diverse combinazioni di un più piccolo numero di coefficienti acustico-articolatori, i quali, in quanto differenziano gli elementi di una coppia di f., sono detti tratti distintivi o pertinenti. In italiano, per es., un tratto pertinente è la sonorità, in quanto differenzia il f. ‹p› dal f. ‹b›,‹t› da ‹d› ecc. Inoltre, ‹p› e ‹b› sono nell’italiano comune contemporaneo due f. diversi (e non due varianti combinatorie o stilistiche) in quanto vi è almeno una coppia minima (per es., parca-barca) di unità d’ordine più complesso dei f. (e cioè i monemi, con il termine di H. Frei e A. Martinet, morfemi nella terminologia della linguistica americana), i cui termini si distinguono commutando ‹p› e ‹b›. Se tale coppia non vi fosse, si dovrebbe parlare di varianti di uno stesso fonema. Alle varianti con distribuzione complementare e caratteri legati al diverso contesto si dà il nome di varianti combinatorie od obbligatorie; alle variazioni commutabili si dà il nome di varianti libere o individuali o (R. Jakobson) stilistiche.
Nella rappresentazione grafica i simboli delle entità fonematiche sono racchiusi tra barre oblique, i simboli delle varianti sono racchiusi tra parentesi quadre: si scriverà perciò, per es.: in italiano il fonema /n/ in posizione post-vocalica ammette diverse varianti, come [n], [ṅ].
Secondo la definizione adottata nel 1928 dal Circolo linguistico di Praga, fonologia è la descrizione funzionale dei f. di una lingua o di una famiglia di determinate lingue, attraverso un metodo e una teoria chiamati anche fonetica strutturale (o fonematica). La fonologia studia i sistemi di f. in sincronia e diacronia, mirando a stabilire una gerarchia tra gli elementi centrali e indispensabili o normali e quelli periferici nel sistema fonematico. Tra gli sviluppi più interessanti va ricordata, nel secondo dopoguerra, la fonologia binaristica di Jakobson e dei suoi allievi. Dopo aver individuato nel tratto fonologico l’elemento minimo (insieme di caratteristiche allo stesso tempo acustiche, articolatorie e percettive) che costituisce il f., Jakobson è arrivato a identificare un repertorio universale di tratti: 12 tratti intrinseci o inerenti (TI), quali, per es., vocalico/non-vocalico, sonoro/sordo ecc., cui si aggiungono i tratti prosodici (TP) di lunghezza, intensità e altezza. Dall’insieme di tali tratti si dovranno enucleare per ciascuna lingua storica quelli strettamente necessari a distinguere ciascun f. da tutti gli altri, appunto i tratti distintivi (TD); per influenza della teoria della comunicazione, questi hanno indici binari: un f. è definito mediante l’assenza [−] o la presenza [+] di un determinato TD.
L’affermarsi della teoria generativo-trasformazionale di N. Chomsky ha condotto, tra la fine degli anni 1950 e i primissimi 1960, alla ridiscussione e al rifiuto del concetto stesso di f.: al posto della ‘fonem(at)ica autonoma’, Chomsky (con M. Halle) pone la fonologia generativa (o sistematica), in cui la componente fonologica è del tutto subordinata a quella sintattica, assegnando ‘interpretazioni foniche’ ai morfemi generati da quest’ultima. Accanto a tali correnti teoriche si colloca lo sviluppo sociolinguistico, del quale è massimo esponente W. Labov.