Per delegificazione si intende generalmente lo spostamento della disciplina di una determinata materia dal rango legislativo al rango regolamentare: la delegificazione investe, quindi, il rapporto tra la potestà normativa primaria e la potestà normativa secondaria e, quindi, in ultima analisi, la gerarchia delle fonti (Fonti del diritto) e, da un punto di vista sostanziale, i rapporti tra Parlamento e Governo. Il problema della delegificazione nasce con l’avvento dello Stato democratico (Forme di Stato e forme di governo), in corrispondenza all’affermazione del suffragio universale maschile (Diritto di voto), per cui la centralità del Parlamento viene contrastata dal Governo. Questo spostamento si ripercuote anche sul piano delle fonti del diritto: alla legge, fonte del diritto «per antonomasia», prodotto della libera discussione parlamentare ed espressione della volontà generale (art. 6 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789), tendono sempre più ad affiancarsi e sostituirsi gli atti normativi dell’esecutivo. Non è un caso, quindi, che proprio nel primo dopoguerra si inizi a parlare di «delegalizzazione» in Francia e di «delegislazione» in Spagna e in Portogallo.
In particolare, nella Francia della Terza Repubblica, uno dei primi studiosi a riflettere sulla prassi dei decreti adottati, in deroga alle leggi vigenti, dal Governo sulla base di una «legge di abilitazione» è stato R. Carré de Malberg. Ma è soprattutto nell’esperienza weimariana che il rapporto tra legge del Parlamento e atti normativi dell’esecutivo si complicò al punto tale da non potersi (quasi) più parlare di una primazia della prima sui secondi, dal momento che, oltre ai regolamenti che potevano modificare e addirittura sostituire i precetti della legge, era previsto anche un potere di ordinanza del Presidente del Reich, con cui si poteva, nelle situazioni di emergenza, sospendere addirittura l’applicazione delle disposizioni costituzionali (art. 48, co. 2, Cost. Germania 1919). Va detto, però, che l’esperienza weimariana scontava una tradizionale diffidenza nei confronti dell’istituto parlamentare, che risaliva alla dottrina costituzionale del Reich guglielmino, come attestano le riflessioni di G. Jellinek e C.F. von Gerber sui rapporti tra legge e decreto o a quelle di R. von Gneist e P. Laband sul tema del bilancio.
La delegificazione nell’esperienza repubblicana. - Nell’esperienza italiana, il problema della delegificazione si pose a seguito della legge n. 100/1926, a proposito dei c.d. regolamenti delegati, anche sé essa non faceva alcun riferimento a una simile denominazione, che era stata, invece, elaborata dalla dottrina, i quali, pur privi di forza di legge, erano autorizzati da una legge a derogare alle leggi stesse. Con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, la dottrina si è interrogata a fondo sui problemi teorici circa l’ammissibilità della delegificazione: da un lato, infatti, la presenza di numerose riserve di legge finiva per circoscrivere le materie che potevano essere oggetto di delegificazione; dall’altro, però, l’istituzione di un «sistema chiuso» di fonti primarie e il fatto che la legge non potesse più disporre della propria forza complicavano ulteriormente la questione.
A questi interrogativi si è cercato di rispondere con la l. n. 400/1988, che prevede la possibilità di disciplinare con norme regolamentari una materia disciplinata da una legge, a condizione però che non si tratti di una materia coperta da una riserva di legge c.d. assoluta. Perché si possa «declassare» la disciplina di una determinata materia da legislativa a regolamentare è necessario che sia approvata una legge c.d. abilitante, che autorizzi il Governo ad intervenire con un regolamento in quella determinata materia e che, nello stesso tempo, determini i principi generali regolatori della materia, nonché disponga l’abrogazione delle norme legislative preesistenti. Tuttavia, l’effetto abrogativo si produce nel momento in cui entra in vigore non la legge abilitante, ma il regolamento: si è quindi in presenza di una peculiare forma di abrogazione, che la dottrina qualifica come «differita».
Nell’ultimo decennio del Novecento, la delegificazione ha conosciuto una notevole espansione, pur se le modalità con cui si è svolta hanno sollevato numerosi interrogativi, in virtù dello svuotamento dei limiti e delle garanzie contenute nella l. n. 400/1988. In particolare, la dottrina ha sottolineato come in questi ultimi anni l’indicazione assai generica delle disposizioni abrogate, nonché delle norme generali regolatrici della materia, ha finito per rendere il regolamento (e il Governo ad esso retrostante) una sorta di dominus incontrastato. Questa situazione si è determinata a partire dalla l. n. 537/1993, che ha individuato una serie di procedimenti amministrativi rispetto a cui operare una massiccia delegificazione. La successiva l. n. 59/1997 è andata ancora oltre, in quanto ha istituzionalizzato la delegificazione per la disciplina dei procedimenti amministrativi, prevedendo che ogni anno il Governo presenti un d.d.l. per la delegificazione delle norme concernenti i procedimenti ed indicando solamente i procedimenti oggetto della disciplina ed i criteri per l’esercizio della potestà regolamentare. Questa normativa è stata criticata da parte della dottrina, che ha rilevato come la conseguenza sia quella di fare del regolamento l’unica fonte del diritto amministrativo, con forti dubbi sulla sua legittimità costituzionale. A complicare ulteriormente un quadro già di per sé complesso, va evocato il «nuovo» art. 117 Cost., che restringe fortemente il campo della legislazione statale a favore della potestà legislativa regionale: si ritiene infatti che i regolamenti di delegificazione adottati dal Governo non possano né abrogare leggi regionali preesistenti, né dettare norme vincolanti per le future leggi regionali. Tuttavia, viene ammesso che si possano sostituire alla normativa legislativa statale di dettaglio quando questa si applica a titolo suppletivo, in assenza della disciplina regionale, venendo poi meno, in ragione del c.d. principio di cedevolezza, quando entri in vigore la legge regionale.