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La storia del Venezuela e dei suoi rapporti col mondo è profondamente condizionata dal petrolio, di cui è tra i maggiori produttori ed esportatori del pianeta e di cui il suo sottosuolo custodisce tra le maggiori riserve a tutt’oggi note. Tale circostanza rende il Venezuela un attore assai rilevante della politica e dell’economia mondiali, come testimonia il suo protagonismo in seno all’Opec – organizzazione di cui è tra i fondatori – e in numerosi altri forum, ma anche un paese vulnerabile ai cicli spesso erratici del mercato petrolifero e ai loro corollari politici e strategici. Ma se il petrolio dà al Venezuela un orizzonte globale, la sua collocazione geografica ne fa un protagonista delle relazioni internazionali nell’emisfero americano, sia per gli stretti rapporti commerciali che intrattiene con gli Stati Uniti, cui viene venduto gran parte del petrolio venezuelano, sia per la tradizionale influenza sull’intera area caraibica, sia, infine, per il crescente peso esercitato in vari paesi del Sudamerica.
In termini politici e istituzionali, la Repubblica Bolivariana del Venezuela è una repubblica federale formata da 23 stati, dove il potere centrale mantiene però estese funzioni politiche e amministrative, sia nei confronti dei poteri locali, sia rispetto agli altri poteri dello stato, che in base alla Costituzione del paese non sono solo quelli esecutivo, legislativo e giudiziario, ma comprendono anche il potere elettorale, rappresentato dal Consejo nacional electoral, e il potere ‘morale’ incarnato nel Consejo moral republicano, dalle funzioni in realtà assai vaghe.
I circa 30 milioni di venezuelani sono in larga parte meticci, ossia la risultante storica dell’incrocio tra le popolazioni autoctone (nel caso del Venezuela poco numerose), i colonizzatori spagnoli e la cospicua quantità di africani portati a lavorare nelle piantagioni della costa caraibica durante la tratta degli schiavi.
Tale tratto preponderante non rende però la società venezuelana scevra da tensioni etniche. In genere, infatti, il 10% circa della popolazione bianca, in buona parte emigrata in Venezuela nella seconda metà del 20° secolo perché attratta dal boom petrolifero, si concentra nelle fasce sociali più elevate, così come quella di origine africana o indiana è più numerosa nelle fasce sociali più basse. Non è perciò un caso che il movimento di tipo populista, che sotto la guida di Hugo Chávez ha assunto il governo del Venezuela dal 1998, cavalchi con successo il cleavage etnico che attraversa la società venezuelana. Quanto a quest’ultima, la ricchezza portata dal petrolio non ha evitato la persistenza di profonde disuguaglianze di reddito tra le diverse classi. Nonostante il Venezuela sia tra i paesi dal più elevato reddito pro capite dell’America Latina e benché il governo bolivariano abbia investito grosse somme nell’ultimo decennio per garantire l’accesso dei settori marginali della popolazione ai servizi sociali, ottenendo una significativa riduzione della povertà, ancora oggi circa il 28% dei venezuelani vive sotto la sua soglia. Intanto, tra le priorità più spesso indicate dai cittadini del Venezuela spicca quella della sicurezza personale, minacciata dalla continua escalation della criminalità nelle grandi città, specie Caracas, ormai attestatasi tra le città col più elevato tasso di omicidi al mondo.
Dall’ascesa al potere di Hugo Chávez, il Venezuela ha assunto i tratti tipici dei regimi populisti, di cui i cultori enfatizzano l’ampliamento della cittadinanza sociale mentre i critici evidenziano l’autoritarismo politico e la compressione dei diritti civili. Le riforme costituzionali e legislative da allora introdotte hanno infatti sia riconosciuto più ampi diritti sociali, sia agevolato la concentrazione del potere politico nell’esecutivo, e in particolare nelle mani del caudillo che lo esercita: abolendo il bicameralismo, ampliando le funzioni delle forze armate e la loro sottomissione al presidente, accrescendo la sfera dell’intervento statale nei settori informativo ed economico, modificando le circoscrizioni elettorali in modo da favorire i candidati governativi, introducendo la possibilità della rielezione indefinita della massima autorità dello stato, di cui Chávez intende avvalersi per perpetuare il proprio potere.
Nel complesso, le elezioni venezuelane avvengono in modo corretto, certificando l’elevato benché calante consenso di cui gode il governo. Al tempo stesso, tuttavia, l’ampio ricorso del regime alle risorse pubbliche per assicurarsi il consenso suole distorcere la competizione elettorale, così come i numerosi ostacoli frapposti all’azione delle opposizioni. Spiccano, a tale proposito, le forti pressioni esercitate dal governo contro le autorità locali elette nelle liste delle opposizioni, il massiccio ricorso del presidente ai mezzi di informazione come strumento di propaganda, la legislazione introdotta nel 2004 per limitare la libertà di espressione, seguita da frequenti misure volte a colpire le voci critiche su stampa e televisioni. Pur godendo di una solida maggioranza in Parlamento, inoltre, il presidente Chávez ne ha più volte sospese di fatto numerose funzioni chiave, ottenendone la delega di poteri speciali che lo autorizzano a legiferare per decreto su una vastissima gamma di tematiche. In tal senso, se si aggiunge la pesante ingerenza del governo nel settore giudiziario, si può dire che la separazione dei poteri in Venezuela sia soggetta a fortissime restrizioni.
Un discorso a parte merita la libertà religiosa: benché nel complesso sia rispettata, sia la Chiesa cattolica sia la comunità ebraica sono entrate più volte in conflitto con il governo; la prima accusandolo di limitare le libertà pubbliche e di invadere il suo ambito pastorale e la seconda a causa degli stretti rapporti, sia politici che ideologici, intrattenuti da Chávez con taluni regimi noti per la propria retorica antisemita, quale quello iraniano.
Una certa tolleranza nei confronti degli sconfinamenti dei guerriglieri e dei trafficanti di droga colombiani nel paese e l’aumento del crimine nelle città hanno infine contribuito a trasformare il Venezuela, dal 2006, nel paese più violento dell’intero continente sudamericano.
Sospinta dagli elevati prezzi del petrolio, cui si deve il 90% circa delle esportazioni venezuelane, e dai medesimi fattori esterni che hanno favorito la crescita economica di tutta la regione, l’economia del Venezuela è cresciuta per anni a ritmi elevati, salvo subire il contraccolpo della crisi finanziaria iniziata nel 2008 e mostrare maggiori difficoltà a risollevarsi rispetto agli altri paesi latinoamericani.
Guidato da Hugo Chávez, il Venezuela ha rinnegato la via economica del libero mercato, tornando per molti aspetti ai principi classici del nazionalismo latinoamericano. In tal senso, il governo di Caracas ha invocato il ‘socialismo del 21° secolo’ nel procedere a numerose nazionalizzazioni, a espropriazioni di terreni e imprese, a crescenti interventi statali in materia di prezzi e cambi e a partnership fondate più sull’affinità ideologica che sulla convenienza economica. I risultati di tale politica, che il governo venezuelano s’è adoperato con grande dispiego di risorse a esportare nei paesi più affini, sono soggetti a grandi controversie. Se i loro fautori ne celebrano gli effetti sociali virtuosi e l’aumento dell’indipendenza nazionale al cospetto degli Stati Uniti, i critici osservano che tale modello sta mettendo in ginocchio il sistema economico nazionale perché mette in fuga i capitali ed è causa del basso tasso di investimenti, di una spirale inflazionista senza uguali in America Latina, nonché della corruzione, incentivata dall’enorme e incontrollato potere della nuova classe politica in tutti i gangli dell’attività economica. Tali critiche si concentrano in particolar modo sulla gestione del vero e proprio motore dell’economia venezuelana, ossia il settore energetico (i consumi venezuelani dipendono per oltre il 70% da petrolio e gas naturale), e la grande impresa che lo gestisce, cioè la Pdvsa (Petróleos de Venezuela, S.A.). Anche in tal caso, mentre il governo vanta lo stretto controllo imposto sulla Pdvsa, al fine di trattenere la maggiore quantità possibile di risorse nelle casse nazionali, e si sforza di differenziare i mercati attraverso un’ambiziosa politica petrolifera globale, le opposizioni ne denunciano la demagogia e il dilettantismo. Osservano, in particolare, come l’impiego ideologico dell’arma petrolifera abbia causato la diminuzione di investimenti vitali nel settore, il massiccio uso clientelare delle risorse di Pdvsa e infine un progressivo calo della produzione.
A ciò si aggiungono i ritardi e le inefficienze nel settore idroelettrico, che hanno causato estesi black-out in larga parte del paese. Negli ultimi anni, la stessa Pdvsa s’è incaricata di dare impulso alla produzione di energie rinnovabili, specie quella eolica, ma nel complesso il Venezuela si trova ancora arretrato su questo terreno e in generale la sua performance ambientale risulta peggiore di quella della maggior parte dei paesi latinoamericani.
Nel corso del primo decennio del 21° secolo le spese militari venezuelane sono decollate di oltre il 120%, grazie sia alla crescita economica, sia ai ricchi proventi petroliferi, riducendosi solamente in parte per effetto della crisi finanziaria iniziata nel 2008.
Per molti decenni e con diversi regimi, il Venezuela ha impiegato il peso che il petrolio le conferiva sul piano internazionale per accrescere la propria influenza e dare impulso al proprio sviluppo. Da quando, tuttavia, nel 1998 è salito ai vertici del paese il colonnello Hugo Chávez, il petrolio è diventato lo strumento chiave di una politica assai più ambiziosa che in passato. Una politica che per la prima volta nella sua storia esprime l’esplicita ambizione del Venezuela a guidare un fronte di paesi uniti da una forte pulsione nazionalista e da una ancor più radicale ostilità agli Stati Uniti e ai loro alleati occidentali, non solo in America Latina, ma perfino in Medio Oriente, in Asia e in molti paesi del Sud del mondo. Perlopiù espressa in termini radicali e accompagnata da generosi aiuti, tale politica ha permesso a Caracas di farsi nuovi amici, ma le ha anche attirato numerose critiche e una diffusa fama di inaffidabilità. Oltre a coltivare intense relazioni con varie potenze emergenti, dalla Russia all’Iran, passando per la Cina, il governo di Chávez ha lanciato una nuova iniziativa di cooperazione coi paesi caraibici volta a fornire loro petrolio a condizioni agevolate (Petrocaribe), ha accresciuto il suo attivismo in America centrale, sostenendovi in particolar modo il governo sandinista in Nicaragua e quello, poi deposto dai militari, di Manuel Zelaya in Honduras, ha ampliato a dismisura il suo raggio d’azione in Sudamerica, sia affermandosi come importante creditore dell’Argentina, sia candidandosi all’ingresso nel Mercosur. La massima espressione di tale attivismo è stata tuttavia la creazione della Alternativa Boliviariana para los Pueblos de Nuestra América (Alba), un fronte cui hanno aderito Cuba, Bolivia, Ecuador, Nicaragua, più varie piccole repubbliche caraibiche e di cui Hugo Chávez è il regista assoluto, sia per il ruolo dominante che il Venezuela vi assume sul piano economico, sia per l’impronta ideologica che il suo ‘socialismo del 21° secolo’ gli imprime. Tali sforzi hanno però causato spesso tensioni nei rapporti internazionali del Venezuela, non solo con gli Stati Uniti, i quali hanno perlopiù cercato di non rispondere alle provocazioni, ma ancor più coi loro principali alleati nella regione, per esempio con Perù e Colombia, la cui politica interna è stata più volte soggetta all’influenza più o meno esplicita di Chávez. Lo stesso gigante regionale, ossia il Brasile, s’è più volte adoperato per svolgere una funzione di amichevole contenimento nei confronti del radicalismo venezuelano ed è anche in tal senso che va intesa la creazione, sotto egida brasiliana, di Unasur, l’Unione delle nazioni sudamericane, di cui anche il Venezuela è membro.
Per taluni osservatori ciò si deve alle minacce che graverebbero sul Venezuela da quando Hugo Chávez ne ha fatto il paese campione dell’asse antiamericano, per altri le spese militari sarebbero invece il coerente riflesso della sua pulsione espansionista, benché in realtà i due motivi non si escludano tra loro. Oltre a dissuadere i potenziali nemici, nella fattispecie Stati Uniti e Colombia, e a fare sentire il peso del proprio sostegno agli alleati, specie Bolivia, Ecuador e Nicaragua, tale crescita del potenziale militare venezuelano è il frutto di una dottrina che ambisce a modernizzare le forze armate, dotandole di armamenti tecnologicamente avanzati, a coltivare il consenso dei militari verso il regime e ad accrescere la formazione militare della popolazione civile, sancita nel 2009 con il riconoscimento dello status militare alla Milizia Bolivariana, voluta dal governo a ogni costo. Nel quadro di tale corsa al riarmo e delle forti tensioni che a più riprese hanno caratterizzato i rapporti con la Colombia, ha fatto molto discutere il prestito di 2,2 miliardi di dollari contratto dal Venezuela con la Russia per l’acquisto di sistemi antiaerei e di carri armati. La persistenza della tensione nella regione, causata sia dalla guerra interna colombiana, sia dal radicalismo ideologico del governo di Hugo Chávez, sia, infine, dalla presenza militare statunitense in territorio colombiano, inducono a pensare che il potenziamento militare del Venezuela non cesserà a breve termine.