Vedi Venezuela dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
La vulnerabilità politica ha caratterizzato il Venezuela negli ultimi anni, a partire dalla morte di Hugo Chávez il 5 marzo 2013. Con le elezioni presidenziali straordinarie del 14 aprile 2013, che videro l’affermazione di misura del suo vice Nicolás Maduro sul candidato di opposizione Henrique Capriles Radonski, distanziato di poco più di un punto percentuale, il paese sudamericano è entrato in un circolo vizioso di instabilità e di violenze. Una situazione che si è acuita nei mesi successivi, a causa sia dell’inasprimento delle misure repressive attuate dal governo nei confronti delle opposizioni anti-chaviste, sia del peggioramento generalizzato delle condizioni di vita della popolazione, dovuto anche alla crisi economica e alla crisi del modello bolivariano, nelle quali il paese versa da due anni a questa parte. L’esplosione delle proteste che da febbraio 2014 stanno attraversando il Venezuela è anche il risultato di questa congiuntura negativa, visto che alla base delle manifestazioni vi sono sia rivendicazioni di carattere democratico ma anche di opposizione ai sempre più frequenti razionamenti di beni di consumo, dovuti alle crescenti necessità di importazione. Le proteste, scoppiate con l’omicidio dell’ex Miss Venezuela Mónica Spear Mootz il 6 gennaio 2014, hanno causato l’inasprimento delle misure repressive del Governo; a settembre 2015 uno dei leader dell’opposizione e dei movimenti di protesta, Leopoldo López, è stato condannato a 13 anni e 9 mesi di carcere, dove si trova dal febbraio 2014, con l’accusa di essere responsabile dei disordini.
Sebbene il presidente Maduro, tra il giugno e il settembre del 2014, abbia provveduto ad alcuni rimpasti di governo – mirati soprattutto a consolidare il suo potere eliminando le fronde interne ed esterne al Partido Socialista Unido de Venezuela (Psuv) –, la situazione nel paese rimane instabile. Le epurazioni di Nicolás Maduro hanno prodotto alcuni cambi rilevanti ai vertici dello stato: si pensi alla sostituzione dell’ex ministro della pianificazione e delle finanze Jorge Giordani – un civile definito dalle opposizioni come l’ideologo della politica economica del regime. O al doppio cambio nel giro di pochi mesi al ministero degli esteri: Rafael Ramírez, vero deus ex machina della politica venezuelana, ha sostituito Elias Jaua, ex titolare del dicastero del petrolio e presidente della holding di stato Pdvsa (Petróleos de Venezuela); pochi mesi dopo (gennaio 2015) lo stesso Ramìrez è stato nominato inviato del Venezuela presso le Nazioni Unite, in coincidenza con l’assunzione da parte di Caracas di un seggio a rotazione nel Consiglio di Sicurezza, e Delcy Rodriguez è diventato ministro degli Esteri. La carica di ministro del petrolio è stata occupata per alcuni mesi da Asdrubal Chávez, cugino del defunto presidente, poi rimpiazzato ad agosto 2015 dall’ingegnere Eulogio del Pino, un rappresentante civile, ritenuto super partes anche dalle opposizioni, che era già al timone dell’azienda petrolifera di stato. Le opposizioni si sono dimostrate nel corso dell’ultimo anno ancora molto frammentate, avendo perso quella presa sulla popolazione che aveva caratterizzato il loro apparente successo durante le prime fasi delle proteste del febbraio 2014. Anche Capriles, ritenuto da molti commentatori politici il migliore candidato presidenziale dell’opposizione, è rimasto spesso defilato dalla scena. Tuttavia, l’opposizione riunita nella coalizione Mesa de Unidad Democrática (Mud) si è presentata nuovamente compatta alle elezioni parlamentari che si sono svolte il 6 dicembre 2015, elezioni in cui il Mud ha conquistato la maggioranza assoluta in parlamento. Il partito di governo, il Partido Socialista Unido de Venezuela (Psuv), si è trovato addirittura all’ultimo posto nei sondaggi rilevati fino a pochi mesi prima del voto. Infine, il processo di pace, promosso e mediato dalla Chiesa cattolica per riportare le parti in conflitto a dialogare, è al momento in una fase di stallo.
Sul piano esterno, la storia del Venezuela e dei suoi rapporti internazionali è profondamente condizionata dal petrolio. Attualmente il Venezuela è il dodicesimo produttore al mondo di petrolio greggio, ma è il primo detentore di riserve comprovate (circa 300 miliardi di barili) e l’ottavo per quanto riguarda il gas naturale. Caracas è dunque un attore assai rilevante della politica e dell’economia mondiali, come testimonia il suo protagonismo in seno all’Opec – organizzazione di cui è tra i fondatori – e nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Unsc), dove è stato eletto il 17 ottobre 2014 al posto dell’uscente Argentina come nuovo membro non permanente per il biennio 2015-16. Nel 2015 il Venezuela è stato inoltre il primo paese della storia a occupare, allo stesso tempo, un posto all’Unsc e la presidenza del Movimento dei paesi non allineati. Nonostante una politica estera molto attiva, il paese è vulnerabile ai cicli spesso erratici del mercato petrolifero, ai loro corollari politici e strategici e la sua capacità di azione è limitata dall’attuale congiuntura.
Se il petrolio permette al Venezuela di avere un orizzonte globale, la sua collocazione geografica ne fa un protagonista delle relazioni nell’emisfero americano, sia per i complicati rapporti politici e commerciali che intrattiene con gli Usa, sia per la tradizionale influenza sull’area caraibica, sia, infine, per il crescente peso esercitato in vari paesi del Sudamerica, tra i quali gli alleati dell’Alleanza bolivariana per le Americhe (Alba). Proprio sul piano regionale, il Venezuela, tra il 2011 e il 2012, è stato al centro del processo di integrazione politica ed economica dell’America Latina. Nel dicembre 2011 Caracas ha ospitato simbolicamente il primo vertice ufficiale del Celac, la neonata Comunità degli stati latinoamericani e caraibici, che nelle intenzioni di Caracas avrebbe dovuto sostituire l’Organizzazione degli stati americani (Oas) escludendo così gli Usa e permettendo, invece, l’ingresso di Cuba. Tuttavia, il Venezuela rimane attivo anche in seno all’Oas, avendone assunto la Presidenza del Consiglio Permanente nell’ultimo trimestre del 2015, seppur con l’intenzione di riformare l’organizzazione avvicinandola alle iniziative di integrazione latinoamericana (Celac, Unasur). Inoltre, con il vertice di Brasilia del luglio 2012, il Venezuela è stato ufficialmente ammesso come membro a pieno titolo del Mercosur. L’ingresso è avvenuto al termine di un negoziato durato oltre sei anni e dopo l’abbattimento di parte dei dazi e delle tariffe doganali. Considerando il prolungato stallo del Mercosur nel progredire sul piano della liberalizzazione commerciale e dell’integrazione economica, l’ingresso di Caracas nell’unione doganale ha avuto un significato marcatamente politico anziché economico, dal momento che questo processo non implica il ripudio dei principi economici del nazionalismo sudamericano. Nonostante l’ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) da più di 15 anni, le aperture da parte di Caracas al libero mercato rimangono limitate.
Gli oltre 30 milioni di cittadini sono in larga parte meticci, ossia la risultante storica dell’incrocio tra le popolazioni autoctone (nel caso venezuelano poco numerose), i colonizzatori spagnoli e la cospicua quantità di africani portati a lavorare nelle piantagioni della costa caraibica nei secoli in cui è stata in vigore la tratta degli schiavi. Tale caratteristica non rende la società venezuelana scevra da tensioni etniche. In genere, il 10% circa della popolazione bianca, in buona parte emigrata in Venezuela nella seconda metà del Ventesimo secolo perché attratta dal boom petrolifero, si concentra nelle fasce sociali più elevate, così come quella di origine africana o indiana è più numerosa nelle fasce sociali più basse. La ricchezza generata dal petrolio non ha ridotto le profonde disuguaglianze di reddito tra le classi (al contrario, la diseguaglianza nella distribuzione del reddito è peggiorata da un livello di 0.49 nel 1998 ad uno di 0.39 nel 2011). Nonostante il Venezuela sia tra i paesi a più elevato reddito pro capite dell’America Latina e benché il governo bolivariano abbia fatto ingenti investimenti nell’ultimo decennio per garantire l’accesso delle fasce marginali della popolazione ai servizi sociali, ottenendo una riduzione rilevante della povertà, ancora oggi circa il 26% dei venezuelani vive sotto la soglia nazionale di povertà.
Anche a causa del peggioramento delle condizioni di vita generali, sono in aumento i fenomeni illegali, come il contrabbando di generi alimentari di prima necessità e la piccola criminalità. Quest’ultima si è resa responsabile di numerosi omicidi, alcuni dei quali politici (l’ultimo è stato quello del deputato del Psuv Robert Serra), contribuendo a trasformare il Venezuela nel paese più violento del subcontinente e il secondo al mondo (almeno per quanto riguarda gli omicidi). Tra le priorità del governo, infatti, spicca la sicurezza personale, minacciata dalla continua escalation della criminalità nelle grandi città, in particolare a Caracas, la metropoli più violenta al mondo.Secondo l’Osservatorio venezuelano sulla violenza, nel 2014 ci sono stati 24.980 omicidi, in lieve aumento rispetto ai 24.763 dell’anno precedente e con un tasso pari a 82 ogni 100.000 abitanti, molti dei quali rimasti impuniti.
La República Bolivariana de Venezuela è uno stato federale formato da 23 governatorati, nel quale il potere centrale mantiene estese funzioni politiche e amministrative nei confronti delle giunte locali. Il centro ha una forza preponderante rispetto a tutti i poteri dello stato che, in base alla Costituzione, non sono solo quelli esecutivo, legislativo e giudiziario: ci sono anche quello elettorale, rappresentato dal Consejo Nacional Electoral, e quello morale, incarnato dal Consejo Moral Republicano, dalle funzioni in realtà assai vaghe.
Dalla presidenza di Hugo Chávez e soprattutto con il nuovo corso guidato dal suo vice Nicolás Maduro, il Venezuela ha assunto i tratti tipici dei regimi populisti latinoamericani: i sostenitori enfatizzano l’ampliamento della cittadinanza sociale, mentre i critici evidenziano l’autoritarismo politico e la compressione dei diritti civili. Le caratteristiche del regime politico venezuelano, che unisce tratti di nazionalismo bolivarista (dal nome di Simón Bolívar, che nel XIX secolo combattè per l’indipendenza delle colonie sudamericane dalla madrepatria spagnola) in politica estera a forti elementi di statalismo (il ‘socialismo del XXI secolo’, come lo ha ribattezzato lo stesso Chávez), sono però peculiari e hanno portato alla definizione del termine ‘chavismo’, che è stato applicato anche ad altri regimi sudamericani come l’Ecuador di Rafael Correa e la Bolivia di Evo Morales.
Le riforme costituzionali e legislative introdotte da Chávez in poi hanno riconosciuto ampi diritti sociali e agevolato la concentrazione del potere politico nell’esecutivo, in particolare nelle mani del capo dello stato che lo esercita, attraverso la creazione di un sistema unicamerale, la modifica delle circoscrizioni elettorali e la possibilità della rielezione indefinita per il capo dello stato. Nel complesso, le elezioni venezuelane avvengono in maniera per lo più trasparente, certificando l’elevato benché calante consenso di cui gode il governo. Al tempo stesso, l’ampio ricorso del regime alle risorse pubbliche per assicurarsi il consenso distorce la competizione elettorale, così come la tendenza a frapporre numerosi ostacoli all’azione delle opposizioni impedisce il regolare corso della democrazia. Si vedano come esempio le pressioni esercitate dal governo contro le autorità locali elette nelle liste delle opposizioni, il ricorso del presidente alla propaganda attraverso i media, la limitazione della libertà di espressione (con una legge introdotta nel 2004). Inoltre, gli arresti di oppositori come Leopoldo López sono stati considerati arbitrari da varie organizzazioni regionali: dalla Commissione interamericana per i diritti dell’uomo e da ong come Amnesty International e Human Rights Watch.
Pur mantenendo una solida maggioranza parlamentare, il regime chavista ha più volte sospeso le numerose funzioni di cui è investita l’assemblea ottenendone poteri speciali che hanno permesso al presidente di legiferare per decreto su una vasta gamma di materie. In tal senso, se si aggiunge la pesante ingerenza del governo nel settore giudiziario, si può riscontrare come la separazione dei poteri in Venezuela non sia completamente realizzata. Un discorso a parte merita la libertà religiosa. Benché nel complesso sia rispettata, la Chiesa cattolica è più volte entrata in conflitto con il governo, accusandolo di limitare le libertà pubbliche e di invadere il suo ambito pastorale.
Sospinta dagli elevati prezzi del petrolio e dai medesimi fattori esterni che hanno favorito la crescita economica di tutta la regione, l’economia del Venezuela è cresciuta per anni a ritmi elevati (il pil è cresciuto a un tasso medio del 10,5% dal 2004 al 2008), salvo subire il contraccolpo della crisi finanziaria iniziata nel 2008 e mostrare ancora oggi grandi difficoltà a risollevarsi rispetto agli altri paesi latinoamericani. Il Venezuela orfano di Chávez si presenta dunque come un paese afflitto da paralisi, con un’economia al collasso e vittima del suo stesso modello.
Il Venezuela ha rinnegato la via del libero mercato, tornando per alcuni aspetti ai principi classici del nazionalismo latinoamericano. In tal senso, il governo di Caracas ha invocato il ‘socialismo del Ventunesimo secolo’ nel procedere a numerose nazionalizzazioni, espropriazioni, crescenti interventi statali in materia di prezzi e cambi e a partnership fondate più sull’affinità ideologica che sulla convenienza economica. I risultati di tale politica, che il governo venezuelano si è adoperato a esportare nei paesi più affini spendendo ingenti risorse, sono controversi. Se i loro fautori ne celebrano gli effetti sociali virtuosi e l’aumento dell’indipendenza nazionale dagli Usa, i critici osservano che tale modello sta mettendo in ginocchio il sistema economico nazionale. Infatti, il paese con le maggiori riserve di greggio al mondo ed esportazioni petrolifere che superano i 100 miliardi di dollari rischia di diventare il secondo stato del Sudamerica dopo l’Argentina a entrare in default tecnico a causa del mancato pagamento ai creditori internazionali di 6 miliardi di dollari in titoli di stato. Per il momento tale eventualità non si è verificata, ma le principali agenzie di rating (Standard & Poor’s e Moody’s) hanno ulteriormente declassato il Venezuela. Tali decisioni riflettono il pessimo andamento dei parametri macroeconomici: il pil è in recessione da due anni e il 2015 ha registrato un -10%, mentre l’inflazione, secondo fonti non ufficiali, avrebbe raggiunto nel 2015 il 180% su base annua. Questo ha prodotto una fortissima svalutazione del bolivar.
Le ragioni di tale situazione risiedono nella politica economica pervasiva dello stato, nella sua incapacità di attrarre capitali esteri, - in una spirale inflazionista senza uguali in America Latina -, nonché nella corruzione e nel malaffare. Inoltre, gli amministratori non hanno operato una diversificazione delle attività produttive, puntando lo sviluppo economico esclusivamente sullo sfruttamento delle risorse petrolifere e rendendo così il paese del tutto dipendente dall’importazione di altre materie prime e beni di consumo. Ha dunque sollevato molte critiche la gestione dell’unico vero motore dell’economia venezuelana, ossia il settore energetico (i consumi venezuelani dipendono per oltre l’85% da petrolio e gas naturale) e in particolare della grande impresa che lo gestisce, cioè la Pdvsa (Petróleos de Venezuela), la holding petrolifera nazionale e ‘cassaforte di stato’ che gestisce un budget annuale da 150 miliardi di dollari. Il calo delle esportazioni, i mancati investimenti e, in generale, la pessima situazione finanziaria della società statale ne hanno fortemente accresciuto il debito commerciale con gli investitori esteri (pari a circa 50 miliardi di dollari nel 2013). Inoltre, il Venezuela ha una bassa capacità di raffinazione del petrolio, esportando circa la metà dei 2,7 milioni di barili estratti giornalmente. A ciò si aggiungono i ritardi e le inefficienze nel settore idroelettrico che hanno causato estesi blackout in larga parte del paese. Negli ultimi anni, la Pdvsa ha dato impulso alle energie rinnovabili, specie quella eolica, ma nel complesso il Venezuela è ancora arretrato su questo terreno.
Nel corso del primo decennio del Ventunesimo secolo le spese militari venezuelane sono aumentate di oltre il 120%, grazie sia alla crescita economica, sia ai ricchi proventi petroliferi, riducendosi solamente in parte, per effetto della crisi finanziaria iniziata nel 2008. Per taluni osservatori ciò si deve alle minacce che graverebbero sul Venezuela da quando Hugo Chávez ne ha fatto il paese campione dell’asse anti-americano. Per altri, le spese militari sarebbero invece il coerente riflesso della sua spinta espansionista, benché in realtà i due motivi non si escludano tra loro. Oltre a dissuadere i potenziali nemici, nella fattispecie Usa e Colombia, e a garantire il proprio sostegno agli alleati bolivariani, la crescita del potenziale militare è il frutto di una dottrina che ambisce a modernizzare le forze armate dotandole di armamenti tecnologicamente avanzati, a coltivare il consenso dei militari verso il regime e ad accrescere la formazione militare della popolazione civile, sancita nel 2009 con il riconoscimento dello status militare alla milizia bolivariana, voluta dal governo a ogni costo.
Nell’ambito della corsa al riarmo e delle forti tensioni che a più riprese hanno caratterizzato i rapporti con la Colombia, ha fatto molto discutere il prestito di 2,2 miliardi di dollari contratto dal Venezuela con la Russia per l’acquisto di sistemi anti-aerei e di carri armati. Le persistenti tensioni nella regione, causate sia dalla guerra intestina in Colombia e dalla presenza militare statunitense nel paese andino, sia dal radicalismo ideologico del governo di Caracas, inducono a pensare che il potenziamento militare del Venezuela non sarà sospeso nel breve periodo. La temperatura delle relazioni con Bogotà è tornata ad essere molto elevata nella seconda parte del 2015, quando diverse centinaia di migliaia di cittadini colombiani residenti in Venezuela sono stati espulsi dal paese in seguito ad un incidente alla frontiera nel quale hanno perso la vita tre militari e un civile venezuelani.
Dalla morte di Hugo Chávez il Venezuela è entrato in una spirale di instabilità economica, politica e sociale. Per quanto riguarda l’economia, le politiche implementate dal governo di Maduro non sono riuscite a temperare le conseguenze negative della congiuntura globale, caratterizzata da una brusca caduta dei prezzi del petrolio, su un sistema produttivo dipendente in maniera quasi esclusiva dalle esportazioni di idrocarburi. La crisi, sfociata in una pesante e prolungata recessione e in un aumento incontrollato dell’inflazione, ha indotto il governo a limitare le importazioni di generi alimentari e beni di consumo: scelta che ha provocato razionamenti e saccheggi in diverse zone del paese. Di qui le proteste sociali, scoppiate a febbraio 2014. In risposta alle proteste popolari e alla crisi politica e socioeconomica in cui versa il paese, il 10 aprile 2014 nel palazzo presidenziale di Miraflores a Caracas è stato dato il via al dialogo nazionale per la pace in Venezuela a cui hanno partecipato i rappresentanti del governo venezuelano e delle opposizioni. La conferenza è stata istituita su pressioni della Santa Sede – rappresentata dal nunzio apostolico Aldo Giordano – dei ministri degli esteri di Brasile, Colombia ed Ecuador e con l’ausilio dell’Unasur. In rappresentanza del governo hanno preso parte agli incontri il presidente Nicolás Maduro e il suo vice Jorge Arreaza, mentre per le opposizioni è stato designato Ramon Guillermo Aveledo, segretario di Unidàd Democratica (Mud), quale portavoce unico. Nonostante il tentativo di conciliazione, il dialogo si sta dimostrando particolarmente complesso a causa dell’indisponibilità di entrambe le parti a cercare una strategia politica comune per uscire dalla crisi. Il dialogo ha ricevuto un’ulteriore battuta d’arresto a settembre 2015, quando Leopoldo López, fra i leader degli oppositori, è stato condannato a 13 anni e 9 mesi. Il clima di incertezza si è riverberato anche sulla situazione politica, in vista delle elezioni parlamentari tenute a dicembre 2015 allo scopo di rinnovare i 165 seggi dell’Assemblea nazionale. I sondaggi hanno visto per lungo tempo il Psuv indietro nelle intenzioni di voto. Come ha spiegato Aveledo poche settimane dopo i primi incontri, al momento, «il dialogo bilaterale è congelato». Le proteste degli studenti in Venezuela vanno avanti ormai da mesi e non sembrano avere tregua. Al dicembre 2014, in seguito alle manifestazioni anti-governative, si contavano 42 morti, 800 feriti e circa 3000 arresti. Anche in politica estera il Venezuela sta attraversando una fase turbolenta, soprattutto per i rapporti di confine con la Colombia, paese con cui è stata ingaggiata a settembre 2015 una diatriba che ha portato all’espulsione di un migliaio cittadini colombiani residenti in Venezuela. Anche la Guyana ha denunciato all’Un una politica di confine aggressiva da parte di Caracas.
A tre anni dalla morte di Chávez, la regione latina legata al chavismo in salsa bolivariana si ritrova ancora orfana di un leader carismatico capace di assumere l’eredità di una leadership regionale. Nonostante il passaggio di testimone da Chávez a Maduro, qualcosa è cambiato. Il minor carisma e abilità del successore, ma soprattutto la crisi politica e socioeconomica venezuelana hanno ridimensionato notevolmente il ruolo del paese nelle dinamiche geopolitiche subcontinentali.
Una condizione divenuta manifesta anche nelle intenzioni del successore del caudillo di Barinas che, con un processo lento ma costante, si sta smarcando dalla politica regionale di aiuti economici – in particolare petroliferi – del suo predecessore per perseguire una politica molto più improntata alle questioni interne. A farne le spese è stata soprattutto l’Alba (Alleanza bolivariana per le Americhe), il progetto di cooperazione politica, sociale ed economica bolivariana tra i paesi del Sudamerica sorto nel 2004 per volontà di Chávez e Fidel Castro in contrapposizione alle iniziative di integrazione regionale liberiste come il Mercosur o l’Alca (Zona di libero scambio delle Americhe).
L’Alba conta undici paesi membri – Antigua & Barbuda, Bolivia, Cuba, Dominica, Ecuador, Grenada, Nicaragua, Venezuela, Saint Kitts e Nevis, Saint Lucia e Saint Vincent e Grenadine – e fino a quando è stata guidata da Chávez è stata in grado di contenere l’influenza nordamericana nello spazio meridionale del continente sostituendo politicamente l’Oas (Organizzazione degli stati americani). Allo stesso tempo, l’Alba si è dimostrato un utile strumento per accrescere il peso geopolitico del Venezuela nel continente, soprattuto in funzione anti-brasiliana, unica vera potenza regionale.