Vedi Venezuela dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
La storia del Venezuela e dei suoi rapporti col mondo è profondamente condizionata dal petrolio, di cui è tra i maggiori produttori ed esportatori e il cui sottosuolo ne custodisce tra le maggiori riserve a oggi note. Tale circostanza rende il Venezuela un attore assai rilevante della politica e dell’economia mondiali, come testimonia il suo protagonismo in seno all’Opec – organizzazione di cui è tra i fondatori – e in numerosi altri fora. Si tratta però anche di un paese vulnerabile ai cicli spesso erratici del mercato petrolifero e ai loro corollari politici e strategici.
Ma se il petrolio permette al Venezuela di avere un orizzonte globale, la sua collocazione geografica ne fa un protagonista delle relazioni nell’emisfero americano, sia per gli stretti rapporti commerciali che intrattiene con gli Usa, ai quali vende gran parte del suo ‘oro nero’, sia per la tradizionale influenza sull’area caraibica, sia, infine, per il crescente peso esercitato in vari paesi del Sudamerica.
La República Bolivariana de Venezuela è uno stato federale formato da 23 governatorati, nella quale il potere centrale mantiene estese funzioni politiche e amministrative nei confronti delle giunte locali. Il centro ha una forza preponderante rispetto a tutti i poteri dello stato, che in base alla Costituzione, non sono solo quelli esecutivo, legislativo e giudiziario: ci sono anche quello elettorale, rappresentato dal Consejo nacional electoral, e quello morale incarnato nel Consejo moral republicano, dalle funzioni in realtà assai vaghe.
I circa 30 milioni di Venezuelani sono in larga parte meticci, ossia la risultante storica dell’incrocio tra le popolazioni autoctone (nel caso del Venezuela poco numerose), i colonizzatori spagnoli e la cospicua quantità di africani portati a lavorare nelle piantagioni della costa caraibica nei secoli in cui è stata in vigore la tratta degli schiavi.
Tale caratteristica non rende però la società venezuelana scevra da tensioni etniche. In genere, il 10% circa della popolazione bianca, in buona parte emigrata in Venezuela nella seconda metà del 20° secolo perché attratta dal boom petrolifero, si concentra nelle fasce sociali più elevate, così come quella di origine africana o indiana è più numerosa nelle fasce sociali più basse. La ricchezza generata dal petrolio non ha ridotto le profonde disuguaglianze di reddito tra le classi. Nonostante il Venezuela sia tra i paesi a più elevato reddito pro capite dell’America Latina e benché il governo bolivariano abbia investito grosse somme nell’ultimo decennio per garantire l’accesso delle fasce marginali della popolazione ai servizi sociali, ottenendo una significativa riduzione della povertà, ancora oggi circa il 26% dei venezuelani vive sotto la sua soglia. Oltre al rilancio dell’economia, tra le priorità del governo spicca la sicurezza personale, minacciata dalla continua escalation della criminalità nelle grandi città, soprattutto Caracas, ormai attestatasi tra le metropoli con il più elevato tasso di omicidi al mondo. Secondo l’Osservatorio venezuelano della violenza nel 2013 ci sono stati 23.763 omicidi ovvero 79,1 ogni 100.000 abitanti, molti dei quali però rimangono impuniti.
Dalla presidenza di Hugo Chávez, scomparso il 5 marzo 2013 dopo una lunga malattia e sostituito il 14 aprile, dopo contestate elezioni, dal suo vice Nicolás Maduro, il Venezuela ha assunto i tratti tipici dei regimi populisti latinoamericani: i sostenitori ne enfatizzano l’ampliamento della cittadinanza sociale mentre i critici evidenziano l’autoritarismo politico e la compressione dei diritti civili.
Le riforme costituzionali e legislative introdotte da Chávez in poi hanno sia riconosciuto più ampi diritti sociali, sia agevolato la concentrazione del potere politico nell’esecutivo, e in particolare nelle mani del caudillo che lo esercita. Abolendo il bicameralismo in favore di un sistema unicamerale, ampliando le funzioni delle forze armate e ponendole direttamente sotto le dipendenze del presidente, accrescendo la sfera dell’intervento statale nei settori informativo ed economico, modificando le circoscrizioni elettorali in modo da favorire i candidati governativi, introducendo la possibilità della rielezione indefinita della massima autorità dello stato, Chávez e Maduro hanno potuto ampliare e perpetuare il loro potere.
Nel complesso, le elezioni venezuelane avvengono in modo corretto, certificando l’elevato benché calante consenso di cui gode il governo. Al tempo stesso, tuttavia, l’ampio ricorso del regime alle risorse pubbliche per assicurarsi il consenso distorce la competizione elettorale, così come impedisce il regolare corso della democrazia la tendenza a frapporre numerosi ostacoli all’azione delle opposizioni. Spiccano, a tale proposito, le forti pressioni esercitate dal governo contro le autorità locali elette nelle liste delle opposizioni, il massiccio ricorso del presidente ai mezzi di informazione come strumento di propaganda, la legislazione introdotta nel 2004 per limitare la libertà di espressione, seguita da frequenti misure volte a colpire le voci critiche su stampa e televisioni. Pur godendo di una solida maggioranza in parlamento, Chávez prima e Maduro poi hanno più volte sospeso numerose funzioni chiave dell’assemblea, ottenendone poteri speciali che li autorizzano a legiferare per decreto su una vastissima gamma di temi. In tal senso, se si aggiunge la pesante ingerenza del governo nel settore giudiziario, si può dire che la separazione dei poteri in Venezuela sia soggetta a fortissime restrizioni. Un discorso a parte merita la libertà religiosa. Benché nel complesso sia rispettata, la Chiesa cattolica è più volte entrata in conflitto con il governo, accusandolo di limitare le libertà pubbliche e di invadere il suo ambito pastorale.
Una certa tolleranza nei confronti degli sconfinamenti dei guerriglieri e dei trafficanti di droga colombiani nel paese e l’aumento del crimine nelle città hanno infine contribuito a trasformare il Venezuela, dal 2006, nel paese più violento dell’intero subcontinente.
Sospinta dagli elevati prezzi del petrolio e dai medesimi fattori esterni che hanno favorito la crescita economica di tutta la regione, l’economia del Venezuela è cresciuta per anni a ritmi elevati, salvo subire il contraccolpo della crisi finanziaria iniziata nel 2008 e mostrare ancora oggi maggiori difficoltà a risollevarsi rispetto agli altri paesi latinoamericani. Il Venezuela orfano di Chávez si presenta come un paese in paralisi, con un’economia al collasso, vittima del suo stesso modello. Il Venezuela ha rinnegato la via del libero mercato, tornando per molti aspetti ai principi classici del nazionalismo latinoamericano. In tal senso, il governo di Caracas ha invocato il ‘socialismo del 21° secolo’ nel procedere a numerose nazionalizzazioni, a espropriazioni di terreni e imprese, a crescenti interventi statali in materia di prezzi e cambi e a partnership fondate più sull’affinità ideologica che sulla convenienza economica. I risultati di tale politica, che il governo venezuelano s’è adoperato a esportare nei paesi più affini spendendo ingenti risorse, sono controversi. Se i loro fautori ne celebrano gli effetti sociali virtuosi e l’aumento dell’indipendenza nazionale rispetto agli Usa, i critici osservano che tale modello sta mettendo in ginocchio il sistema economico nazionale, rischiando addirittura di condurre il paese verso il default finanziario nel breve-medio periodo. Le cause di un tale rischio risiedono nella politica economica troppo pervasiva dello stato, nella sua incapacità di attrarre capitali esteri, in una spirale inflazionista senza uguali in America Latina (38% nel 2013), nonché nella corruzione e nel malaffare, incentivati dall’enorme e incontrollato potere della classe politica vicina al regime in tutti i gangli dell’attività economica. Tali criticità si concentrano in particolar modo sulla gestione del vero motore dell’economia venezuelana, ossia il settore energetico (i consumi venezuelani dipendono per oltre l’85% da petrolio e gas naturale) e in particolare la grande impresa che lo gestisce, cioè la Pdvsa (Petróleos de Venezuela), la holding petrolifera nazionale e ‘cassaforte di stato’ che gestisce un budget annuale da 150 miliardi di dollari. Il calo delle esportazioni, i mancati investimenti e, in generale, la pessima situazione finanziaria della società statale ne hanno fortemente accresciuto il debito commerciale con gli investitori esteri (pari a 61 miliardi di dollari nel 2013, ossia il 43% dell’indebitamento totale). Le opposizioni politiche osservano, in particolare, come l’impiego ideologico del petrolio come arma da parte del governo abbia causato la diminuzione di investimenti vitali nel settore, il massiccio uso clientelare delle risorse di Pdvsa e un progressivo calo della produzione.
A ciò si aggiungono i ritardi e le inefficienze nel settore idroelettrico, che hanno causato estesi blackout in larga parte del paese. Negli ultimi anni, la stessa Pdvsa s’è incaricata di dare impulso alla produzione di energie rinnovabili, specie quella eolica, ma nel complesso il Venezuela è ancora arretrato su questo terreno. In generale la sua performance ambientale risulta peggiore di quella della maggior parte dei paesi latinoamericani. Tra il 2011 e il 2012 il Venezuela è stato al centro del processo di integrazione politica ed economica dell’America Latina. Nel dicembre 2011 Caracas ha ospitato simbolicamente il primo vertice ufficiale del Celac, la neonata Comunità degli stati latinoamericani e caraibici, che nelle intenzioni di Caracas avrebbe dovuto sostituire l’Organizzazione degli stati americani (Oas) escludendo così gli Usa e permettendo, invece, l’ingresso di Cuba. Inoltre, con il vertice di Brasilia del luglio 2012, il Venezuela è stato ufficialmente ammesso come membro a pieno titolo al Mercosur dopo un negoziato durato oltre sei anni e dopo aver abbattuto parte dei dazi e delle tariffe doganali. Se, da una parte, ciò non significa il ripudio dei principi economici del nazionalismo sudamericano, dall’altra è evidente un’apertura a quelli del libero mercato, a più di 15 anni dall’ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio. In realtà l’ambizioso progetto del Celac ha rappresentato il sogno bolivariano di Chávez, ossia quello di perseguire un’America Latina unita e indipendente nella quale il presidente
venezuelano aspirava a essere il leader indiscusso.
Nel corso del primo decennio del 21° secolo le spese militari venezuelane sono cresciute di oltre il 120%, grazie sia alla crescita economica, sia ai ricchi proventi petroliferi, riducendosi solamente in parte per effetto della crisi finanziaria iniziata nel 2008. Per taluni osservatori ciò si deve alle minacce che graverebbero sul Venezuela da quando Hugo Chávez ne ha fatto il paese campione dell’asse antiamericano. Per altri le spese militari sarebbero invece il coerente riflesso della sua spinta espansionista, benché in realtà i due motivi non si escludano tra loro. Oltre a dissuadere i potenziali nemici, nella fattispecie Usa e Colombia, e a fare sentire il peso del proprio sostegno agli alleati, soprattutto Bolivia, Ecuador e Nicaragua, la crescita del potenziale militare venezuelano è il frutto di una dottrina che ambisce a modernizzare le forze armate, dotandole di armamenti tecnologicamente avanzati, a coltivare il consenso dei militari verso il regime e ad accrescere la formazione militare della popolazione civile, sancita nel 2009 con il riconoscimento dello status militare alla milizia bolivariana, voluta dal governo a ogni costo. Nel quadro di tale corsa al riarmo e delle forti tensioni che a più riprese hanno caratterizzato i rapporti con la Colombia, ha fatto molto discutere il prestito di 2,2 miliardi di dollari contratto dal Venezuela con la Russia per l’acquisto di sistemi antiaerei e di carri armati. Le persistenti tensioni nella regione, causate sia dalla guerra interna colombiana, sia dal radicalismo ideologico del governo di Caracas, sia, infine, dalla presenza militare statunitense in territorio colombiano, inducono a pensare che il potenziamento militare del Venezuela non verrà sospeso a breve termine.
Presidente del Venezuela dal 2 febbraio 1999 al 5 marzo del 2013, Hugo Rafael Chávez Frías è stato il leader latinoamericano che ha più segnato l’inizio del XXI secolo, assieme al brasiliano Luiz Inácio da Silva Lula. Anticipatore della cosiddetta ‘ondata a sinistra’ dell’America Latina, Chávez ha rappresentato, in questo contesto,il capofila di una variante più radicale, in contrapposizione appunto alla versione più moderata dello stesso Lula. Questa ‘radicalità’ si è espressa non solo nel contenuto delle sue proposte politiche, ma anche nel modo in cui le ha portate avanti, legandole al suo fortissimo carisma personale. Lula, per esempio, si è accontentato dei due mandati che gli aveva concesso la Costituzione. Chávez ha indetto due referendum per potersi ricandidare ad libitum. Lula ha scelto una strategia di ampie alleanze non solo a sinistra, ma al centro e perfino a destra. Chávez ha invece quasi sempre puntato sul muro contro muro. Lula ha cercato di fare del Brasile un pivot in grado di riequilibrare il rapporto con gli USA, che, comunque, non è mai stato messo in discussione. Chávez si è aggressivamente posto come punto di riferimento di una grande alleanza anti USA. Lula ha lavorato all’interno della Costituzione e del sistema di integrazione regionale vigenti al momento della sua elezione. Chávez ha voluto una nuova Costituzione che modificasse addirittura la tradizionale tripartizione dei poteri di Montesquieu, aggiungendovi un ‘quarto potere cittadino’ e un ‘quinto potere elettorale’. Anche in campo internazionale, pur adoperandosi per entrare nel MERCOSUR, ha innanzitutto voluto costituire quell’Alleanza bolivariana per i popoli della nostra America – Trattato di commercio dei popoli (ALBA) che raccoglie il nucleo dei governi più ideologicamente vicini al suo progetto. Mentre, dunque, il termine ‘lulista’ è usato soltanto da qualche analista, il ‘chavismo’ è un’etichetta ideologica destinata a durare in Venezuela e in America Latina. Questo radicalismo è stato però collegato a uno straordinario eclettismo. Dal punto di vista ideologico, per esempio, il ‘socialismo del XXI secolo’ di Chávez mette assieme il tradizionale populismo caudillista latinoamericano con i resti del marxismo dopo il collasso sovietico, la teologia della liberazione, reminiscenze di giacobinismo filtrate attraverso Simón Bolívar e il pensiero ‘no global’. Dal punto di vista della prassi governativa, Chávez ha utilizzato senza scrupoli vari sistemi di manipolazione del consenso senza però mai modificare il quadro formale del pluralismo. Dal punto di vista geopolitico, il suo progetto di alleanza anti USA ha cercato di tenere assieme regimi e movimenti del cosiddetto ‘asse del male’ con la nuova alleanza dei BRICS, il nazionalismo dei governi della sinistra latinoamericana, gli interessi dei paesi produttori di petrolio e gas e l’opinione pubblica ‘no global’ dell’Occidente. In realtà, però, non ha mai interrottole fitte relazioni commerciali con gli USA, che restano il principale acquirente del petrolio venezuelano e il principale partner economico. Questo progetto è stato poi in gran parte superato da una realtà in cui il peso degli USA è stato ridimensionato dalla crisi. In campo regionale, però, il frenetico attivismo di Chávez ha avuto un ruolo essenziale nello sviluppo di nuove istanze di integrazione come la CELAC o l’UNASUR. Il limite del modello chavista si è rivelato nel fondare la sua capacità di creare il consenso internazionale e quello nazionale esclusivamente sulla disponibilità di petroldollari. Accuse di autoritarismo a parte, il Venezuela di Chávez è un paese in cui si sono ridotti gli indici di povertà, ma in cui i tassi di crescita sono stati minimi o addirittura negativi, nel momento in cui gran parte dell’America Latina registrava un boom straordinario. A ciò si uniscono indici record di inflazione, delinquenza e corruzione e una crescente penuria di generi di prima necessità. Chávez riusciva a gestire queste difficoltà grazie a uno straordinario carisma e a una altrettanto straordinaria capacità di manovrare l’opinione pubblica di cui però il suo successore Nicolás Maduro è del tutto privo. Benché entrambe vinte, le due campagne elettorali affrontate da Maduro nel dopo Chávez hanno rappresentato altrettanti campanelli di allarme, con il distacco minimo rispetto al candidato dell’opposizione Henrique Capriles alle presidenziali, e con la vittoria dell’opposizione nelle principali città alle municipali. Maduro ha risposto con un’ulteriore radicalizzazione, non priva di risvolti autoritari. All’estero, però, al suo minor carisma si aggiunge la sempre maggior difficoltà a sovvenzionare amici e alleati. Erede di Chávez in campo internazionale è piuttosto il presidente dell’Ecuador, Rafael Correa, grazie alla sua statura intellettuale e al suo successo economico, Ma la potenzialità geopolitica del suo Ecuador è di molto inferiore a quella del Venezuela.