tarsia Termine usato sin dal 14° sec. in riferimento a una sorta di mosaico (intarsio) ottenuto accostando sottili lastre lignee, di varia forma, facendole aderire su una superficie, a formare un disegno geometrico o figurato; lo stesso termine è usato anche per indicare simili lavori in marmi e poi in pietre dure, similmente al termine commesso (usato dal 16° sec., più raramente per la t. lignea).
La t. ha origine nell’antichità: si affermò soprattutto nel periodo ellenistico e fu diffusa nell’ambiente romano per rivestimento di pareti e di pavimenti, in specchiature di marmi bianchi e colorati a riquadrature e motivi geometrici. Oltre che negli ambienti più importanti delle case e dei palazzi, nelle celle dei templi e negli edifici pubblici, fu sfruttata durante l’Impero particolarmente nelle terme. Il gusto della t. marmorea (o opus sectile, anche con l’inserimento di altri materiali, come smalti e paste vitree) fu molto in voga nel tardo Impero. Oltre al repertorio di fasce, specchiature e motivi geometrici, si usò anche la t. di motivi figurati in pannelli semplici o in composizioni complesse figurate (decorazione della basilica di Giunio Basso sull’Esquilino, 4° sec. d.C.). Del 5° e 6° sec. d.C. esempi notevoli sono in S. Sabina in Roma, nel duomo di Parenzo, a Ravenna ecc. Nel periodo romanico fu ripresa dai Cosmati per decorazioni architettoniche (a Roma, chiostri di S. Giovanni in Laterano e S. Paolo fuori le mura) e dagli architetti toscani: a Firenze, ampie t. geometriche nelle facciate delle chiese; a Pisa, Lucca, Pistoia in forme più minute, con un gusto pittorico d’influenza orientale; caratteri che perdurarono nel 14° sec. nel duomo di Firenze e in quello di Siena. Dal romanico fino al 16° sec. fu usata a Venezia nell’architettura, per rivestimenti di marmi preziosi delle facciate di palazzi e chiese. Pochi gli esempi di t. architettonica nel Rinascimento (facciata di S. Maria Novella e Tempietto del S. Sepolcro a Firenze e Tempio Malatestiano, a Rimini, di L.B. Alberti; Madonna delle Carceri a Prato, di G. da Sangallo; pavimento del duomo di Siena ecc.). Verso la fine del 16° sec. ebbe voga la t. in pietre dure (commesso) delle officine fiorentine, su mobili o nell’architettura d’interni. Il Seicento trovò nella t. un efficace mezzo di espressione nel rivestimento architettonico (a Roma, navata di S. Pietro e cappella di S. Maria della Vittoria di G.L. Bernini, cappella Paolina in S. Maria Maggiore di F. Ponzio; a Torino, cappella della S. Sindone di G. Guarini ecc.). Nelle costruzioni di tombe, altari, cibori, raggiunse notevole ricchezza con incrostazioni di pietre preziose (ametiste, lapislazzuli, diaspri ecc.) e altri materiali (madreperla). Dal 18° sec. cadde generalmente in disuso.
Fu praticata soprattutto dal 14° al 16° secolo. La t. alla certosina, a piccole tessere poligonali di legno, osso, metallo e madreperla, disposte in forma geometrica, fu usata per la decorazione di piccoli oggetti. Perdurò anche nel 15° sec. specialmente in Lombardia e a Venezia, nella decorazione di sedie, cassoni, armadi, porte ecc. Affine alla certosina, ma con maggior varietà, con riquadri, circoli, rosette, fu la t. geometrica, in uso negli stalli di cori, banconi, mobili, fino al Quattrocento inoltrato. A essa venne sostituendosi la t. pittorica, o figurata, con motivi di fiori, nastri, anfore, stemmi, putti, prospettive e composizioni di figure, che ebbe grande fioritura in Italia nel 15° sec. e nei primi decenni del 16°. La tecnica consisteva nel ritagliare in lamine legni di vario colore, sagomandone i pezzi secondo il disegno e componendoli mediante uno strato di mastice. Le ombre si disegnavano con ferri roventi; le luci erano ottenute con un legno chiarissimo detto silio. In seguito si tinse il legno nei colori voluti, sull’esempio dei fratelli Canozi da Lendinara (coro della basilica del Santo, Padova, 1462-69) e di fra’ Giovanni da Verona (coro di Monteoliveto, 1505). Questo tipo di t. ebbe a Siena, già nel 14° sec., maestri come Vanni dell’Ammannato (coro del duomo di Orvieto) e, all’inizio del 15°, Domenico del Coro. Della scuola fiorentina si ricordano B. Pontelli (Palazzo Ducale di Urbino) e soprattutto Francesco di Giovanni, detto il Francione. Spesso i disegni erano ideati da celebri pittori (F. di Giorgio Martini per le t. del Palazzo Ducale di Urbino di Pontelli; A. Baldovinetti e M. Finiguerra per quelle di Giuliano e Benedetto da Maiano nella sacrestia del duomo fiorentino ecc.). Verso la fine del 16° sec. l’intarsio ebbe nuova fortuna, con l’uso di legni preziosi e di pietre dure che conferiscono splendente ricchezza a simili lavori. I mobili donati dai Medici alle corti d’Europa ne diffusero l’uso: in Francia furono chiamati maestri fiorentini alla manifattura dei mobili della Corona. Dalla Francia venne l’uso di nuovi materiali, rame, argento, tartaruga, madreperla (già usata in Sicilia per tradizione araba), efficacemente impiegati a Parigi da A.-C. Boulle e da J.-H. Riesener, usati nei mobili del Settecento. Tra gli intarsiatori italiani del secolo sono da ricordare G. Maggiolini e P. Piffetti. Limitatamente ripresa nel 19° sec., la t. ebbe nuovo impulso dal 20°.
Effetto simile alla t. marmorea è ottenuto con la scagliola, un tipo di stucco (gesso unito a sostanze leganti e coloranti) imitante il marmo. Il disegno è intagliato su uno strato di scagliola colorata, riempiendo gli incavi con altra scagliola, lucidando e verniciando poi la superficie, per ottenere piani di mobili, paliotti, lastre tombali. La tecnica fu praticata a Carpi, iniziata forse da Guido Fassi, detto Guido Del Conte (1584-1649), e fiorì fino alla metà del 18° secolo. In Toscana, con il vallombrosano E. Hugford e il suo allievo L.C. Gori (1730-1801; sua una Relazione dell’arte di lavorare in scagliola, ms. nella Biblioteca degli Uffizi), ebbe sviluppi virtuosistici. ■TAV.