schiavitù
Uomini proprietà di altri uomini
Dalla preistoria al mondo moderno, la schiavitù è esistita sotto varie forme; benché condannata nella Convenzione di Ginevra del 1926, in alcuni paesi esiste tuttora. Cause della condizione di schiavitù sono state, tra l’altro, le invasioni, le guerre, i debiti non saldati, i crimini commessi. La schiavitù ha alimentato in ogni epoca un commercio redditizio, in quanto gli schiavi costituivano la forza lavoro più economica
Un uomo è schiavo quando è proprietà di un altro uomo. Lo schiavo non è libero, non ha beni in proprietà e anche i suoi figli saranno schiavi. La principale fonte di schiavi furono le guerre: fin dalla preistoria i nemici sconfitti venivano uccisi o ridotti in schiavitù. Altre cause di riduzione in schiavitù erano i debiti non saldati o i crimini gravi (omicidio, furto). In certe società i poveri si vendevano per farsi mantenere o vendevano i propri figli e parenti. Anche i bambini abbandonati diventavano servi o schiavi di chi li trovava e li allevava.
A volte la schiavitù era temporanea: un debitore insolvente serviva il proprio creditore solo per il periodo di tempo stabilito dal giudice. Inoltre c’era la possibilità dell’emancipazione: il padrone poteva donare la libertà per generosità o come premio per la dedizione con cui era stato servito. Era anche possibile che un amico o parente riscattasse uno schiavo con una somma di denaro. Agli schiavi era talvolta consentito lavorare per altri padroni e pagare il riscatto con il proprio guadagno.
In molte società antiche il commercio degli schiavi fu un’attività economica di fondamentale importanza. Se i sovrani utilizzavano gli schiavi come manodopera per costruire templi, palazzi o piramidi, i privati cittadini li impiegavano invece prevalentemente nei lavori domestici, agricoli o artigianali. Le donne avevano spesso il compito di intrattenere il padrone e soddisfare i suoi bisogni sessuali. Gli schiavi più istruiti erano utilizzati come scribi, sacerdoti, pedagoghi, intellettuali, medici, architetti e amministratori. Questi godevano di un trattamento migliore e per lo più vivevano in condizioni privilegiate.
La schiavitù ebbe inizio probabilmente con la nascita dell’agricoltura; è rara, infatti, nei popoli nomadi e dediti alla pastorizia. Essa è documentata nelle principali civiltà antiche in Mesopotamia (Sumeri, Assiri e Babilonesi), Medio Oriente (Ittiti, Ebrei), Egitto, India, Cina.
La condizione servile non fu identica in ogni civiltà: in alcune lo schiavo non aveva diritti, in altre ne aveva alcuni tutelati per legge. La prima legge scritta che riconobbe alcuni diritti agli schiavi fu il codice babilonese del re Hammurabi (18° secolo a.C.). Il più delle volte, però, il trattamento degli schiavi dipendeva dall’umanità o malvagità del proprietario. Le mancanze e disobbedienze erano punite severamente: in alcune società i padroni avevano diritto di vita e di morte sugli schiavi; in altre la legge fissava le punizioni, che spesso erano atroci, come mutilazioni di parti del corpo o la marchiatura a fuoco dei fuggiaschi.
Nei primi secoli della storia greca (Greci antichi), in età micenea e omerica, la società si articolava in famiglie patriarcali, con pochi schiavi, trattati solitamente con umanità. Il numero degli schiavi aumentò e le loro condizioni peggiorarono con lo sviluppo economico. Gli schiavi più maltrattati erano quelli utilizzati nelle miniere, mentre stavano meglio gli artigiani, che spesso ricevevano una paga con cui potevano affrancarsi. Sovente schiave erano le popolazioni assoggettate nelle invasioni – come gli Iloti sottomessi dai Dori a Sparta – o i barbari sconfitti in guerra. La percentuale di schiavi sulla popolazione divenne alta: il 25% in Attica, il 50% in alcune città. Atene tra il 5° e il 4° secolo a.C. raggiunse i 100.000 schiavi, con una media di 3 o 4 per famiglia. Per questo si può parlare di società schiavistica: i liberi potevano dedicarsi alla politica o agli affari, perché gli altri lavori erano svolti dagli schiavi.
A Roma la schiavitù ebbe un’evoluzione simile. Dopo la fase della famiglia patriarcale, l’aumento degli schiavi si ebbe con le guerre di conquista del 3° secolo a.C. Gli schiavi vi ebbero in genere un trattamento peggiore che in Grecia. Nei latifondi e nelle miniere erano sfruttati con brutalità e vivevano in pessime condizioni negli ergastula (locali molto piccoli), senza diritto di formarsi una famiglia. Molti morivano sul lavoro. Le lotte tra gladiatori o con belve feroci mostrano come le sofferenze degli schiavi costituissero un divertimento per i Romani. Queste tristi condizioni provocarono numerose rivolte, punite con la crocifissione. La più famosa fu quella di Spartaco (73-71 a.C.), che coinvolse decine di migliaia di schiavi. Gli schiavi domestici vivevano in condizioni migliori e spesso venivano affrancati, soprattutto in età imperiale, diventando liberti.
La diffusione del cristianesimo contribuì a umanizzare il trattamento degli schiavi, ma non abolì la schiavitù, che fu confermata da imperatori cristiani come Costantino e Giustiniano. La Chiesa favorì, però, l’affrancamento degli schiavi che si battezzavano. Il numero degli schiavi si ridusse con la fine delle guerre di conquista.
Nel Medioevo la schiavitù diminuì lentamente, lasciando il posto a nuove forme di sfruttamento, come la servitù della gleba. Continuò a prosperare invece nel mondo islamico dove Arabi, Turchi ed ebrei, furono grandi mercanti di schiavi, ma anche le Repubbliche di Genova e Venezia ne esercitarono il traffico.
I cristiani continuavano a comprare schiavi essenzialmente per i lavori domestici, per i quali utilizzavano soprattutto gli Slavi. Il termine schiavo, infatti, entrato in uso nel 10° secolo al posto del latino servus, deriva da slavo: Ottone I deportò in Occidente come schiavi gli Slavi sconfitti nei Balcani. Le donne furono destinate ai lavori domestici, i maschi soprattutto alle galere (imbarcazioni del tempo) come rematori.
La massima e più triste espressione dello schiavismo moderno fu la tratta dei Neri dall’Africa all’America. Dopo il genocidio degli Indios, i colonialisti spagnoli e portoghesi presero a razziare e acquistare in Africa nuova manodopera a basso prezzo da impiegare nelle piantagioni. Prima Portoghesi, poi Spagnoli, Olandesi, Francesi e soprattutto Inglesi si specializzarono nella razzia o nell’acquisto dai mercanti locali di schiavi africani, che poi trasportavano e vendevano in America.
I viaggi erano orribili: gli schiavi vivevano in condizioni disumane, incatenati nelle stive, in totale assenza di igiene. Moltissimi morivano durante il viaggio: a destinazione ne arrivava circa il 30%. Chi riusciva a liberarsi dalle catene, per lo più moriva buttandosi in mare. Se in America Latina si diffuse il meticciato, cioè l’incrocio tra le razze, nelle colonie inglesi dell’America Settentrionale e poi negli Stati Uniti si sviluppò una società razzista, con rigide divisioni tra Bianchi e Neri.
Gli Africani deportati in America furono probabilmente all’incirca dieci milioni. Negli Stati Uniti superavano il milione all’inizio dell’Ottocento e i 4 milioni nel 1860, utilizzati prevalentemente nelle piantagioni di tabacco e di cotone del Sud.
Gli Stati del Sud difendevano la loro società fondata sulla schiavitù e, poiché gli Stati del Nord erano invece abolizionisti, questo fu causa della guerra di Secessione (1861-65), vinta dai Nordisti che abolirono la schiavitù.
In Europa già nel 18° secolo la diffusione delle idee illuministe aveva indotto i governi a proibire la tratta e l’uso degli schiavi. La tratta diminuì alla fine del Settecento e scomparve alla metà del secolo successivo. La schiavitù sopravvisse ancora per qualche decennio, ma alla fine dell’Ottocento gli Stati europei si impegnarono ad abolirla anche nelle colonie africane.
La schiavitù fu solennemente condannata dalla Società delle nazioni con la Convenzione di Ginevra del 1926. Ciononostante, in alcuni paesi africani e asiatici essa esiste ancora.
Il traffico internazionale di bambini o di ragazze costrette alla prostituzione rappresenta una forma di schiavitù di fatto, che coinvolge anche l’Europa.