In genere, ciò che si enuncia, si dichiara, si afferma, e la frase stessa che contiene l’enunciato.
Nella logica e nella filosofia del linguaggio contemporanee si distingue p. da enunciato, intendendo con quest’ultimo termine un’unità sintattica composta di segni grafici secondo precise regole di formazione, e per p. il contenuto di significato che tale unità sintattica esprime o designa, che può essere comune a differenti enunciati, anche di lingue diverse (per es., la neve è bianca e the snow is white). Si tratta di una distinzione non del tutto ovvia né generalmente condivisa, ma spesso invocata per evitare alcune difficoltà che possono sorgere dall’assimilazione del significato di p. a quello di enunciato. È nondimeno una distinzione che sembra assente nel pensiero classico e medievale, fatta eccezione per la nozione stoica di λεκτόν, corrispondente al significato di un enunciato dichiarativo. Aristotele chiamava λόγος ἀποϕαντικός o πρότασις, tradotti nel latino medievale rispettivamente con enuntiatio e propositio, il discorso dichiarativo provvisto di significato e distinto dalle preghiere, dai comandi, dalle esortazioni ecc., del quale si può dire che è vero o falso, consistendo nell’affermare o negare un predicato di un soggetto. Non diverso è generalmente il concetto di p. nella filosofia e nella logica medievali.
È nella filosofia ottocentesca che comincia a diffondersi il concetto di p. inteso come ciò che è espresso da un enunciato linguistico: tale nozione è presente, per es., in J.S. Mill (che tuttavia non usa esplicitamente il termine p. in questa accezione) e, in modo molto più esplicito e con indubitabili concessioni a una forma di realismo platonico, nel suo contemporaneo B. Bolzano, le cui p. in sé (Sätze an sich) sono entità astratte che rappresentano delle verità oggettive (per es., verità matematiche) che possono essere o no scoperte, e che in questo senso sono indipendenti dal fatto che siano pensate o enunciate. Oggetti astratti simili alle p. in sé di Bolzano sono gli «obiettivi» di A. Meinong, puri contenuti proposizionali che possono essere riconosciuti veri o falsi nell’atto del giudizio. La dottrina di Meinong, che deriva dalle tesi di F. Brentano sull’intenzionalità, non era dissimile da quelle sostenute da G.E. Moore e B. Russell agli inizi del 20° sec., che, nel concepire la p. (proposition) come un’entità astratta corrispondente a ciò che viene affermato, negato, creduto, aderivano anch’essi a una ontologia di tipo platonico. Ma è certamente a G. Frege che si deve la teorizzazione più conseguente della dottrina delle proposizioni. All’interno della sua teoria del significato, Frege concepiva la p. (o pensiero, Gedanke) come il significato (Sinn) di un enunciato dichiarativo; cittadini di un «terzo regno» né fisico né mentale, i Gedanken di Frege sono puri contenuti proposizionali non asseriti, cioè non ancora riconosciuti come veri o falsi (essi corrispondono a enunciati interrogativi), che possono essere possesso comune di molti. A ciò si aggiunga la tesi realista che solo delle p. si può dire che sono vere o false (e una p. vera è per Frege, come per Meinong e Russell, un fatto), non degli enunciati: la verità o la falsità di una p. (per es., che 2+2=4 o che Colombo scoprì l’America) è indipendente dall’essere formulata linguisticamente.
D’altra parte, la definizione formale della p. in termini di possibili stati di cose, dovuta soprattutto a R. Carnap e poi ampiamente elaborata nella seconda metà del 20° sec., se ha fornito importanti risultati in sede di semantica formale per l’interpretazione delle logiche modali e l’analisi dei contesti di credenza, si è rivelata meno promettente per la teoria del significato nei linguaggi naturali. Sia le teorie platoniste e mentaliste sia quelle formali della p. sono state criticate da W.V.O. Quine, per il quale esse si fondano sull’accettazione acritica di entità non realmente fornite di valore esplicativo in quanto non empiricamente determinabili (➔ significato).
La locuzione propositional attitudes fu coniata da Russell per indicare ciò che viene espresso da asserzioni psicologiche della forma «A crede (pensa, sa, dubita, spera ecc.) che...»; la qualificazione proposizionale deriva dalla tesi che asserzioni di questo tipo esprimerebbero atteggiamenti, cioè disposizioni psicologiche, verso ciò che è stato chiamato proposizione. L’interesse di logici e filosofi del linguaggio deriva dal fatto che in esse non vale il principio della sostitutività dell’identità o legge di Leibniz (per es., da «A crede che Cicerone denunciò Catilina» non segue, pur essendo vera l’identità ‘Cicerone=Tullio’, che «A crede che Tullio denunciò Catilina», dato che la prima asserzione non autorizza ad attribuire ad A anche un’ulteriore credenza circa l’identità di denotazione in questione). Il sottrarsi di tali asserzioni alle analisi standard di tipo estensionale (cioè in termini di denotazione e valori di verità) è stato attribuito al carattere irriducibilmente connotativo delle espressioni e degli enunciati che occorrono in contesti del tipo «A crede che ...» e simili, e ha suscitato un vasto dibattito, entro la filosofia analitica, circa la necessità di una logica ‘intensionale’ che prenda in considerazione il contenuto di significato dei nomi e degli enunciati oltre al loro riferimento e valore di verità. Non sono tuttavia mancati tentativi di ricondurre le asserzioni che esprimono atteggiamenti proposizionali entro un linguaggio estensionale, onde evitare l’ipostatizzazione di nozioni mentali o di tipo platonico come quella di proposizione. D’altra parte, gli atteggiamenti proposizionali, nel loro rinviare a un contenuto specifico e irriducibile, sono stati considerati caratteristiche ineliminabili del linguaggio e degli stati psicologici; in ciò sono state individuate invalicabili restrizioni circa la possibilità di ridurre il discorso mentalistico e psicologico (intensionale) a quello scientifico (estensionale) di tipo fisico.
In grammatica, espressione di senso compiuto, per lo più costituita di almeno due elementi, soggetto e predicato (quando il soggetto non è implicito nel predicato).
La p. si può definire una realizzazione linguistica costituita da un verbo generalmente riferito a un soggetto esplicito o implicito, e completata, ma non necessariamente, da complementi diretti o indiretti e da altre determinazioni. Il centro della p. è normalmente il verbo che solo in casi eccezionali è isolato ed esaurisce in sé l’espressione (per es., in espressioni impersonali, come piove, nevica, o imperative, come vieni!, guardate!, andiamo!), e più spesso è accompagnato dal soggetto e da ulteriori determinazioni. In sintassi, si chiamano esplicite le p. che hanno un predicato di modo finito, implicite quelle il cui predicato è di modo non finito. Con riguardo all’autonomia sintattica, si distinguono p. indipendenti o principali o reggenti, e dipendenti o secondarie o subordinate. Le p. possono poi essere, a seconda di come sono legate tra loro nel periodo, coordinate, se affiancate l’una all’altra senza congiunzioni o unite da congiunzioni coordinanti (it. e, né, o, ma ecc.), o subordinate, se unite alla reggente da pronomi, aggettivi o avverbi relativi, o da congiunzioni subordinanti. Tra le subordinate: le causali indicano la causa, la ragione per cui avviene il fatto espresso dalla reggente (Non esco perché piove; Siccome siamo molto stanchi, andiamo a casa); le finali indicano il fine, lo scopo verso il quale tende l’azione espressa nella reggente (Alzò la voce perché tutti lo sentissero; Giorgio è andato a ritirare i pacchi per fare un piacere a Sara); altre sono le consecutive (È tanto antipatico che tutti lo evitano; Il tempo è così bello da spingerci a uscire di casa), le concessive (Benché litighino spesso, si vogliono bene; Pur essendo allo stremo delle forze, riuscì lo stesso ad arrivare al traguardo), le temporali (Quando ascolto la musica, mi sento felice; Dopo aver confessato, si sentì meglio). Le p. subordinate, secondo il senso che esprimono, possono essere inoltre aggiuntive, avversative, comparative, dichiarative, eccettuative, esclusive, interrogative, ipotetiche, limitative, modali, oggettive, soggettive, relative.