poesia
La musica del linguaggio
Nata prima dell’invenzione della scrittura e presente in tutte le culture di tutte le latitudini, la poesia è una forma di espressione che si fonda sulle dimensioni musicali del linguaggio – ritmi, accenti, sonorità – per trasmettere contenuti ed evocare suggestioni ed emozioni.
Il linguaggio poetico, sia nelle sue forme codificate da secoli sia in quelle più libere, è in grado di cogliere e di dare voce a esigenze profonde dell’uomo, mescolando in modo indissolubile scrittura, senso del ritmo, musicalità della parola e rivelazione di particolari significati
La poesia, osservava Aristotele, nasce dalla tendenza naturale dell’uomo a imitare, attraverso il linguaggio, l’armonia e il ritmo. La poesia (il termine deriva dal verbo greco poièo, che significa «fare, produrre»), può essere definita infatti come arte di produrre composizioni verbali in cui il suono e il ritmo, e cioè la dimensione ‘musicale’ del linguaggio, assumono un’importanza di primo piano.
La poesia è nata molto prima che esistesse la parola scritta, e quindi la letteratura. In quanto forma espressiva in cui suono e ritmo hanno un ruolo dominante, si può pensare che la poesia costituisse una specie di espediente per aiutare la memorizzazione nelle epoche e nelle società in cui la cultura era basata sulla trasmissione orale diretta del sapere: le narrazioni di miti e leggende, ma anche prescrizioni e norme morali, religiose e sociali acquistavano un valore particolare, si imprimevano nella memoria e potevano quindi essere trasmesse più facilmente se formulate in versi, in frasi strutturate secondo precisi schemi ritmici, sfruttando le suggestioni sonore del linguaggio.
All’origine, e per lunghissimo tempo, la poesia è stata quindi associata all’oralità, alla trasmissione a voce. Come afferma Platone nella Repubblica, mentre la pittura è fatta per la vista, la poesia nasce per essere detta, è destinata alle orecchie.
Questo inscindibile legame della poesia con la tradizione orale e con la musica può essere illustrato ripercorrendo brevemente lo sviluppo di due dei più antichi e illustri generi della poesia, vale a dire l’epica e la lirica.
Un patrimonio di miti. Quasi tutti i popoli della Terra possiedono un patrimonio collettivo di miti e leggende nazionali tramandati a voce di generazione in generazione. Questo patrimonio costituisce la materia della poesia epica o epopea (dal greco èpos, che originariamente significava «parola, discorso», e successivamente «esametro», il verso proprio dei componimenti di argomento eroico): una narrazione in versi di fatti eroici, leggendari o storici. Anche quando è fissata in forma scritta, la poesia epica conserva tracce precise della tradizione orale di cui è frutto: il carattere ciclico dei temi, i titoli e le definizioni costanti, le formule ricorrenti, le scene tipiche come la vestizione delle armi, la partenza, il matrimonio, la cerimonia funebre.
L’epica dell’antichità. Tutte le grandi civiltà del passato, sia in Oriente sia in Occidente, hanno prodotto poemi epici che raccolgono e rielaborano, fissandole in forma scritta, antiche narrazioni di gesta mitiche o storiche di sovrani ed eroi, di un popolo o delle sue divinità. Uno degli esempi più antichi è il poema di Gilgamesh, la grande epopea mesopotamica che ha per protagonista il re di Uruk, mitizzato e divinizzato. All’11° secolo a.C. risale il poema babilonese Quando in alto, detto anche epopea di Marduk, che esalta le gesta del dio nazionale di Babilonia (Mesopotamia). La cultura indiana ha prodotto il Mahabharata, il più vasto poema epico della letteratura mondiale, che risalirebbe al 3° secolo a.C.: è una sorta di compendio enciclopedico che sintetizza le visioni filosofiche del mondo indiano e i valori sociali alla base del sistema basato sulle caste (induismo).
Raccolte e rielaborazioni di una produzione poetica composta e tramandata oralmente da aedi e rapsodi (cantori e poeti che si accompagnavano con strumenti musicali) sono anche i due grandi poemi epici dell’antica Grecia, l’Iliade e l’Odissea di Omero, capolavori assoluti che fissarono i codici per i temi e le forme del genere epico e influenzarono la nascita stessa della poesia latina, che ebbe inizio appunto con la traduzione dell’Odissea di Livio Andronico. Ma anche la civiltà romana ebbe una sua grande epopea, l’Eneide di Virgilio, che narra il mito della fondazione di Roma.
Medioevo e Rinascimento. In questi periodi la tradizione epica trova una continuazione nei poemi cavallereschi che narrano le gesta eroiche e amorose dei cavalieri medievali, come la famosa Chanson de Roland (inizio del 12° secolo) il cui protagonista è il paladino Orlando. Se i Canti dell’Edda (scritti tra il 9° e il 12° secolo), considerati il capolavoro dell’epica germanica, conservano il carattere di raccolta di un ciclo di leggende – ciclo nibelungico (Nibelunghi) trasmesso oralmente di generazione in generazione –, i poemi cavallereschi si distinguono invece dall’epica antica per la varietà delle azioni, per gli interventi soggettivi dell’autore, e per la mescolanza di toni eroici con quelli satirici e burleschi.
Secondo una distinzione operata nel romanticismo, l’epica spontanea o popolare, formata da poemi o cicli di poemi collettivi e anonimi ed espressione di una collettività, lascia gradatamente il posto a un’epica riflessa, o d’arte, creazione individuale di singoli poeti e nata per la lettura, non per la narrazione orale. Nella letteratura italiana i due massimi esempi di questa forma di epica sono l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto e la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso.
Nell’antica Grecia i componimenti poetici spesso erano cantati, da una sola persona (monodici) o in coro (per esempio i ditirambi, legati al culto del dio Dioniso), con l’accompagnamento di strumenti musicali, in particolare la lira. Il termine lirica, creato nell’età ellenistica, indicava solo quest’ultimo tipo di componimenti, escludendo sia i giambi sia le elegie, che erano recitati anziché cantati e accompagnati non dalla lira, ma dalla cetra e dal flauto. In senso più esteso, il termine lirica viene adoperato oggi per indicare la produzione poetica diversa dall’epica e dalla tragedia, sviluppatasi in Grecia tra il 7° e il 6° secolo a.C. In un’accezione ancora più ampia, affermatasi a partire dal Rinascimento, la lirica viene considerata come un genere poetico autonomo, costituito da componimenti, per lo più di breve respiro, che sono espressione diretta dell’universo affettivo dell’autore, una manifestazione della sua soggettività.
La lirica corale dell’antica Grecia era legata a particolari occasioni, spesso feste religiose, oppure cerimonie collettive come feste nuziali, banchetti, compianti funebri. La lirica monodica, contraddistinta da periodi brevi e allineati, metafore e immagini destinati a imprimersi nella memoria, raggiunse vertici di perfezione con Saffo, Alceo, Anacreonte. Temi, espressioni e struttura della lirica greca furono mutuati dai poeti latini, in particolare da Catullo, Orazio, Tibullo, Ovidio.
Eredi della poesia lirica dell’antichità classica saranno nel Medioevo i poeti provenzali del 12° e del 13° secolo, i cosiddetti trovatori (dal provenzale trobar «comporre versi»). I loro componimenti erano sempre accompagnati dal liuto, come la lirica greca originaria, ma avevano anche un ritmo, una musicalità ‘interna’, ottenuti con l’uso di rime e di particolari scansioni delle strofe. Il tema principale era l’amore, nella forma idealizzata dell’amor cortese. Ai trovatori e ai lirici della scuola siciliana fiorita nel Duecento alla corte di Federico II di Svevia si deve l’invenzione di una serie di forme dei componimenti poetici – come la canzone, la ballata, il sonetto – che avranno un’enorme influenza sugli sviluppi successivi della poesia, soprattutto in Italia.
L’idea della poesia come creazione di schemi, immagini e parole che con il loro disegno ritmico e sonoro esprimono gli intimi moti dell’animo impronta la lirica del cosiddetto stil novo e avrà il suo culmine nel Trecento nella poesia di Petrarca.
Per i romantici, che concepivano la poesia come pura effusione dell’anima, il più possibile diretta e immediata e improntata all’essenzialità espressiva, la lirica fu considerata l’unica forma pienamente legittima di poesia, e finì per essere identificata con l’essenza stessa della poesia in quanto, come affermava Leopardi, è «priva di tempo, eterna e universale».
Naturalmente epica e lirica non esauriscono la grande varietà dei generi poetici, che si articolano in specie e sottospecie a seconda dei contenuti e della forma dei componimenti. I temi della poesia spaziano in tutto l’ambito delle esperienze umane: gesta di eroi, miti e leggende, rappresentazioni idealizzate del mondo agreste (come nella poesia pastorale), stati d’animo e sentimenti (tra cui l’amore, che naturalmente ha un posto privilegiato). Ma anche interi sistemi filosofici possono diventare poesia: si pensi al meraviglioso poema De rerum natura («Sulla natura») del poeta latino Lucrezio, che riesce a trasformare in suggestione poetica una materia apparentemente arida come la dottrina atomistica.
La Divina Commedia di Dante, dal canto suo, offre addirittura un vertiginoso compendio in versi del sapere della sua epoca. In versi furono scritte le grandi tragedie greche di Eschilo, Sofocle ed Euripide, e tutta la produzione teatrale del sommo Shakespeare. I generi poetici possono essere distinti anche in base al tono: tragico o drammatico, eroico, intimista, comico, satirico e via dicendo.
Di fondamentale importanza nella poesia è poi ovviamente la forma, il modo in cui il verso, l’unità ritmica di base del componimento poetico, è strutturato e organizzato secondo uno schema o un disegno preciso basato sul numero di sillabe, sulla distribuzione degli accenti, sui rapporti reciproci delle parole (per esempio le rime). Questi schemi possono essere rigorosamente prestabiliti oppure, come nel cosiddetto verso libero, creati appositamente di volta in volta dal poeta seguendo il ritmo interiore della propria ispirazione.
Ciò che accomuna la grande, e spesso eterogenea, famiglia delle espressioni letterarie che chiamiamo poesia è proprio il rapporto speciale tra forma e contenuto: ciò che viene detto acquista efficacia, si carica di suggestioni e ulteriori significati in virtù del modo in cui viene detto.
A iniziare dalla seconda metà dell’Ottocento, per mezzo del verso libero (cioè non più vincolato dalla metrica), la poesia sperimenta nuove libertà. Ma è la letteratura nel suo complesso a tentare nuove soluzioni, per esempio graficamente. Così, alcuni brani della prosa del Notturno (1921) di Gabriele D’Annunzio assumono in tutto e per tutto l’aspetto di un testo poetico. Vi è un procedere per segmenti brevi, posti uno di seguito all’altro, e le immagini si dispongono come istantanee, che si susseguono:
Usciamo. Mastichiamo la nebbia.
La città è piena di fantasmi.
Gli uomini camminano senza rumore, fasciati di caligine.
I canali fumigano.
Dunque, nell’epoca contemporanea, il confine fra prosa e poesia diviene sempre più incerto, labile, legato com’è spesso alla disposizione grafica che il testo finisce per assumere sulla pagina.
In taluni casi, per esempio, la parola poetica viene ‘disegnata’, come negli esperimenti visivi del francese Guillaume Apollinaire, dello statunitense Edward E. Cummings, o in alcune prove dei futuristi italiani (futurismo). Più in generale assume un significato particolare il rapporto fra ciò che è scritto e lo spazio bianco della pagina, specie quando il testo si riduce a un numero ristretto di versi, spesso frammentati, e dove lo spazio bianco della pagina rappresenta, per così dire, il silenzio di cui la parola poetica si vuole circondare. Basti pensare, a questo proposito, ad Allegria di Giuseppe Ungaretti:
M’illumino
d’immenso.
D’altro canto, molti versi spezzettati ad arte formano, se ‘incollati’ nuovamente insieme, nient’altro che endecasillabi, o analoghe forme metriche codificate nel passato (settenari, ottonari e così via), tornando così a ricomporre un andamento o una musicalità che risulta solo apparentemente frammentata e negata.