PARTITI POLITICI.
– Le elezioni del 2006: il governo Prodi. Dalle elezioni del 2008 alle dimissioni di Berlusconi. Il governo Monti. Le elezioni del 2013 e la rielezione di Napolitano. Il governo Letta. Il governo Renzi
Negli anni tra il 2006 e il 2015 il sistema partitico italiano è stato attraversato da una serie di sommovimenti di grande portata (v. Italia). Le norme elettorali sono state modificate, la rappresentanza parlamentare ha conosciuto un rinnovamento epocale (in particolare nel 2013), dopo nove anni tutti i partiti salvo uno (la Lega Nord) sono diversi da quelli che competevano nel 2006 e nessun leader politico, a eccezione di Silvio Berlusconi, è ancora alla guida dello stesso partito. In sintesi, il mutamento del sistema è stato radicale.
Le elezioni del 2006: il governo Prodi. – Le elezioni del 2006 segnarono un punto di svolta nel sistema partitico successivo al 1994. Per la prima volta dall’inizio della cosiddetta Seconda Repubblica il voto si concentrava in maniera quasi assoluta nelle due coalizioni alternative: 49,8% per l’Unione di centrosinistra guidata da Romano Prodi e 49,7% per la Casa delle libertà di centrodestra guidata da Silvio Berlusconi. Questa inedita bipolarizzazione (mai più ripetuta in tali dimensioni) era dovuta all’adesione di tutti i partiti a uno dei due schieramenti, in quanto il nuo vo sistema elettorale, approvato dal governo di centrodestra pochi mesi prima del voto, penalizzava chi non si presentava in una coalizione. La legge elettorale, infatti, oltre ad assegnare un bonus alla coalizione che arrivava in testa, tanto da portarla al 54% dei seggi, consentiva di entrare in Parlamento ai singoli partiti coalizzati anche se ottenevano solo il 2% (più il cosiddetto miglior perdente, cioè il primo partito al di sotto di questa soglia all’interno della stessa coalizione), mentre correndo da soli dovevano superare il 4%.
Il nuovo sistema di voto ebbe effetti paradossali e contraddittori: se da un lato aveva favorito la creazione di ampie coalizioni, dall’altro manteneva intatta la frammentazione, perché tutti i partiti che convergevano sotto l’ombrello coalizionale avevano avuto come obiettivo prioritario, più che la condivisione del programma e delle politiche della coalizione, quello di ottenere una rappresentanza parlamentare. Quindi, la concentrazione del voto in due schieramenti al momento elettorale va ‘calibrata’ con l’elevata frammentazione a livello parlamentare (favorita peraltro da regolamenti parlamentari molto laschi e generosi per le piccole formazioni).
In più, il sistema elettorale prevedeva un diverso meccanismo di attribuzione del bonus al Senato rispetto alla Camera. Al Senato, infatti, il bonus veniva assegnato regione per regione alla coalizione che arrivava in testa. In una competizione così serrata come quella del 2006 la distribuzione di voti quasi eguale tra l’Unione di centrosinistra e la Casa delle libertà di centrodestra produsse una distribuzione altrettanto paritaria dei bonus regionali, con il risultato che all’ampia maggioranza conseguita dall’Unione alla Camera non corrispondeva una maggioranza analoga al Senato. Anzi, qui l’Unione ottenne la maggioranza assoluta solo grazie ai senatori eletti all’estero (altra novità della legge elettorale).
L’ampio arco di forze coalizzato e la risicata vittoria elettorale condannarono il governo Prodi a disomogeneità e instabilità. L’eterogeneità dei partiti che lo sostenevano era molto forte, spaziando dai moderati postdemocristiani ai neotrotzkisti della sinistra radicale. Questo problema rimase sottotraccia nei primi mesi, durante i quali il governo attraversò un breve periodo di ‘luna di miele’, sia per lo sconcerto dell’opposizione, sconfitta sul filo di lana, sia per il positivo impatto sull’opinione pubblica delle liberalizzazioni adottate nell’estate, oltre che per la vittoria nel referendum costituzionale sul progetto di riforma del centrodestra (respinto con il 61,3% e con una partecipazione del 52,4%). La difficoltà a mantenere coese le varie componenti emergeva, però, già all’inizio del 2007, quando una mozione sulla politica estera veniva respinta al Senato grazie al voto contrario di due senatori della sinistra radicale (poi espulsi). Nel tentativo di contrastare questo logoramento, i due maggiori partiti del centrosinistra, DS (Democratici di sinistra) e Margherita, si univano (dopo un dibattito di anni) in un’unica formazione, il Partito democratico (PD), alla cui testa veniva scelto, nell’ottobre 2007, attraverso ‘primarie’ molto partecipate (3.554.169 votanti), Walter Veltroni, ex segretario diessino e sindaco di Roma.
Questo cambiamento induceva Berlusconi a reagire, facendosi promotore anch’egli, alla fine del 2007, di un nuovo partito che univa Forza Italia e Alleanza nazionale (AN). Dopo un’iniziale, forte perplessità da parte del leader di AN Gianfranco Fini, visto anche il precipitare della crisi di governo e la convocazione di elezioni anticipate per la primavera 2008, il patto veniva siglato, e furono presentate liste comuni sotto il nome di Popolo della libertà (PDL, che però si sarebbe costituito formalmente in partito solo nel marzo 2009).
Dalle elezioni del 2008 alle dimissioni di Berlusconi.– Le elezioni del 2008 ebbero un esito previsto – la larga vittoria del Popolo della libertà, alleato al Nord con la Lega e al Sud con il Movimento per le autonomie (MPA) di Raffaele Lombardo – e uno del tutto imprevisto – la riduzione della frammentazione partitica. I partiti presenti in Parlamento, infatti, si dimezzarono, passando da 13 a 8. Oltre agli eletti delle storiche formazioni autonomiste altoaltesine e della Valle d’Aosta, ottenevano seggi i tre partiti della coalizione di centrodestra (PDL, MPA e Lega), i due della coalizione di centrosinistra (PD e Italia dei valori) e l’Unione dei democratici cristiani e di centro (UDC) di Pierferdinando Casini, che non aveva aderito al PDL e, correndo da sola, aveva superato lo sbarramento del 4%. Oltre a molte sigle minori, invece, non otteneva rappresentanza parlamentare La Sinistra-L’Arcobaleno, raggruppamento della sinistra radicale che comprendeva anche Rifondazione comunista.
Era stata la scelta strategica del PD a produrre questo esito. Infatti, contrariamente al passato, il PD non aveva adottato una logica inclusiva aggregando molte sigle sotto il suo manto: al contrario, aveva rivendicato una scelta da ‘partito a vocazione maggioritaria’, presentandosi con un solo alleato, l’Italia dei valori (IDV). L’ottimo risultato raggiunto dal PD (33,4%), il più alto ottenuto dalla sinistra nelle sue varie incarnazioni uliviste, non veniva però considerato come un primo passo da consolidare e incrementare; al contrario, innescava una forte conflittualità interna che avrebbe portato, dopo alcuni rovesci elettorali alle elezioni regionali, alle dimissioni del segretario Veltroni (febbraio 2009).
Dall’altro lato dello schieramento, il centrodestra avanzava trionfante senza alcun contrappeso politico in Parlamento. L’unica opposizione vocale veniva dalla società civile che si mobilitava in varie forme, dalle iniziative del cosiddetto popolo viola, fortemente antagonista nei confronti del governo e del presidente del Consiglio, alle varie manifestazioni di protesta antipartitica animate da Beppe Grillo, che culminavano nel meeting di Bologna del settembre 2007.
Nonostante queste iniziative, fu la destra l’artefice del proprio declino. L’inefficacia (e la limitatezza) delle politiche adottate dal governo e i processi a carico di Berlusconi innescarono un, peraltro lento, processo di erosione della legittimità della sua leadership e dello stesso governo. Proprio quando il Cavaliere era all’apice della sua popolarità, a seguito della gestione in prima persona della ricostruzione successiva al terremoto dell’Aquila (i cui effetti deleteri sarebbero emersi solo più tardi) e della mediaticamente efficace convocazione del G8 proprio in quell’area nel luglio 2009, tre mesi dopo l’evento sismico, egli incappava nel primo sex scandal di una lunga serie, con il conseguente clamore derivato dalla reazione pubblica, molto forte e molto ‘politica’, della moglie, Veronica Lario, che denunciava l’uso e l’abuso del corpo femminile in cambio di favori, anche politici. A ciò si affiancava, l’anno successivo, la polemica sul ‘velinismo in politica’, espressione con cui si indicavano le corsie preferenziali per la selezione delle candidature elettorali riservate a giovani dotate di null’altro che di bell’aspetto.
Il leader storico di AN fondava la sua critica, sempre più aperta, non tanto sui comportamenti disinvolti del premier sul piano privato, quanto sul terreno politico-culturale.
Mentre la Lega continuava a sostenere sempre e comunque il capo del governo, spingendo sul tasto immigrazione-sicurezza, il sotterraneo e decennale conflitto tra i due fondatori del PDL si acuiva giorno dopo giorno. Dopo una lunga guerriglia mediatica, nella primavera del 2010 la resa dei conti tra Fini e Berlusconi si consumava platealmente durante la riunione della direzione del PDL. Alla fine di luglio si arrivava alla rottura: l’ufficio di presidenza del PDL espelleva Fini e, subito dopo, i suoi fedelissimi uscivano dal partito e davano vita al gruppo parlamentare di Futuro e libertà, forte di 35 deputati.
Dopo mesi di schermaglie, nel novembre 2010 il gruppo di Futuro e libertà, disponendo di un pacchetto di voti tale da far cadere il governo, depositava una mozione di sfiducia. Il ritardo nella votazione, richiesto dal presidente della Repubblica per permettere l’approvazione della legge finanziaria, consentiva a Berlusconi di recuperare qualche sostenitore di Fini e di superare questo ostacolo. La sconfitta provocava poi lo sbandamento di Futuro e libertà e la sua scomparsa. L’unica potenziale alternativa moderata al Cavaliere si perdeva nel nulla.
In questi anni, quindi, contrariamente al passato, non è stato il centrosinistra, bensì il centrodestra a essere investito dalla conflittualità interna. Il PD, tuttavia, non ha approfittato di questa difficoltà. Anzi, alle elezioni regionali (2010) perdeva due regioni chiave, Piemonte e Lazio (in realtà la vittoria leghista in Piemonte sarebbe stata annullata per irregolarità, ma quattro anni dopo). La nuova leadership di Pierluigi Bersani, eletto anch’egli attraverso primarie nell’autunno del 2009 (peraltro sorprendentemente partecipate con poco più di 3 milioni di votanti) non riusciva né a ricompattare il partito, né a ridare slancio all’attività politica. I successi del più grintoso alleato, l’IDV, che superava il 7% alle regionali, e della mobilitazione della società civile attraverso vari movimenti relegavano il PD in un cono d’ombra.
Solo la consunzione della leadership berlusconiana, evidenziata dalla sua inazione di fronte al precipitare della crisi economica e dall’isolamento internazionale del premier, ridicolizzato da tutta la stampa estera e tenuto ai margini dall’establishment internazionale (anche per l’emergere di ulteriori sex scandals, come il ‘caso Ruby’, minorenne marocchina ospitata nella villa di Arcore), portava quindi a una crisi di governo. Nel novembre 2011, dopo che l’esecutivo aveva subito alcuni rovesci in Parlamento che avevano dimostrato il logoramento della sua maggioranza, il presidente della Repubblica, sospinto da una pressante richiesta da parte dell’opinione pubblica, convinceva Berlusconi a dimettersi e ad accordare la fiducia, insieme al PD, a un governo tecnico, affidato a Mario Monti.
Il governo Monti. – Questo epilogo era la risultante di una china discendente per il centrodestra che durava dall’inizio dell’anno. Aveva efficacemente simboleggiato questo cambio di segno la ‘conquista’ di Milano alle elezioni municipali della primavera 2011 da parte di una lista di sinistra capeggiata da Giuliano Pisapia, esponente storico di Rifondazione comunista, che aveva prevalso nelle primarie di coalizione sul candidato PD. In effetti, in molte primarie comunali si erano affermate figure più radicali rispetto al PD, a dimostrazione di una perdurante difficoltà del partito di Bersani a presentarsi come perno dell’opposizione. Un altro segno dell’appannamento dei democratici emergeva in occasione dei referendum sui beni comuni e su alcune leggi ad personam in favore di Berlusconi, rispetto ai quali il PD aveva assunto un atteggiamento distaccato, salvo un tentativo di recupero in extremis.
La convergenza di tutti i maggiori partiti a sostegno del governo Monti lasciava spazio libero a un nuovo attore politico, il Movimento 5 stelle (M5S) di Beppe Grillo, che si poneva fuori dalle modalità consuete dell’azione politica e interpretava il diffusissimo sentimento antipolitico, portato all’apice dai numerosi scandali di quell’anno. Le rivelazioni sulle malversazioni avevano investito un po’ tutti: la Lega era il partito più duramente colpito, tanto da portare alle dimissioni (forzate) il capo indiscusso per decenni, Umberto Bossi; l’IDV praticamente scompariva nello spazio di un mattino per l’indebita appropriazione dei fondi da parte del fondatore; il PD vedeva indagato l’ex presidente della provincia di Milano, Filippo Penati, e venivano altresì coinvolti vari dirigenti del PDL, soprattutto in Lazio e Lombardia, tanto da causare lo scioglimento anticipato di quei consigli regionali.
La crisi della destra, e anche dell’alleato IDV, trovava il PD impreparato a raccoglierne i frutti, perché era attraversato da una contestazione interna che stava minando la legittimità della sua leadership. Il sindaco di Firenze Matteo Renzi già da alcuni anni si poneva come alternativa alla classe dirigente del partito puntando sul ringiovanimento e sul rinnovamento con lo slogan, efficace per quanto brutale, della ‘rottamazione’. Le sue conventions dimostravano la distanza tra i giovani nativi PD e «gli altri». In vista delle elezioni del 2013 Renzi chiedeva al partito di organizzare delle primarie per scegliere il candidato premier, nonostante lo statuto indicasse che spettava al segretario in carica occupare tale ruolo. Il segretario Bersani convinceva una riottosa assemblea del partito a modificare lo statuto per permettere allo sfidante di competere. La scelta si dimostrava vincente su tutti i piani. In primo luogo il ballottaggio finale tra Bersani e Renzi vedeva prevalere largamente il primo con più del 60% dei voti. In secondo luogo il PD conquistava una centralità politico-mediatica che gli era sempre sfuggita e, come primo effetto, superava abbondantemente la quota del 30% in tutti i sondaggi, distanziando di molte lunghezze il PDL.
A destra, invece, si assisteva, nel corso del 2012, a una dispersione e divaricazione di percorsi. Un piccolo gruppo di ex AN (ed ex MSI, Movimento Sociale Italiano) più altre componenti ex FI davano vita al nuovo partito Fratelli d’Italia; altri abbandonavano silenziosamente il partito, come l’ex ministro degli Esteri Franco Frattini; altri ancora davano vita a fondazioni e correnti che sembravano preludere ad altrettanti partitini. La leadership di Berlusconi era certamente appannata e la nomina a segretario del partito del giovane Angelino Alfano non riusciva a riportare all’unità le varie componenti. Solo alla fine dell’anno Berlusconi riprendeva l’iniziativa politica e, sostanzialmente, sfiduciava il governo Monti, portando alle elezioni anticipate.
Le elezioni del 2013 e la rielezione di Napolitano. – Le elezioni del febbraio 2013, le prime svolte in pieno inverno, si presentavano particolarmente favorevoli per la coalizione di centrosinistra. Il risultato invece riservava la più grande sorpresa di tutta la storia repubblicana: un partito che competeva per la prima volta alle elezioni come il M5S diventava in un colpo il più votato nel territorio italiano, sopravanzando di un soffio il PD (che solo grazie ai voti all’estero tornava primo). Il successo della formazione di Beppe Grillo, del tutto inaspettato nelle sue dimensioni, si connetteva in realtà sia all’esito delle elezioni siciliane dell’ottobre precedente, dove il M5S era risultato primo partito, sia al successo travolgente della campagna elettorale del leader, l’unica condotta nelle piazze, anche sotto la neve. Deludente il risultato di Monti, la cui lista, sostenuta anche dall’UDC, non arrivava al 10%.
Il PD, grazie al bonus previsto dalla legge elettorale, disponeva, con l’alleato SEL (Sinistra Ecologia Libertà, la nuova formazione di sinistra guidata da Nichi Vendola, che aveva raccolto, tra l’altro, le spoglie di Rifondazione comunista), della maggioranza alla Camera, ma non di quella al Senato. Di qui il tentativo di un accordo con il M5S, naufragato nel peggiore dei modi.
Ma la vera crisi si apriva nel corso dell’elezione del presidente della Repubblica, tenutasi alla fine di aprile. I due candidati presentati dalla segreteria del Partito democratico, Franco Marini e Romano Prodi, venivano falciati dai grandi elettori e in particolare la bocciatura di Prodi provocava una crisi verticale della leadership di Bersani. Il segretario si dimetteva e, per superare l’impasse, tutti i partiti si rivolgevano al presidente uscente chiedendogli di ripresentarsi. Giorgio Napolitano veniva così rieletto a larga maggioranza.
L’effetto combinato del risultato elettorale e dell’elezione del presidente della Repubblica causava profondi effetti sul sistema partitico.
In primo luogo, riportava in auge il PDL, che sembrava essere stato messo all’angolo dalla nascita di un partito moderato-borghese come quello guidato da Monti – che tuttavia non aveva incontrato i favori della constituency cui in linea di principio si era rivolto – e che veniva invece rilanciato dal sostanziale fallimento del PD. Basti ricordare che la coalizione guidata da Berlusconi era arrivata a pochi decimali di punto da quella di Bersani nelle ultime consultazioni politiche.
In secondo luogo, introduceva nel sistema partitico una nuova forza, il M5S, dai contorni indefiniti, ma dotata, potenzialmente, di una forte carica destabilizzante degli equilibri politici, carica che tuttavia non sfruttava appieno nell’immediato periodo postelettorale, quando rifiutava ogni commistione con le forze politiche tradizionali (rinunciando quindi a sostenere un governo di minoranza Bersani).
Infine, destabilizzava il PD, costringendo alle dimissioni Bersani e forzandolo ad accedere a un governo di grande coalizione con il PDL guidato da Enrico Letta.
Il governo Letta. – Il rapporto tra i due contendenti storici – PD e PDL – sembrava quindi tornare su un piano di parità (nonostante il governo Letta fosse molto squilibrato in favore della rappresentanza PD, visto il differenziale di parlamentari eletti). Anzi, mentre il PD si dibatteva alla ricerca di una via d’uscita dal tonfo elettorale e dall’umiliazione subita durante l’elezione del presidente della Repubblica, il PDL appariva il dominus della coalizione e imponeva da subito alcuni temi portanti della sua agenda, quale l’abolizione della tassa sulla casa. Anche la Lega Nord, accantonato Bossi e fatta pubblica ammenda degli scandali, riprendeva spazio grazie alla leadership più soft e dialogica di Roberto Maroni. Tuttavia, nella seconda metà dell’anno i rapporti di forza nella maggioranza di governo si ribaltavano di nuovo.
Le pendenze giudiziarie di Berlusconi intervenivano come mai prima nell’arena politica e investivano, anche qui per la prima volta, lo stesso partito del leader. Infatti, la condanna definitiva di Berlusconi per frode fiscale divideva il PDL: la componente ministeriale, guidata dal segretario Alfano, non accettava di dimettersi in segno di solidarietà con Berlusconi e si staccava dal partito, garantendo così la continuità del governo Letta. Il PDL si spaccava quindi in due componenti: quella guidata da Alfano fondava un proprio partito, il Nuovo centro destra (NCD), mentre Berlusconi, con il grosso del PDL, rifondava Forza Italia.
Dall’altra parte il PD, terminato l’interim di Guglielmo Epifani alla guida del partito, organizzava nuove primarie per la segreteria (dicembre 2013). I tre candidati rimasti al ballottaggio incarnavano posizioni diverse: Gianni Cuperlo rappresentava la continuità bersaniana, Giuseppe Civati la sinistra ambientalista e dei diritti, Matteo Renzi il ribaltamento delle tradizionali coordinate della sinistra alla ricerca di una terza via blairiana. La vittoria di Renzi (67,5% dei consensi) era scontata, dato anche il differenziale di risorse rispetto gli avversari. Il PD accedeva così a un profondo rinnovamento sia politico-valoriale sia generazionale.
Nello stesso periodo anche la Lega rinnovava ulteriormente la sua leadership, affidata al giovane segretario della componente lombarda, Matteo Salvini.
Solo il M5S non adeguava la propria struttura e il proprio modo di operare al travolgente successo parlamentare e organizzativo. I meet-up, nome esotico per indicare le sezioni locali, così come gli ‘utenti registrati’ (gli iscritti) crescevano
esponenzialmente, ma la struttura verticistica di comando rimaneva inalterata: Beppe Grillo continuava a essere il capo indiscusso con potere di veto e di indirizzo su tutto. Questo dominio creava tensioni nella ‘gestione’ di un gruppo parlamentare ampio e reclutato casualmente, nel senso che, in virtù del grande successo, erano entrate in Parlamento anche persone digiune di esperienza politica. A questo problema ‘gestionale’ (non indifferente e causa di molte rotture e fuoriuscite) si affiancava un’indeterminatezza della strategia politica: la radicale alterità alla ‘partitocrazia’ assumeva toni e punte polemiche tali da sfiorare l’opposizione al sistema democratico in sé. E questo alimentava, soprattutto in vista delle elezioni europee del 2014, la ‘paura’ del sorpasso grillino nei confronti del PD (uno dei fattori della straordinaria vittoria del partito di Renzi alle urne, con il 40,8%).
Il governo Renzi. – Il 2014 si è caratterizzato per il cambio repentino e per certi aspetti traumatico della guida del governo con la ‘defenestrazione’ di Enrico Letta, sfiduciato dalla direzione del PD e sostituito da Renzi, e per un inedito rapporto del segretario del PD con Berlusconi al fine di attuare concordemente le riforme istituzionali (il cosiddetto patto del Nazareno). Alla fine dell’anno, in effetti, la riforma elettorale e quella del Senato erano in dirittura d’arrivo. Questa accelerazione sembrava attestare sia la tenuta dell’intesa del PD con Forza Italia, tale da estendersi anche ad altri provvedimenti, sia la forza politica dello stesso leader democratico, sostenuto dal clamoroso risultato alle elezioni europee, che portava il partito al massimo storico del 40,8%, distanziando di quasi 20 punti il M5S e relegando ben più indietro Forza Italia.
La collaborazione istituzionale suggellata dal patto del Nazareno s’interrompeva tuttavia bruscamente nel gennaio 2015, in occasione dell’elezione del successore di Napolitano. Contestando un metodo di scelta ritenuto non condiviso, Forza Italia decideva di non sostenere la candidatura del giudice costituzionale Sergio Mattarella (v.), proposto dal premier Renzi ed eletto il 31 gennaio. A conferma del mutato clima politico, arrivavano i voti contrari di Forza Italia sul disegno di legge sulle riforme costituzionali (marzo 2015) – il cui iter parlamentare proseguiva dopo la prima deliberazione favorevole di entrambi i rami del Parlamento – e sulla nuova legge elettorale, approvata in via definitiva nel mese di maggio. La svolta non incontrava però il consenso unanime del partito, che a luglio perdeva alcuni parlamentari capeggiati dal senatore Denis Verdini. A maggio, era stato invece Raffaele Fitto – da tempo in rotta con Berlusconi – a lasciare Forza Italia.
Anche il PD era percorso da molte tensioni al suo interno, con una minoranza apertamente critica verso alcune riforme fortemente volute da Renzi – quali quelle del mercato del lavoro (il cosiddetto Jobs act, v. riforma del lavoro) e della scuola (v.) –, contraria alla trasformazione del Senato in camera non elettiva e schierata a favore di una piena reintroduzione delle preferenze nella legge elettorale.
Le elezioni regionali di maggio 2015 videro l’affermazione dei candidati presidenti del centrosinistra – tutti del PD – in cinque regioni su sette (Campania, Marche, Puglia, Toscana, Umbria), ma il Partito democratico subì un arretramento rispetto allo storico risultato delle europee. Il centrodestra si aggiudicava invece la vittoria in Veneto e in Liguria, favorito in quest’ultimo caso dalla ritrovata unità a sostegno della candidatura di Giovanni Toti e dalla frattura all’interno del PD, che si presentava diviso dopo le contestate primarie per la scelta del candidato presidente. Il voto confermava inoltre la solidità del M5S che, pur non prevalendo in alcuna regione, si dimostrava il principale antagonista del PD, a fronte di un centrodestra molto spesso frammentato.
In questi nove anni che separano il 2006 dal 2015 tutto è molto cambiato. Il PD, che nel 2006 non esisteva, dopo aver attraversato una valle di lacrime, alle fine del periodo continua ad apparire il perno centrale del sistema politico italiano, distanziando elettoralmente tutti gli altri; il partito di Berlusconi è diventato un attore di secondo piano con poche chances di recupero per lo sfarinamento del suo blocco sociale e l’appannamento del leader; la sinistra radicale è praticamente scomparsa; le illusioni centriste sono affondate con il fallimento dell’ipotesi Monti; la Lega sembra avviata, sotto la guida di Salvini, non solo a recuperare i suoi giorni migliori, ma a diventare un partito ‘nazionale’ sulle orme del Front national francese e con un consenso ben più ampio rispetto al passato; infine, una proposta politica inedita e alternativa come il M5S, che raccoglie spinte diverse, dall’antipolitica all’ecologismo, dalla moralizzazione all’antieuropeismo, per quanto ‘inesperta’ e isolata, mantiene, dopo oltre due anni, ancora un ampio consenso e sembra destinata a insediarsi come una nuova componente di opposizione radicale.