Partecipazione sociale
di Paolo Ceri
Partecipazione sociale
Il concetto di partecipazione sociale, così come viene abitualmente usato nelle scienze sociali, associa a un'estesa portata denotativa una ridotta capacità connotativa.
Detto in altri termini, alla considerevole estensione del concetto corrispondono una chiarezza e una rilevanza sistematica limitate. Un indicatore di tale squilibrio è da scorgersi nell'ampio scarto che sussiste tra la frequenza con cui la locuzione 'partecipazione sociale' ricorre nei lavori degli scienziati sociali - sociologi e politologi, in particolare - e la sua assenza pressoché completa nei dizionari e negli indici analitici della letteratura socioscientifica. Un fatto, questo, che indica a sua volta come lo squilibrio sia da imputare a una limitata differenziazione del concetto analitico dalle rappresentazioni di senso comune.
Siffatta situazione espone il concetto, come pochi altri, alle oscillazioni che la rilevanza del problema corrispondente assume nelle diverse congiunture storiche. Accade così che analisi condotte intenzionalmente sul tema della partecipazione fioriscano quasi esclusivamente in periodi di sviluppo di istanze e ideologie partecipative, sebbene il problema della partecipazione si prospetti - sia pure in mutate forme - in modo permanente. E infatti il riferimento pubblico, in forma di appello o di denuncia da parte di governanti, politici e opinion makers, al difetto o all'eccesso di partecipazione è diffuso e ricorrente. Esso rivela attese o timori, a seconda della congiuntura e dell'orientamento autocratico o democratico dei governi, pubblici o privati. Concretamente, il riferimento va di volta in volta alla partecipazione politica, alla partecipazione sindacale, alla partecipazione religiosa, alla partecipazione culturale, ecc.
Dal momento che la partecipazione sociale interessa virtualmente tutte le sfere della vita associata, nelle rappresentazioni di senso comune essa assume i tratti di un fenomeno pervasivo e proteiforme, che nella sostanza consiste nell'uscire dal proprio particulare, nell'adoprarsi per qualcosa che trascende i propri diretti e immediati interessi. Già a questo livello si coglie come la nozione corrente di partecipazione sociale sia carica di connotazioni valutative, che variano a seconda degli orientamenti ideologici e degli interessi. Valuterà positivamente la partecipazione chi voglia limitare il potere dispotico, mentre sarà di opposto avviso chi sia interessato al suo uso monopolistico o privato. Parimenti vi sarà chi vede nella partecipazione una minaccia all'ordine, e chi la considera il mezzo atto a garantire il consenso indispensabile a una società pacificata.
In campo scientifico a queste e altre valutazioni non può essere riconosciuta cittadinanza. Se opportunamente interpretate, tuttavia, esse gettano luce sulla natura del problema storico e strutturale sotteso al concetto di partecipazione sociale, nonché sul suo carattere multidimensionale.
Il problema della partecipazione si pone ogni volta che si manifestino, da soli o in congiunzione, i due fenomeni seguenti: a) lo sviluppo di istanze sociali volte a rivendicare accesso in determinate sfere di vita o arene decisionali e facoltà d'azione in esse; b) l'esigenza di favorire, da parte di chi dispone di potere e controlla sfere di vita e arene decisionali, l'estensione ad altri dell'accesso e della capacità d'azione.
Se pure si prescinde da fenomeni episodici, ancorché ricorrenti nel passato, come sollevazioni di massa in forma di sommosse e tumulti, o come concessioni regali di diritti e privilegi, il problema della partecipazione non è esclusivo della modernità, dal momento che dinamiche e tensioni di casta o di ceto sono presenti nelle società premoderne. Tuttavia è soltanto con l'avvento della modernità e della società industriale che esso diventa un problema strutturale sul piano sociale e politico.
In formazioni sociali elementari caratterizzate da elevata omogeneità - quali le comunità di caccia e raccolta, le comunità pastorali, le comunità contadine, ecc. - la partecipazione è estesa e permanente: si confonde con la vita comunitaria e ne esprime le regole. Essa non costituisce pertanto un problema critico. Lo stesso avviene, sia pure in modo meno meccanico, anche in società più differenziate e vaste - come ad esempio la società feudale - nelle quali vi è una stretta, codificata corrispondenza tra l'ordinamento delle posizioni di status e il sistema dei diritti e doveri. Pertanto la partecipazione sociale non rappresenta un problema fintanto che partecipare è un comportamento 'naturale' e obbligatorio. Essa cessa di essere tale quando all'intensificarsi della divisione del lavoro e al diminuire della rigidità delle regole di differenziazione sociale, i soggetti (sia individui che gruppi) acquistano una crescente autonomia culturale e politica.
All'interno di questa ben nota evoluzione è determinante l'emancipazione dell'individuo dai legami di ascrizione - basati sulla consanguineità, il localismo, l'etnicità, il ceto, ecc. - che ne limitano la capacità autonoma d'azione. In particolare, è con la formazione degli Stati nazionali in Europa e l'affermazione delle monarchie assolute che si avvia l'affrancamento del cittadino dai corpi intermedi, i quali sono posti sotto il controllo rigido della Corona, quando non schiacciati. Ma il fatto che il rapporto tra quello che è diventato il 'cittadino' e lo Stato non sia più un rapporto mediato da corpi intermedi avvia un doppio movimento. Da un lato lo Stato ha necessità di mobilitare il consenso e quindi di assicurarsi un certo grado di partecipazione dei cittadini - e ciò tanto più, quanto meno il principio di legittimità su cui poggia il suo potere è di tipo extrasociale. Dall'altro lato il cittadino, affrancato ma inerme dinanzi al potere assoluto, rivendica diritti civili e politici (v. Tocqueville, 1835-1840).
Da questo doppio movimento prende avvio e si sviluppa - con modalità, ritmi e forme variabili da paese a paese - il fenomeno dell'associazionismo: sia come soluzione aggregativa che come soluzione integrativa, in una società funzionalmente differenziata, culturalmente secolarizzata e socialmente atomizzata (v. March e Olsen, 1989). Con lo sviluppo dell'associazionismo - alla cui base per un certo tempo vi è anche la divisione della società in classi sociali - viene a ricostituirsi un livello di intermediazione tra cittadino e Stato. Questa realtà, fatta di legami che esprimono e regolano interessi e attività economiche, sociali e culturali non soggetti direttamente né al controllo delle formazioni tradizionali - il clan, la chiesa, la comunità locale: la folk society -, né al controllo dello Stato, dà forma a quella che da un certo momento in poi sarà chiamata società civile. In effetti, il problema della partecipazione sociale trae origine dalla formazione e dallo sviluppo della società civile e li accompagna. L'emancipazione dell'individuo e l'affermazione dell'individualismo, la divisione della società in classi, lo sviluppo dell'associazionismo e, non ultima, la legittimazione del potere per la sua capacità di generare benessere danno luogo a forti istanze e azioni di rivendicazione di diritti civili, politici e sociali. Tali istanze e azioni sono - come si vedrà - una componente importante della partecipazione sociale.
È a questo livello che - sulla scorta dello sviluppo storico testé tratteggiato - si pone il problema del rapporto tra sfera pubblica e sfera privata. E infatti il problema della partecipazione sociale ha le sue radici nell'autonomizzazione e nell'espansione della sfera privata: l'individuo ha il diritto di veder riconosciuti dei confini all'intervento della società e dello Stato in taluni ambiti di vita; allo stesso tempo molte questioni e decisioni precedentemente sottratte al controllo pubblico - sia perché 'segregate' in ambito privato da regole culturali tradizionali, sia perché sottratte arbitrariamente alla vista del pubblico dagli arcana imperii - possono essere 'restituite' alla sfera pubblica. Pertanto i difficili e mutevoli rapporti tra sfera pubblica e sfera privata sono alla base del problema della partecipazione sociale.
Se la storicizzazione del problema aiuta a circoscrivere l'ambito di applicazione del concetto di partecipazione sociale, un'analoga limitazione si impone sul piano analitico. È in base alla stessa connotazione storico-evolutiva del fenomeno che è possibile individuarne, in prospettiva sociologica, le caratteristiche strutturali generali. Al riguardo quel che si deve escludere in via preliminare è l'identificazione della partecipazione sociale con le manifestazioni della solidarietà e, più in generale, della socialità - come accade tipicamente in alcuni orientamenti teorici che privilegiano il modello della comunità e dell'interazione interpersonale.
In tale prospettiva il concetto di partecipazione verrebbe a denotare tutti quei rapporti sociali e quei comportamenti che si differenziano dall'anarchia, dal mercato autoregolato e dall'istituzione totale: cioè dal disordine, dall'ordine casuale e dall'ordine totale. Ovunque si manifestino cooperazione e comunicazione vi sarebbe partecipazione. Non soltanto la partecipazione sarebbe sociale, ma il sociale verrebbe a identificarsi con la partecipazione. Tuttavia, per essere utile sul piano euristico, il concetto di partecipazione deve denotare una fenomenologia specifica, per quanto diffusa e molteplice. A tal fine occorre individuare sul piano analitico il problema che è all'origine della partecipazione sociale, e che ha la sua fonte strutturale nello scarto tra l'integrazione sistemica e l'integrazione sociale. In particolare, quando vi è debole corrispondenza tra la cooperazione tecnica e l'integrazione sociale è segno che vi è tensione tra la costituzione pluralistica della società e la struttura del potere. Nelle società preindustriali l'integrazione tecnica veniva più o meno sussunta nell'integrazione sociale. Per contro, nella società industriale vi sono processi e tentativi - tipico quello del taylor-fordismo - di sussumere l'integrazione sociale nell'integrazione sistemica (e la divisione sociale del lavoro nella divisione tecnica). Tali tentativi hanno dato luogo a conflitti che esprimevano domande di partecipazione.
Da ciò si evince che la partecipazione sociale è un fenomeno che va collegato sia al problema dell'ordine, sia a quello del cambiamento e del conflitto sociale e che, pertanto, una concettualizzazione operata in uno soltanto dei due sensi comporta un'indebita riduzione. Ne segue che la partecipazione sociale può costituire tanto un fenomeno integrativo, quanto la manifestazione di un conflitto. Sotto questo profilo essa si colloca analiticamente all'incrocio di due processi: aggregazione e uguagliamento. Perché si abbia partecipazione occorre, infatti, che si verifichi: 1) il superamento della distanza o dell'isolamento tra gli individui o i gruppi (aggregazione): in particolare l'allontanamento da situazioni di individualismo o di esclusione; 2) la riduzione dei rapporti di subordinazione attraverso la distribuzione del potere (uguagliamento).
In questo quadro strutturale la partecipazione sociale risulta dalla combinazione di due logiche d'azione, improntate rispettivamente all'autonomia e alla solidarietà. Il problema - e la domanda - della partecipazione sociale trova infatti origine e fondamento nel declino delle forme di partecipazione comunitaria, provocato dall'affermazione delle organizzazioni burocratiche e del mercato. La partecipazione si configura allora come un'istanza e un processo di ricostruzione, su nuove basi, della possibilità di un agire autonomo (contro la gerarchia) e nel contempo di un agire solidale (contro il mercato).
Tra i fattori strutturali e le logiche d'azione suddette sussistono spesso tensioni e squilibri, e ciò spiega perché la partecipazione sociale sia un fenomeno assai problematico e fragile nella pratica e difficile da cogliere nella teoria.
L'uso che viene fatto correntemente nelle scienze sociali dell'espressione 'partecipazione sociale' è alquanto elastico, e non si discosta molto dall'uso quotidiano: si partecipa a uno sciopero come a un gruppo di lavoro, si partecipa a un'azione di volontariato come agli utili d'impresa, si partecipa a una cerimonia come a una decisione collettiva, e così via. Fenomeni tanto eterogenei vengono accomunati in base all'idea che partecipare equivalga a condividere, cioè a dividere con qualcun altro una stessa esperienza. Si comprende subito che questo minimo comune denominatore non è sufficiente per una concettualizzazione rigorosa del fenomeno. Se questa fosse la caratteristica del partecipare, allora la partecipazione sociale si dissolverebbe nell'interazione sociale, più o meno solidaristica, e quindi nel vasto mondo delle manifestazioni della socialità. Occorre pertanto tracciare delle distinzioni.
Una prima distinzione passa tra la partecipazione e la cooperazione. Parte degli esempi precedenti attengono, infatti, ai fenomeni cooperativi. Qui il punto da tener fermo è che se la cooperazione implica sempre partecipazione, non vale però il reciproco, perlomeno se il concetto di cooperazione viene definito in termini specifici e rigorosi, ossia come contributo dato allo svolgimento di compiti nell'ambito di un'attività collettiva orientata a un fine condiviso. Partecipare significa avere parte tramite l'adempimento di un ruolo e, correlativamente, tramite la distribuzione di benefici o di oneri collegati allo status. A questo livello la partecipazione sociale si configura come comportamento (di ruolo) e come attività, ed è perciò definita rispetto al livello dell'organizzazione sociale. Nella misura in cui il comportamento aderisce al ruolo, la partecipazione è ridotta concettualmente a cooperazione, cosicché questa fenomenologia non può essere considerata a rigore partecipazione o, se si vuole, può essere considerata come il grado zero della partecipazione sociale. Una riprova di ciò è da scorgere nel fatto che delle due condizioni indicate sopra, sussiste quella dell'aggregazione ma non quella dell'uguagliamento, dato che vi è presupposta la struttura dell'autorità e del potere.
C'è tuttavia un'accezione del concetto di partecipazione sociale come comportamento che, tipica delle discipline manageriali, trova non di rado impiego nelle scienze sociali, e in particolare negli studi socio-organizzativi e in quelli sui fenomeni di comunità e sulle associazioni volontarie. Essa riguarda i casi in cui l'individuo interpreta il proprio ruolo, impegnandosi nell'attività cooperativa anche oltre lo stretto adempimento dei doveri che gli competono, con l'apporto di idee, entusiasmo, impegno supplementare (tempo, fatica, ecc.). E ciò tanto più quanto più volontaria è l'assunzione del ruolo e ampia l'autonomia inscritta in esso. Ricadono in particolare in questa categoria gran parte dei comportamenti, più o meno codificati e rituali, che esprimono adesione e identificazione ad associazioni volontarie o a organizzazioni (nelle aziende si parla di management partecipativo). Si tratta anche in questo caso di un'accezione estensiva del concetto di partecipazione sociale, che poggia sull'idea di complementarità e che collega, in prospettiva funzionalistica, la partecipazione al problema dell'integrazione e dell'adattamento, ma non al problema del cambiamento. Questo tipo di partecipazione è, tuttavia, fondamentale sia per il clima di fiducia e di tolleranza nella società, sia per la formazione del senso civico.
'Partecipazione' in un'accezione più circoscritta (o partecipazione in senso stretto) si ha quando si va al di là del piano della cooperazione e dell'adempimento.
A un secondo livello si ha partecipazione sociale quando l'agire dei soggetti non è limitato alla partecipazione di ruolo, non si esplica, cioè, entro i confini organizzativi del ruolo, ma interessa il sistema di ruoli. In questo caso la partecipazione si configura come un far parte, e cioè come un'appartenenza che abilita ad agire sul piano decisionale. Qui partecipazione equivale a influenzamento: il livello di partecipazione è proporzionale alla possibilità di influenzare, manifestando e sostenendo interessi e preferenze, le decisioni che riguardano gli scopi e le regole dell'attività collettiva - scopi e regole proprie, di volta in volta, di un'associazione, di una comunità locale, di un'organizzazione o di uno Stato. L'analisi della partecipazione sociale sarà interessata in primo luogo al rapporto tra la struttura sociale e le strutture decisionali, in particolare sia alle regole di selezione e di accesso alle arene decisionali, sia ai processi decisionali. Sotto questo profilo le possibilità differenziali di partecipazione (accesso alle arene e influenza) sono fortemente correlate con lo status sociale, e cioè con la titolarità (titles) e con le risorse di cui gli individui dispongono.
A un terzo livello si ha partecipazione sociale quando i soggetti agiscono al fine di estendere la partecipazione definita al secondo livello: estensione che può riguardare tanto la tipologia dei soggetti abilitati a intervenire nell'arena decisionale, quanto le sfere sociali oggetto della decisione collettiva. Qui la partecipazione si configura come prender parte all'azione collettiva; essa non si manifesta né come adempimento né come influenzamento (in senso tecnico), ma come coinvolgimento nell'azione stessa.
Affermare che la partecipazione è riferita all'azione non significa affermare che si tratta di un tipo di azione distinto da altri. Essa può, infatti, essere relativa ad azioni differenti, quali quelle tipiche dei movimenti sociali, dei gruppi d'interesse, dei movimenti d'opinione. Pertanto la partecipazione sociale considerata in riferimento all'azione collettiva - in breve: la partecipazione come azione - può essere analizzata: a) come modalità d'azione; b) come posta in gioco o contenuto dell'azione; c) come risultato o conseguenza dell'azione. Nel primo caso si ha un'azione che manifesta partecipazione, un'azione per la quale gli individui escono, per così dire, dalla sfera privata per intervenire nella sfera pubblica. Qui si cercherà di determinare e spiegare quanta e quale partecipazione vi sia stata in uno specifico corso d'azione. Il secondo caso è quello dell'azione che chiede partecipazione, un'azione nella quale gli individui rivendicano, per sé o per altri, di accedere - ex novo, di più o a maggior titolo - alla sfera pubblica e, in particolare, a qualche arena decisionale. Qui si sarà interessati a stabilire quali domande di partecipazione muovano all'azione. Nel terzo caso, infine, si ha l'azione che domanda e/o ottiene partecipazione, un'azione per effetto della quale i soggetti acquistano una nuova o superiore titolarità di accesso a una o più arene decisionali. Qui interessa determinare quanto l'azione abbia favorito un'estensione della partecipazione alle decisioni collettive.
Considerate nel loro insieme queste tre dimensioni, l'azione volta a ottenere partecipazione - per semplicità: l'azione partecipativa - mira a trasformare i rapporti verticali e le decisioni imperative in rapporti orizzontali e in decisioni consensuali, nonché a moltiplicare le sfere dell'attività collettiva regolate da rapporti orizzontali e, più in generale, a estendere lo spazio sociale in cui al soggetto, affrancato da controlli e divieti, è riconosciuta la facoltà di autodeterminare le proprie scelte. Intesa in questo senso, l'azione partecipativa è sempre un'azione di riduzione delle disuguaglianze e dei privilegi, come è storicamente osservabile nel caso dello sviluppo dei diritti della cittadinanza.
Una volta considerati i tre livelli della partecipazione - la partecipazione come adempimento, la partecipazione come rapporto decisionale, la partecipazione come azione -, si pone il problema di considerare le dimensioni corrispondenti alla triplice questione: chi partecipa, a cosa, come.
Perlopiù le analisi sociologiche della partecipazione si sono concentrate di volta in volta su uno soltanto dei tre livelli illustrati in precedenza a discapito degli altri. Un privilegiamento, questo, che non è quasi mai puramente empirico, ma deriva da uno specifico approccio teorico, tanto che ai tre livelli di analisi è possibile far corrispondere, senza forzature, tre diversi approcci teorici alla partecipazione sociale: a) l'approccio funzionalista, che, riferito al piano dell'integrazione sociale, interpreta la partecipazione alla luce del contributo fornito ai fini istituzionali da soggetti connotati da diversità (sociali, culturali, professionali, ecc.) complementari e gerarchizzabili; b) l'approccio pluralista, che, con riferimento all'equilibrio sociale, analizza la partecipazione come espressione della capacità strategica di soggetti indipendenti di operare scambi e compromessi; c) l'approccio conflittualista, che concepisce la partecipazione come un fattore del cambiamento sociale, basato sull'opposizione tra diversità né complementari né gerarchizzabili e, quindi, al fondo, tra fini non negoziabili.
L'uso generalizzato di ciascun approccio comporta sempre qualche forma di pesante riduzionismo; d'altra parte sarebbe teoricamente infondato perseguire un'integrazione dei tre approcci. Quel che è possibile e importante fare è essere consapevoli delle proprietà specifiche e dei limiti di generalizzabilità di ciascun approccio, in relazione ai tre livelli d'analisi della partecipazione.
Poiché chiedersi 'chi partecipa?' equivale a chiedersi 'chi partecipa con chi?', nel rispondere a tali interrogativi sul piano analitico occorre tener conto di tre aspetti: a) i rapporti tra i partecipanti e i non partecipanti, ovvero il problema dell'inclusione; b) i rapporti tra i singoli partecipanti, ovvero il problema dell'uguaglianza; c) la natura del soggetto partecipante e del suo agire, ovvero il problema della solidarietà.
Anche per quanto riguarda l'inclusione occorre distinguere tra la partecipazione come stato dei rapporti decisionali e la partecipazione come azione. Circa il primo aspetto, si rileva come non vi sia un rapporto necessario tra la partecipazione nelle associazioni volontarie o nelle organizzazioni e il loro grado di apertura. Associazioni esclusive possono essere internamente democratiche, così come associazioni inclusive possono essere governate, di diritto o di fatto, in modo poco o punto democratico. In un caso la partecipazione è associata con l'esclusività, nell'altro l'inclusività non implica la partecipazione. Ciò detto, una prima condizione perché si possa parlare di partecipazione sociale in senso proprio è che l'inclusività di appartenenza all'associazione sia collegata alla democrazia interna, cioè alla partecipazione all'associazione. La seconda condizione riguarda l'azione. Non di rado si rilevano casi di associazioni più o meno inclusive e più o meno democratiche, la cui azione è però orientata a restringere lo spazio d'azione per i propri associati o, più spesso, per altri, in sfere distinte da quella in cui opera l'associazione. In questo caso si potrà parlare di partecipazione all'associazione, ma non di partecipazione sociale in senso proprio. Questo si avrà soltanto nei casi in cui inclusività e democrazia interna sono associate a un'azione orientata a favorire la partecipazione dei propri associati e/o di altri a sfere diverse dalla propria, nonché a non limitare o a favorire la partecipazione di altri - almeno in forma di trasparenza o controllo - alla propria vita interna e alla propria azione esterna.
Tanto per via teorica quanto per via empirica, dagli studi sulla partecipazione emerge l'esistenza di uno stretto rapporto tra partecipazione e uguaglianza: si partecipa soltanto tra uguali. Si impongono, però, due precisazioni. La prima riguarda l'azione, la seconda i partecipanti a un'arena decisionale. L'azione partecipativa non richiede un'uguaglianza preesistente di status. È, infatti, la stessa azione collettiva a creare, in misura variabile, un'area di uguaglianza, sia instaurando legami più o meno duraturi o effimeri tra i partecipanti, sia definendo, anche tramite l'ideologia, valori e criteri di identità comuni.La formazione di un'area di uguaglianza è determinante sia per lo sviluppo della partecipazione, sia per il suo successo. Infatti, mettendo da parte le differenze, essa consente di orientare più efficacemente l'azione in base a ciò che unisce, e unisce perché comune e condiviso.
La partecipazione entro un'arena decisionale è funzione dell'ampiezza dell'area di uguaglianza preesistente tra i partecipanti, nel senso che tende a crescere con essa e a decrescere con la disuguaglianza. Questa correlazione ha, tuttavia, un limite che è essenziale precisare: oltre una certa soglia, al crescere dell'uguaglianza, la partecipazione cessa o si trasforma in qualcosa di diverso. Infatti, se l'uguaglianza, in luogo di essere limitata ad alcuni attributi sociali dei partecipanti, si estende fino a omologare la loro intera identità pubblica, non vi è virtualmente più possibilità di distinguere tra partecipazione, integrazione e consenso. Questo caso, che potremmo definire di 'partecipazione autoritaria', si manifesta in realtà in forma di mobilitazione dall'alto oppure di partecipazione manipolata. Esso indica inoltre come la partecipazione decisionale sia sempre, in qualche misura, una partecipazione conflittuale: sia perché ogni individuo, abilitato a partecipare in virtù degli attributi comuni, porta con sé nell'arena decisionale altri attributi di status (potere, reddito, prestigio) ed elementi di cultura che lo differenziano dagli altri, sia perché in democrazia la partecipazione serve a far esprimere (e a regolare) il pluralismo degli interessi e degli orientamenti culturali. La compresenza dei due elementi contraddittori - l'uguagliamento e il pluralismo - è alla base della dinamica e della problematicità - della forza e della fragilità - dei processi partecipatori. Una compresenza che in ogni caso è essenziale alla partecipazione sociale e costitutiva della democrazia (e quindi della partecipazione democratica), poiché trova fondamento nei diritti dell'individuo. Questi abilitano, infatti, a partecipare in determinate aree della vita sociale e costituiscono, inoltre, pretese di legittimità per rivendicare l'estensione della partecipazione.
Nella partecipazione all'azione la solidarietà è una modalità necessaria dei rapporti tra gli individui. Essa consente, infatti, di far tacere gli interessi privati o, che è lo stesso, di subordinarli agli interessi collettivi e quindi di definire e perseguire obiettivi comuni (v. Pizzorno, 1966). Ciò equivale a dire che si partecipa per dovere e non soltanto per interesse. L'interesse è spesso un movente, ma non si dà partecipazione estesa e continuativa senza che partecipare sia sentito in qualche grado significativo come un dovere.
Diverso è il caso della partecipazione a un'arena decisionale, dove la solidarietà non è una condizione necessaria poiché lo stesso processo decisionale - se partecipativo - è alimentato dagli interessi e dalle preferenze, e ne consente il confronto. Anche in questo caso, tuttavia, la strutturazione di un'arena decisionale non episodica presuppone che le regole decisionali e le stesse autonomie individuali poggino sul fondamento di definizioni sociali, diritti di partecipazione ed elementi culturali comuni. Se così non fosse, i partecipanti in luogo di configurarsi come membri di una stessa collettività - per quanto internamente differenziata e conflittuale - costituirebbero una semplice categoria sociale, se non un mero aggregato di individui indipendenti. Un fatto, questo, che renderebbe il processo decisionale aleatorio e la partecipazione sociale effimera.
In una prospettiva dinamica la partecipazione sociale consiste in un doppio movimento: a) un movimento di distacco dalle appartenenze ascritte e dagli interessi privati; b) un movimento integrativo-conflittuale rispetto alle istituzioni imperative - prima tra tutte lo Stato - che si esplica in forme miste di adesione, pressione e contestazione. Ne segue che, sul piano funzionale, la partecipazione consente il collegamento della società civile con il sistema politico e lo Stato. Tale collegamento non equivale tout court all'integrazione né alla cooperazione, poiché essendo gli attori sociali e gli attori politici distinti - e nella misura in cui restano tali -, la partecipazione non assume la natura di uno stato di equilibrio, bensì di un processo conflittuale, e perciò variabile e mai compiuto, di riduzione della distanza tra società civile, sistema politico e Stato.
Poiché tale collegamento è anche una prerogativa della partecipazione politica, si pone il problema di distinguere quest'ultima dalla partecipazione sociale. E in effetti, in una prospettiva sociologica, vi è al contempo identità e diversità tra i due tipi di partecipazione: identità da un punto di vista analitico e diversità da un punto di vista concreto. Dal punto di vista analitico, in ambedue i casi l'agire partecipativo ha come scopo quello di esercitare influenza su decisioni collettivamente vincolanti all'interno di uno specifico sistema sociale. Per tale ragione la partecipazione sociale è, sul piano analitico, una forma di partecipazione politica. Per contro, le due forme di partecipazione si differenziano dal punto di vista concreto perché sono riferite l'una - la partecipazione politica - alla polity, cioè allo Stato e alle istituzioni e organizzazioni politiche (parlamento, partiti, voto, referendum, ecc.), e l'altra - la partecipazione sociale - alle organizzazioni e alle associazioni della società civile (azienda, scuola, ospedale, chiesa, mass media, ecc.).
L'asserzione che la partecipazione sociale è partecipazione politica trova una conferma nello stretto rapporto tra partecipazione e democrazia che si stabilisce all'interno del processo di democratizzazione.
È l'esistenza di un potente - benché né lineare né ininterrotto - processo storico di democratizzazione a fare della partecipazione sociale un tema politicamente e scientificamente rilevante, sia pure con alterna fortuna. La partecipazione è, infatti, tanto una forza che sospinge e accompagna il processo di democratizzazione, quanto un suo portato. Se, per un verso, non vi è alla lunga partecipazione sociale senza libertà politica, per l'altro verso la partecipazione rappresenta la principale misura della democratizzazione in un paese o in un settore della società.
La democratizzazione consiste nel "passaggio dalla democrazia politica alla democrazia sociale, ovvero nella estensione del potere ascendente [...] al campo della società civile nelle sue varie articolazioni, dalla società alla fabbrica" (v. Bobbio, 1984, p. 44) e si compie con la penetrazione e la diffusione di regole democratiche di decisione in numerosi settori della vita sociale, tanto che "per dare un giudizio dello stato di democratizzazione di un dato paese, il criterio non deve essere più quello di 'chi' vota, ma quello del 'dove' si vota" (ibid., p. 46). Sussiste, pertanto, un rapporto diretto tra l'estensione dei metodi e dei valori della democrazia e lo sviluppo della partecipazione. Nella pratica il rapporto è quanto mai difficile e contrastato, sia per il conflitto di interessi, sia per gli imperativi funzionali dei singoli sottosistemi sociali (quale l'efficienza per le imprese), sia, infine, per l'eccesso di ideologia che accompagna le ondate partecipazionistiche. Accade così non di rado che all'affermazione della democratizzazione sul piano formale non corrisponda, dopo le fasi iniziali, un'adeguata partecipazione, o vi corrisponda una partecipazione illusoria o manipolata.
Ed è a questo riguardo che si pone il problema della definizione, dell'analisi e della valutazione della democrazia partecipativa. Benché vi sia una lunga tradizione di studi, filosofici e scientifici, sulla controversa natura partecipativa della democrazia, è con i sommovimenti e i movimenti sociali degli anni sessanta e settanta che la democrazia partecipativa diventa tema ideologico, istanza rivendicativa, oggetto di progetti e di esperimenti concreti (quali forme di cogestione o perfino di autogestione nelle imprese, consigli aperti agli studenti e ai genitori nelle scuole, rappresentanze di associazioni di difesa degli utenti in organizzazioni dei servizi, ecc.). Tanto che nelle scienze sociali la tematizzazione teorica e l'indagine empirica - non di rado esposte alla temperie ideologica di quegli anni - appaiono essere un'espressione di quella fase. Dopo di che la riflessione e l'analisi - così come molte esperienze concrete - hanno segnato il passo, tanto che la questione si mantiene aperta in tutto il suo carattere controverso.
La controversia è legata al duplice interrogativo se la democrazia partecipativa sia desiderabile e se sia possibile. Schematizzando al massimo, si può dire che secondo alcuni, essendo impossibile (o assai limitatamente possibile), essa non è neppure desiderabile (né necessaria), mentre altri - in ampia misura esponenti della sinistra culturale e politica - ribattono che, essendo essa desiderabile (e necessaria), non può non essere (in qualche misura) resa possibile. Dei molti argomenti, teorici ed empirici, avanzati dai sostenitori della prima posizione, il principale è che la partecipazione è possibile soltanto nelle piccole comunità. Pertanto, quando è estesa ai grandi numeri, è destinata a rivelarsi illusoria e a dare origine a una democrazia manipolata da demagoghi o da ristrette avanguardie - dal momento che il potere decisionale del singolo partecipante decresce in misura proporzionale al crescere del numero dei partecipanti (v. Sartori, 1993, pp. 78-82). Quel che conta veramente, ed è necessario e sufficiente in democrazia, è che i cittadini esercitino periodicamente, con il voto, la propria autonomia nella scelta e nel controllo dei governanti - anche se si riconosce che la partecipazione politica non può esaurirsi nel voto.
Sul fronte opposto - ben altrimenti interessato all'estensione della democrazia nelle organizzazioni della società civile - gli argomenti centrali sono soprattutto i seguenti. In primo luogo si sostiene che l'esperienza continuativa della partecipazione esercita un'insostituibile funzione di educazione alla democrazia. In secondo luogo si afferma che per essere 'padroni del proprio destino' occorre meno disuguaglianza nella società; ma perché ciò sia possibile è necessaria un'estesa partecipazione: "bassa partecipazione e disuguaglianza sociale sono così legate l'un l'altra che una società più giusta e umana richiede un sistema politico più partecipativo" (v. Macpherson, 1977, p. 94) e "richiede che esista una società partecipativa, una società organizzata in modo che ogni individuo abbia l'opportunità di partecipare direttamente in tutte le sfere politiche" (v. Pateman, 1970, pp. 105-106). Sulla base di questi argomenti la posizione precedente viene criticata in quanto considera la partecipazione soltanto un'espressione della libertà negativa, vale a dire "una protezione dell'individuo dalle decisioni arbitrarie prese dai leaders eletti e una protezione dei suoi interessi privati" (ibid., p. 14).
La controversia mette capo al problema di quale rapporto si debba/possa istituire tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta. Mentre i fautori della prima posizione sono assai cauti, quando non avversi, a un ricorso che non sia severamente limitato ai metodi della democrazia diretta, i fautori dell'altra posizione sostengono perlopiù soluzioni miste, a seconda dell'influenza delle ideologie di sinistra e del realismo con cui viene analizzata la politica - le prime orientando verso la democrazia diretta, il secondo verso la democrazia rappresentativa.
Nella pratica il quadro delle esperienze di partecipazione sociale - così come emerge dalle numerose ricerche empiriche - presenta oscillazioni e ambivalenze tali da impedire non solo di ricondurle a un quadro d'insieme, ma anche di individuare con relativa chiarezza tendenze specifiche. Gli esperimenti di autogestione - primo tra tutti quello iugoslavo - e di varie forme di partecipazione al capitale d'impresa, così come di democrazia industriale, hanno dato risultati controversi, quando non deludenti. Esiti analoghi sono stati rilevati riguardo alla scuola aperta alle rappresentanze di studenti e genitori, ad alcuni servizi, pubblici e privati, aperti alle associazioni di difesa degli utenti, ecc. Per contro, forme di autogestione si vanno moltiplicando in imprese di piccole dimensioni tecnologicamente avanzate, così come in organizzazioni non profit del settore terziario, specialmente nelle associazioni di volontariato.
Nel complesso, se assumiamo la partecipazione come un indicatore di democratizzazione, possiamo dire che essa è penetrata in misura assai limitata nei diversi settori della società civile e in particolare nel settore economico. Nelle aziende, con la parziale eccezione di alcune forme di piccola impresa cooperativa, la partecipazione o è stata illusoria, come in esperienze isolate di controllo operaio, o del tutto limitata, come nei casi di partecipazione ai risultati d'impresa (profit sharing) e in quelli di azionariato dei dipendenti. Per alcuni aspetti, effetti partecipativi più significativi si registrano nei casi di concertazione o di codeterminazione negoziale tra azienda e sindacati. Ne segue che di queste tre forme di partecipazione economica le prime due - la 'partecipazione antagonista' e la 'partecipazione integrativa' - si sono finora dimostrate meno efficaci della terza - la 'partecipazione collaborativa' - che basandosi sul riconoscimento sia degli imperativi di mercato che della diversità degli interessi, consente in varia misura di conciliare efficienza e consenso attraverso un certo sviluppo della partecipazione (v. Baglioni, 1995).
Benché nelle scienze sociali non vi sia stata un'attenzione continuativa e sistematica per il fenomeno della partecipazione, sono numerosi i contributi - in particolare quelli provenienti dalla sociologia politica, dalla scienza politica e dalla sociologia dell'organizzazione - che consentono di individuare un'ampia serie di fattori la cui presenza o assenza influenza alternativamente lo sviluppo o la crisi della partecipazione sociale e politica. In una prospettiva dinamica si devono distinguere fattori e processi esogeni da fattori e processi endogeni. Tra i primi sono da annoverare soprattutto i processi di mobilitazione sociale e politica.
Lo sviluppo della partecipazione è spesso innescato e sostenuto dalla mobilitazione sociale di ampi strati della popolazione, prima esclusi in tutto o in parte dai circuiti dell'economia moderna e/o dalla politica, che rivendicano e acquisiscono cittadinanza e, perciò, diritti alla partecipazione. Oltre all'accesso a istituzioni politiche, la mobilitazione è spesso all'origine di nuove strutture della partecipazione in settori della società civile che prima le erano preclusi. Un simile sviluppo può arrestarsi - come non di rado accade - per due cause opposte. Si arresta - a volte quasi sul nascere - perché la mobilitazione sociale è talmente incanalata e guidata da poteri autocratici da essere posta al servizio di, se non addirittura provocata da, forme di mobilitazione politica dall'alto, che in luogo di partecipazione producono il suo opposto, la direzione autoritaria delle masse.
Ma accade anche che, a fronte di un esteso e rapido processo di mobilitazione sociale, sostenuto da un eccesso di ideologia partecipazionistica tale da sospingere verso forme di mobilitazione anti-istituzionale, la classe politica e i gruppi dirigenti in genere non sappiano fornire soluzioni istituzionali adeguate. Quando si dà una simile congiunzione di fattori, avviene che all'iniziale apertura di nuove forme partecipative a nuovi soggetti in nuove sfere, faccia presto seguito una crisi della partecipazione stessa, la quale declina - dando luogo a disillusioni, apatia e settarismo - tanto per eccesso di partecipazione, quanto per deficit di istituzionalizzazione.
Sotto un diverso profilo è stato anche osservato come sviluppo e crisi siano legati secondo andamenti ciclici, governati da processi endogeni. La ciclicità consiste nell'alternanza periodica dell'impegno individuale ora nella sfera privata, ora in quella pubblica. I fattori endogeni alla base di tale andamento ciclico sono da identificare - secondo un noto ed efficace quanto semplificato modello esplicativo, estrapolato dallo schema della teoria economica del consumatore - nella delusione che ogni ondata d'impegno (privato o pubblico) genera dopo un certo tempo sull'individuo, per effetto delle aspettative frustrate e/o per l'eccesso dei costi (materiali e simbolici) da sostenere (v. Hirschman, 1981). Cosicché l'impegno nella partecipazione sociale (tipico degli anni settanta) viene a essere attivato dalla delusione maturata nel precedente impegno privato (tipico degli anni cinquanta-sessanta) ed è seguito dal 'riflusso' (tipico degli anni ottanta) nella sfera dei consumi, del successo personale o dei sentimenti.
In una prospettiva strutturale vi è una serie di fattori - distinti dai precedenti - che, accertati in numerose analisi empiriche, consentono di dar conto di varie forme con cui si manifesta la crisi della partecipazione sociale e politica, e che quindi gettano luce a contrario sulle (difficili) condizioni del suo sviluppo. In società pluralistiche a regime democratico la crisi della partecipazione si manifesta o in forme più o meno estese di apatia, o in forme più o meno virulente di estremismo, o, ancora, in forme degradate di partecipazione, quali la partecipazione sub-culturale e la partecipazione contro-culturale. I fattori all'origine di questi tipi di risposte comportamentali sono molteplici. Qui basti ricordare i più rilevanti.
L'esclusione e l'emarginazione generano apatia e rinuncia, oppure radicalismo più o meno estremistico, a seconda del grado di atomizzazione oppure di aggregazione attorno a fratture e divisioni presenti nel corpo sociale. Manifestazioni di estremismo si danno soprattutto nei casi in cui categorie o collettività aventi interessi o tratti di cultura definiti non si vedono riconosciuti diritti civili o politici (v. Lipset, 1983). Il radicalismo si esprimerà in comportamenti anti-istituzionali o contro-culturali se l'ideologia che lo sostiene poggia sull'idea di privazione (sfruttamento, asservimento, ecc.), così da configurare un soggetto difensivo, più prigioniero di una contraddizione che attore di un conflitto. In tale situazione, la partecipazione all'associazione è soltanto apparente e si risolve di fatto in una prerogativa delle avanguardie e del gruppo dirigente.
Nelle società occidentali contemporanee le forme prevalenti di esclusione che limitano la partecipazione sono legate all'accentuarsi della divisione tra quanti sono in grado di controllare il mercato e l'innovazione tecnologica e di beneficiarne, e quanti ne restano ai margini. Quando queste forme di emarginazione si congiungono con processi di esclusione etnica e culturale la reazione, in luogo di avere i caratteri dell'apatia, assume quelli della difesa dell'identità, fino a forme più o meno violente di fondamentalismo.
L'apatia e il 'ripiegamento' nella sfera privata possono essere anche indotti da una diffusa e oppressiva presenza di autorità formali e regole burocratiche, che creano distanza tra le istituzioni e il cittadino con l'effetto di inibire ogni interesse a partecipare e la possibilità stessa di farlo. Quando poi gli apparati gerarchici sono unificati e i dispositivi burocratici sono capillari, come negli Stati totalitari, anche la sfera privata è posta sotto controllo. In simili casi l'unica alternativa all'apatia e alla mobilitazione dall'alto è costituita dalla dissidenza o dal terrorismo.
Forme di controllo più sottili e meno oppressive, ma non per questo meno insidiose e capillari, possono giungere a manifestarsi, sia pure in modo meno unitario e pianificato, anche nei paesi a regime liberaldemocratico. Ciò accade quando si consolidano forme di potere tecnocratico capaci di monopolizzare tecnologie della comunicazione che consentono di controllare e manipolare molti aspetti della vita privata e del comportamento dei singoli cittadini e di sottrarre alla visibilità e al controllo di questi le proprie procedure decisionali. Esiti possibili di questa natura sono ravvisati da un numero crescente di osservatori e ricercatori sociali: a) in forme incipienti di democrazia elettronica adottate su scala nazionale e basate su tecniche quali la consultazione diretta dei cittadini, i sondaggi telefonici e il voto elettronico; b) nella limitazione della privacy, ad esempio attraverso l'unificazione di banche dati riguardanti il comportamento di consumo, il comportamento sanitario, il comportamento finanziario, ecc.; c) in forme di individualizzazione del tempo libero che favoriscono il declino dell'impegno civico, come sembra mostrare la correlazione inversa tra questo e il tempo di esposizione ai media (v. Putnam, 1995).
Un altro fattore che limita la partecipazione politica e sociale nelle stesse sedi istituzionalmente deputate è l'invasione e l'occupazione da parte della classe politica di sfere, attività e organizzazioni tipiche della società civile. Nelle democrazie occidentali la 'partitocrazia' e la corruzione politica ne sono forme diffuse. Si tratta di un fenomeno che, provocando la mercificazione della politica e limitando l'autonomia dei soggetti della società civile, ha l'effetto di alterare dall'interno le regole della legalità e della rappresentanza democratiche, fino a produrre disaffezione e sfiducia verso le istituzioni della partecipazione. Le reazioni più probabili a tale stato di cose sono, oltre all'apatia, le risposte sub-culturali di adattamento difensivo e la tendenza alla diffusione di forme, più o meno surrettizie e manipolate, di democrazia diretta e di pratiche plebiscitarie.
La partecipazione è altresì limitata - sia come azione partecipativa, sia come prassi decisionale - dal prevalere, nel dibattito pubblico e nell'agenda politica, di temi e problemi la cui natura è, o appare, tecnica - come in molti problemi di gestione finanziaria - o internazionale - guerre, accordi commerciali, ecc. Si osserva, per contro, come le spinte verso la partecipazione sociale acquistino particolare rilievo nelle fasi in cui rivendicazioni redistributive o movimenti sociali o di opinione occupano la ribalta della scena pubblica.
(V. anche Associazione; Autogestione e cogestione; Comportamenti collettivi; Cooperazione; Democrazia).
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