Cooperazione
La cooperazione nacque in Europa nei primi decenni dell'Ottocento e si diffuse in tutto il mondo nel corso del XX secolo. Fu un prodotto dell'associazionismo ottocentesco, per lo più all'insegna di progetti di riforma globale della società. Sembra che Robert Owen (1771-1858) sia stato il primo a usare la parola cooperative, in contrapposizione a competition e a individualism: già nel 1817 aveva presentato un piano di riforma sociale attraverso i Villages of unity and mutual cooperation, nel 1821-1822 aveva instaurato la Cooperative and economical society, nel 1824 la London cooperative society. Se Owen fu il precursore, il padre della cooperazione di consumo inglese fu William King, un medico che tra il 1828 e il 1830 pubblicò a Brighton il periodico "The Cooperator". In Germania l'idea della cooperazione fu propagandata da Viktor Aimé Huber (1800-1869), professore dell'Università di Berlino, anche se con esiti modesti; in Italia tra i primi sostenitori furono Giuseppe Mazzini (1805-1872) e Francesco Viganò (1807-1891). Ma fu la Francia l'altra grande area di diffusione dell'associazionismo riformatore, con Charles Fourier (1772-1837), teorico delle colonie agricole e dei falansteri, con Saint-Simon (1760-1825), e soprattutto con il saintsimoniano dissidente Philippe Joseph Buchez (1796-1865), che nel 1831 elaborò il primo progetto di una cooperativa di produzione a Parigi, nella quale il capitale sociale doveva essere progressivamente sostituito dall'accumulazione di riserve collettive e indivisibili. Altri esponenti dell'associazionismo francese furono Étienne Cabet (1788-1856), ideatore delle colonie 'icarie', Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865) e J.-P. Beluze, che sul giornale "L'Association" (1864) teorizzò il passaggio dalla comunità associativa alla cooperazione. Fu il fourieriano Michel Derrion ad aprire a Lione, nel 1834, la prima cooperativa di consumo. Nel fervore riformatore successivo al 1848 sorsero La coopération (1868), dove svolse un ruolo importante Benoît Malon, e La réforme (1868), che, tra l'altro, perseguì l'obiettivo della costituzione di un partito di cooperatori.Negli ultimi decenni dell'Ottocento il movimento cooperativo si era consolidato definitivamente in molte regioni europee, dando vita a confederazioni nazionali generali o di categoria. Esso si riconosceva nell'Alleanza Cooperativa Internazionale (ACI), costituita a Londra nel 1895 e tuttora operante.
La vera svolta nella storia della cooperazione si ebbe il 21 dicembre 1844 con l'apertura di un piccolo spaccio in un vicolo di Rochdale, in Inghilterra, su iniziativa di 28 soci, per la maggior parte tessitori. Esso conteneva merci per un valore complessivo di 14 sterline: in prevalenza burro, zucchero, farina, avena e candele. La vendita iniziale di derrate alimentari avrebbe dovuto consentire in seguito la costruzione di alloggi, la produzione di beni di consumo, l'affittanza agricola per i soci disoccupati e infine una colonia residenziale a responsabilità solidale. Se gli statuti di Rochdale si ispiravano all'esperienza associativa di King, non meno evidente era il richiamo alle posizioni di Owen nell'idea del passaggio dall'istanza cooperativa a quella comunitaria, tramite per il nuovo mondo morale. Dei Probi Pionieri di Rochdale si creò ben presto un vero e proprio mito - prima a livello nazionale poi anche all'estero - a diffondere il quale molto contribuì George Jacob Holyoake (1817-1900), seguace di Owen, con la sua History of the Rochdale Equitable Pioneers del 1857 (1872⁵), cosicché a essi fu attribuita la paternità dell'intero movimento cooperativo a livello mondiale. Gli indubbi successi commerciali, l'impegno a favore dell'istruzione e la grande scrupolosità nell'esercizio delle funzioni finirono per conferire al mito dei Pionieri anche connotazioni etiche. Entro il 1870 il movimento cooperativo aveva costituito così la sua mitologia, che in seguito si consolidò ulteriormente con la diffusione della teoria della sovranità del consumatore e quindi della presunta superiorità della cooperazione di consumo rispetto a quella in altri settori. Ai principî di Rochdale si richiamò costantemente l'Alleanza Cooperativa Internazionale, con successive integrazioni, ma senza cesure fondamentali (congresso di Vienna, 1930; di Londra, 1934; di Vienna, 1966). Ciò che distingueva l'iniziativa dei Pionieri di Rochdale da altre analoghe era il principio della divisione degli utili che - detratta una percentuale del 2,5% per gli azionisti - assegnava dividendi in proporzione agli acquisti fatti, a differenza della prassi seguita dal London e dal Civil Service, basata essenzialmente sui prezzi ridotti e sulla limitazione della vendita ai soci. Il modello di Rochdale (del ristorno) si proponeva di stimolare la fedeltà dei soci. Il secondo principio consisteva nella vendita in contanti, di contro alla prassi diffusa della vendita a credito o della distribuzione degli utili secondo le quote azionarie. Il terzo principio prescriveva l'adesione volontaria, senza discriminazioni razziali, religiose o politiche ('porta aperta'). Il quarto principio riaffermava il carattere democratico della cooperativa, nella quale ogni socio - uomo o donna - contava in quanto persona e non in rapporto al capitale sottoscritto, e aveva pertanto diritto elettorale passivo e attivo, eleggeva e revocava gli organi sociali, approvava i bilanci ('una testa un voto'). Il quinto principio, infine, riguardava l'educazione cooperativa, che dall'impegno iniziale per l'istruzione dei soci analfabeti con la creazione di sale di lettura e di biblioteche si era tradotta in una forte sollecitazione solidaristica fra le cooperative all'insegna del motto "Uniti siamo tutto".Il movimento cooperativo di consumo si consolidò in Inghilterra intorno al 1860, anche in seguito alla prima legge sulla cooperazione del 1852, che limitava la responsabilità dei soci alle loro azioni, attribuiva personalità giuridica alle società e limitava il numero delle azioni, prima fino a 100 sterline, poi fino a 500.
Oltre ai seguaci di Owen, un ruolo importante ricoprirono tra il 1850 e il 1880 anche i socialisti cristiani e in particolare Thomas Hughes e Edward Vansittart Neale (1810-1892), sostenitori di un passaggio graduale e legalitario al socialismo. Il consolidamento della cooperazione di consumo avvenne con la costituzione di organismi consortili di approvvigionamento all'ingrosso, che finalmente permise l'accesso alle economie di scala: nel 1863 fu costituita la Cooperative Wholesale Society (CWS), nel 1868 la Scottish Cooperative Wholesale Society (SCWS) e nel 1869 la Cooperative union, con funzioni di coordinamento e di rappresentanza nazionale. Dal 1873 la CWS e la SCWS iniziarono a produrre e a trasformare beni nelle loro fabbriche, diventando ben presto le più grandi cooperative nel settore. Nel 1872 la CWS fondò a Manchester la Cooperative Bank, che aprì le prime agenzie tra il 1920 e il 1922, e in seguito si ingrandì fino a trasformarsi nel 1971 in una società anonima, le cui azioni di maggioranza erano detenute dalla CWS. Quest'ultima aveva assunto il controllo del settore assicurativo, in particolare della Cooperative insurance society fondata nel 1867, che nel 1983 vantava di aver stipulato ben 14 milioni di polizze. Negli anni settanta del secolo scorso si definivano così i rapporti di forza all'interno del movimento cooperativo inglese, che finì per identificarsi essenzialmente col commercio al dettaglio. Già forte nel 1881 di oltre mille società e di mezzo milione di soci, il movimento si consolidò ulteriormente tra le due guerre, specialmente nelle aree industriali e nei grandi centri urbani. Nel 1917 esso dette vita al Partito Cooperativo, che dal 1927 presentò alle elezioni candidati comuni con il Labour Party. In questo contesto si affermò l'ideologia della sovranità del consumatore, che traeva alimento dalle teorie di Alfred Marshall, Stanley Jevons e John Stuart Mill, e più in generale dei seguaci della dottrina neoclassica dell'utilità. Ne fu una convinta sostenitrice la socialista Beatrice Potter, discepola di J.T.W. Mitchell, per la quale il consumatore, attraverso il sistema democratico e volontaristico della cooperazione, avrebbe finito per esercitare il controllo sulla produzione combattendo il profitto capitalistico. Si diffuse allora il concetto di cooperative commonwealth: questa espressione, usata per la prima volta nel 1886 dal marxista americano Laurence Gronlund e quindi ripresa dal sindacalista irlandese James Connolly, finì per indicare uno stato cooperativo fondato su un'economia integrata intorno al magazzino all'ingrosso. Nel 1920 Beatrice Potter delineò un socialist commonwealth, basato sul ruolo determinante della cooperazione, nonché sulle autonomie locali e sulle aziende pubbliche, che si proponeva l'obiettivo del sempre più largo accesso dei cittadini al possesso della casa, al risparmio e ai beni di consumo.
Negli anni del secondo dopoguerra l'erosione delle basi economiche della cooperazione di distribuzione si combinò con un periodo di trasformazioni sociali che destabilizzarono gli antichi concetti di classe e di comunità. Già alla metà degli anni cinquanta il problema non era più quello di pervenire al monopolio cooperativo, bensì di preservare lo spazio tradizionale dalla più agguerrita concorrenza privata. Negli ultimi anni è stato avviato un processo di razionalizzazione e di concentrazione, che, tra il 1972 e il 1981, ad esempio, ha ridotto il numero dei dipendenti delle società di vendita al dettaglio aderenti alla Cooperative union da 164.000 a 97.148. Nel 1982 la CWS denunciava un fatturato tutt'altro che modesto di 2.138 milioni di sterline, e la Cooperative union di oltre 4.000 milioni di sterline, con una quota del mercato pari all'8,4% per la vendita dei prodotti alimentari e del 2,2% per i generi non alimentari. I principî di Rochdale avevano subito però modifiche sempre più profonde, tanto che spesso il ristorno era stato sostituito dalla distribuzione di timbres-benefices o da ristorni diretti ai clienti. Un sintomo eloquente dei tempi mutati era la rinuncia da parte di alcune società alla denominazione stessa di cooperative per il timore di una cattiva pubblicità: fu il caso della Cooperative building society, divenuta nel 1970 Nationwide building society.
Singolari sintonie si registrarono tra il cooperative commonwealth e la république coopérative di cui fu assertore in Francia Charles Gide (1847-1932). Questi espresse le sue tesi in un'intensa attività pubblicistica, che gli conferì grande notorietà, all'estero non meno che in Francia. Della raccolta di conferenze intitolata La coopération (Paris 1901) V. Totomiantz ebbe a dire che si trattava del "libro di testo dei cooperatori di tutto il mondo". Gide, professore all'Università di Parigi, sosteneva la trasformazione pacifica del regime economico con il passaggio dalla supremazia dei produttori a quella dei consumatori in tre tappe fondamentali: l'unione delle società esistenti e la costituzione di magazzini all'ingrosso, la produzione diretta di quanto servisse ai soci e l'acquisto di terre atte a produrre i beni di consumo. Si sarebbe così costituita una république coopérative, cioè "un regime cooperativo integrale" articolato in una moltitudine di associazioni e teso a creare "la democrazia nell'ordine economico" sopprimendo il profitto, e quindi ad avvicinarsi al socialismo non attraverso espropriazioni, bensì in regime di concorrenza.
Nonostante sporadiche iniziative precedenti, è largamente condivisa la tesi dello storico francese J. Gaumont che fa risalire le origini della cooperazione di consumo in Francia al 1885, quando C. Gide, A. Fabres ed E. De Bouve fondarono la scuola di Nîmes, politicamente orientata in senso neutrale e ispirata ai principî di Rochdale. Nel 1886 Gide e i suoi amici organizzarono a Parigi un congresso cooperativo, in occasione del quale fu costituita l'Union coopérative, mentre allo stesso Gide fu affidata, a Nîmes, la direzione della rivista mensile "Émancipation", dedicata espressamente alla cooperazione. Fu tentata allora anche la costituzione di un magazzino all'ingrosso, che fallì nel 1893, e solo alcuni anni più tardi tale iniziativa fu ripresa con maggiore successo. Il neutralismo dell'Union coopérative indusse le cooperative socialiste, forti soprattutto nella regione parigina, a dar vita nel 1895 alla Bourse des sociétés coopératives ouvrières, che tra l'altro predicava la devoluzione di parte degli utili alla propaganda socialista, anche se solo al congresso di Toulouse (1910) la cooperazione fu pienamente accettata dalla SFIO (Section Française de l'Internationale Ouvrière). Nella polemica tra neutralisti e socialisti, però, la maggior parte delle cooperative rimase autonoma e isolata, finché nuovo impulso derivò dalla fusione, nel 1912, dell'Union e della Bourse nella Fédération nationale des coopératives de consommation. Nel 1914 esistevano 3.250 cooperative di consumo con 800.000 soci e 300 milioni di franchi francesi di fatturato; nel 1921 le società erano salite a 4.000, con un milione e mezzo di soci e un miliardo e mezzo di vendite: circa la metà di queste società aderiva alla Fédération, collegata a sua volta in forma di direzione mista (a differenza della inglese Cooperative union) con una società all'ingrosso, proprietaria di diverse fabbriche e calzaturifici e forte del sostegno di una banca cooperativa. Nel 1917 fu adottata una legislazione specifica che faceva delle cooperative di consumo delle società a capitale variabile, in base ai principî di Rochdale. La lunga polemica sul neutralismo si era chiusa con la sostanziale vittoria di Gide, che fondò nel 1921 la "Revue des études coopératives". Furono epigoni di Gide il socialista Ernest Poisson (Le régime coopératif, Paris 1913; La république coopérative, Paris 1926) e Bernard Lavergne, teorico della 'cooperativizzazione dello Stato' (L'ordre coopératif, Paris 1926; La révolution coopérative ou le socialisme de l'Occident, Paris 1949). Sostenitore dell'unità del movimento cooperativo nelle due componenti gidiana e jauressiana e della sua proiezione a livello internazionale, anche a sostegno della pace, fu il socialista Albert Thomas, che fu direttore del Dipartimento cooperativo del Bureau International du Travail, sorto a Ginevra nel dopoguerra. Assai più critico nei confronti di Gide fu il successore di Thomas al Bureau, Georges Fauquet (Le secteur coopératif, Paris 1935), al quale si deve la teorizzazione della cooperazione come 'terzo settore', a fianco di quello pubblico e di quello capitalistico, un concetto che ebbe in seguito grande fortuna. Fauquet, che guardava soprattutto ai risultati conseguiti dalla cooperazione di consumo svedese negli anni venti, respingeva l'utopismo gidiano della cooperazione integrale e della sua 'separatezza', e presentava il 'terzo settore' come parte integrante di un'economia mista. Nel secondo dopoguerra anche in Francia si verificava un progressivo ripiegamento della cooperazione di consumo, che perdeva la sua preminenza. Nel 1983 la Fédération nationale des coopératives de consommation vantava 224 società aderenti, con due milioni di soci e un volume d'affari di 29,6 miliardi di franchi, per un'incidenza del 4% sul mercato alimentare e dello 0,7% su quello non alimentare. Un certo sviluppo avevano avuto invece a partire dagli anni cinquanta le cooperative di abitazione, e ancor più le cooperative di commercianti, nate per rispondere alla minaccia costituita dai grandi magazzini, con un'incidenza del 5,5% sul commercio al dettaglio.
Un'area di intenso sviluppo cooperativo di consumo, all'insegna di un'accentuata politicizzazione e in stretta correlazione con il movimento operaio, fu quella belga. Qui, alla fine del secolo scorso, prese corpo il modello socialista della maison du peuple, che ebbe emuli in tutta Europa. I primi tentativi furono avviati intorno al 1873, incoraggiati dalla prima legge sulle cooperative che ne faceva una nuova forma commerciale, caratterizzata dalla variabilità del numero dei soci e del capitale, nonché dalla impossibilità di cessione delle parti sociali a terzi. La svolta fu segnata nel 1880 dalla fondazione del Vooruit a Gand, che si separò dalla preesistente società politicamente neutra De Vrije Bakkers (1876). L'anno seguente fu la volta della Maison du peuple di Bruxelles; quindi di Le progrès di Jolimont. Nel 1898 esistevano già 394 cooperative di consumo, con circa 250.000 soci e con oltre 72 milioni di franchi oro di fatturato. Di queste la metà erano socialiste e prevalentemente diffuse nei bacini industriali valloni e nelle grandi città, e nel 1900 dettero vita alla Fédération des societés coopératives. I cattolici promossero cooperative a Charleroi (1891), a Gand (1896), a Liegi e nel Centre. La cooperativa di consumo belga nacque come forno, poi diventò anche drogheria, e quindi ammise la vendita di tessuti. Applicava il metodo del ristorno, ma con due sistemi diversi: quello del prezzo basso e del modesto ristorno (da due a tre centesimi per kg di pane) a Bruxelles e nelle regioni industriali come il Borinage; quello del prezzo alto, talvolta perfino superiore a quello praticato dal commercio privato, ma con un forte ristorno (di solito di 9 centesimi), nel Vooruit di Gand. Quest'ultima prassi rappresentava un vero e proprio risparmio forzato per il cliente. Tuttavia la rete cooperativa di consumo belga rimase decentrata e dispersa, tanto che non costituì centrali di acquisto o organismi regionali, se si eccettua l'Union coopérative du Pays de Liège, creata nel 1918. Un ulteriore fattore di debolezza era rappresentato dalla scarsità del capitale sociale in relazione al volume di affari. L'incremento dell'attività e soprattutto la tendenza a trasformare lo spaccio di consumo in una maison du peuple - cioè in un centro di aggregazione politica, sociale ed economica al servizio del Partito Operaio - indussero le cooperative a perseguire una politica di investimenti immobiliari: il solo palazzo Horta, sede prestigiosa della Maison du peuple di Bruxelles (abbattuto nel 1964), costò 1.200.000 franchi. Il Vooruit di Gand allargò l'attività al settore produttivo - fondando poi, sotto la dirigenza di Édouard Anseele, un insieme di società anonime (flotta di pesca a Ostenda, officina tessile a Gand) - e dette vita alla Banque Belge du Travail, società anonima. La grande stagione delle maisons du peuple cominciò a tramontare già negli anni trenta, quando la cooperazione cessò di essere l'ossatura fondamentale del Partito Operaio Belga: la chiusura della Banque Belge du Travail nel 1934 fu emblematica. Nel 1962 la cooperazione rappresentava ancora il 28% del commercio integrato, ma nel 1978 era scesa al 6%. Oggi la cooperazione socialista ha abbandonato il settore del consumo, mantenendo uno spazio significativo in quello delle farmacie, dove le prime iniziative risalgono al 1881. Negli anni cinquanta comparvero anche farmacie cooperative di ispirazione cattolica. Nel 1983 tale settore vantava circa 800.000 soci, 2 milioni di utenti e un volume di affari di 8 miliardi di franchi, pari al 20% del mercato nazionale.
In Danimarca la prima società cooperativa moderna fu uno spaccio di consumo creato nel 1866 dai lavoratori di Thisted, una piccola città dello Jütland. In accordo con i sindacati, nei successivi anni ottanta furono promosse panetterie sociali, ma solo agli inizi del secolo, per iniziativa di F. Jeppesen Borgbjerg, si diffuse la cooperativa di consumo operaia basata sui principî di Rochdale. Nel 1896 fu creata una centrale di acquisto in comune, che ben presto iniziò anche un'attività produttiva e di erogazione di servizi. Nel 1922 le cooperative si associarono nel Det kooperative fallesforbund (DKF), formalmente neutrale, in realtà vicino ai socialdemocratici. Tipico della Danimarca fu lo sviluppo delle cooperative di consumo in ambiente rurale, incentivato dalla legislazione che vietava la creazione di magazzini ordinari nelle campagne a meno di una certa distanza dai mercati cittadini, norma che non si applicava alle cooperative perché non considerate tali. Il trend di sviluppo della cooperazione danese fu costante: tra le due guerre il DKF giunse ad avere 1.806 associate, mentre il magazzino centrale estese l'attività al settore assicurativo e bancario, con un capitale azionario di 17 milioni di corone e depositi per 160 milioni. Nel secondo dopoguerra, dopo l'acquisizione di alcune catene di supermercati nel 1973, l'associazione di cooperative andò orientandosi verso la riduzione del numero dei magazzini e la creazione di unità più grandi, tanto che nel 1982 la centrale di acquisto in comune era diventata la maggiore società di vendita al dettaglio e all'ingrosso dei beni di consumo correnti (26% del mercato), gestendo il 55% di tutti i supermercati. Nello stesso periodo si calcolava che il 37% delle famiglie danesi era associato a una cooperativa di consumo, mentre il 25% della clientela abituale della stessa non lo era. È da osservare infine che più di due terzi delle associate al DKF nel 1982 erano cooperative di abitazione, nei cui alloggi risiedeva circa un quinto dell'intera popolazione.
A grande densità cooperativa sono anche la Finlandia e la Svezia, dove la cooperazione di consumo può considerarsi oggi tra le imprese più floride del paese. In Svezia la prima iniziativa risale al 1850, quando a Örsundsbro fu creata la società Lugunda e Hadunga. Il salto di qualità si ebbe comunque nel 1899, quando 30 cooperative al dettaglio dettero vita alla Kooperative förbundet, come organismo di rappresentanza. Essa diventò in seguito una cooperativa di acquisto all'ingrosso, e nel 1905 fu registrata come 'società economica' ai sensi della legge del 1895. Negli anni venti, con la creazione di imprese industriali (margarina, lampadine elettriche, soprascarpe di gomma, ecc.), la cooperazione di consumo rafforzava le proprie posizioni sul mercato. A seguito dello statuto del 1948, la Kooperative förbundet consolidava il proprio ruolo di leader all'interno del movimento: organizzata per federazioni locali, a livello di provincia (Län), con la funzione della revisione dei conti, essa associava le cooperative di consumo, le federazioni a scopo speciale e le cooperative di assicurazione, con l'obbligo della sottoscrizione di un certo numero di quote di ristorno spettanti alle singole cooperative (främmande insatsers) o della revisione periodica. Per l'assenza di vere e proprie banche cooperative, la Kooperative förbundet assunse anche il ruolo di istituto di credito a favore delle società.In Olanda, invece, il processo di concentrazione delle imprese ebbe esito assai incerto. Le prime cooperative a base operaia apparvero intorno al 1860, ma ebbero vita breve. La prima società vitale, Eigen hulp, fu fondata dagli impiegati dell'Aia. Successivamente ne sorsero altre per iniziativa dei partiti e dei sindacati, prima a base locale, poi riunite in organizzazioni centrali (cattolica, protestante) e nella società all'ingrosso Handelskamer. Dopo la seconda guerra mondiale esse dettero vita alla Coop Nederland, pur mantenendo una notevole autonomia. Ancora negli anni cinquanta-sessanta il settore cooperativo, forte di 78 supermercati e 650 tra minimercati e drogherie, era competitivo, con una quota del 7% del mercato, ma verso la metà degli anni sessanta, di fronte alla concorrenza privata, fusioni e riscatti riducevano le cooperative a 18, su basi regionali, mentre invano la Coop Nederland tentava la creazione di un'unica società nazionale. Nel 1970, con l'adesione di 10 delle 18 cooperative regionali, il tentativo fu ripetuto con la creazione della Coop UA, ben presto però fallita. Nel 1973 tanto la Coop UA quanto la Coop Nederland furono costrette a cedere le loro attività ai privati.
In Svizzera la cooperazione di consumo di tipo rochdaliano ottenne risultati tra i più brillanti e duraturi. Nel 1851 fu fondata la cooperativa di consumo di Zurigo; nel 1864 fu la volta della cooperativa di Schwanden, che introdusse il principio del ristorno e della vendita a prezzi correnti. Nel 1865 fu fondato l'Allgemeiner Konsumverein di Basilea (AKV), che sarebbe diventata una delle più grandi imprese del settore in Europa sulla base dei principî di Rochdale, ma con la variante della restituzione agli azionisti del prezzo delle loro quote. Per iniziativa dell'AKV nel 1890 fu promosso il Verband schweizerischer Konsumvereine, che nel primo dopoguerra raggiunse dimensioni davvero ragguardevoli, con 505 società aderenti, forti di 369.074 soci e vendite per 337 milioni di franchi (dati del 1921). Caratteristica originale del movimento cooperativo di consumo svizzero fu la diffusione in ambiente rurale, specialmente nel cantone di Zurigo e nel distretto di Winterthur, prima per l'acquisto comune, poi per la vendita di oggetti casalinghi. Comunque, se circa un terzo della popolazione nel primo dopoguerra aderiva a cooperative di consumo, nelle grandi città tale percentuale giungeva al 50%. L'Unione di Basilea esercitava una notevole opera di educazione cooperativa, pubblicando ben sei riviste e giornali in lingua francese, tedesca e italiana. Essa fondò a Freidorf una 'colonia cooperativa', dove furono impiegate 600 persone sotto la direzione di K. Munding. Oltre a essere una grandiosa organizzazione culturale, fu anche una efficiente impresa economica, che gestiva un calzaturificio, una fabbrica di mobili, terreni propri, e che avviò altresì forme di compartecipazione in altre imprese di tipo cooperativo o privato, come nella ditta Bell, che commerciava prodotti a base di carne e conserve in tutto il paese. La costituzione nel 1927 della Banca dei Sindacati e delle Cooperative, in accordo con il sindacato, sembrò coronare il successo di un movimento in costante ascesa, che riuscì a mantenere le proprie posizioni sul mercato anche nel secondo dopoguerra, assumendo un ruolo leader nella distribuzione alimentare uguagliato in Europa solo in Finlandia.
In Germania le cooperative di consumo furono inizialmente di stampo borghese, in gran parte affiliate all'Allgemeiner Verband di H. Schulze. Il principio stesso della responsabilità solidale prescritto dalla legge del 1867 scoraggiava la promozione di cooperative di nullatenenti, cosicché, soprattutto nella Germania meridionale, le prime cooperative rinunciarono a impiantare un proprio negozio e si trasformarono in società per la vendita di buoni annonari. In pratica agivano come mediatori tra i soci e i bottegai, poiché il socio acquistava il buono presso la cooperativa e con questo si recava a fare gli acquisti presso i rivenditori privati. A partire dagli anni intorno al 1880 la cooperazione assunse connotati più proletari. Grande influenza al riguardo ebbe la nuova legge sulle cooperative del 1889, promossa, dopo la morte di Schulze, dal gruppo parlamentare conservatore. Questa limitava la responsabilità dei soci a una somma massima prestabilita e, in evidente concessione ai commercianti, vietava alle cooperative la vendita ai non soci. Molte cooperative modificarono allora la propria natura giuridica, e in due anni il numero delle cooperative di consumo a responsabilità limitata raddoppiò. La stessa rinuncia alla vendita ai non soci, concepita a fini restrittivi, finì per incrementare il numero dei soci - e quindi il capitale disponibile - poiché il socio, che fino allora aveva partecipato in veste passiva come semplice cliente, si vide costretto ad acquistare una quota sociale. Se in passato con il sistema dei buoni le cooperative pagavano un dividendo sui depositi, negli anni tra il 1880 e il 1890 si affermò il principio del rimborso, che avvantaggiava le famiglie numerose, promuoveva il giro d'affari e incrementava la base del capitale. Sebbene la merce fosse venduta a prezzi di mercato, la consolidata disponibilità di capitali, la conseguente maggiore capacità di magazzinaggio, e quindi la possibilità di sconti più vantaggiosi da parte dei grossisti, permisero di seguire un'attiva politica dei prezzi. Testimonianza del nuovo impulso registrato dalle cooperative fu la fondazione ad Amburgo nel 1894 della Großeinkaufsgesellschaft deutscher Konsumvereine (GEG) che nel 1910 e nel 1914 aprì le prime fabbriche di sapone e di fiammiferi ed entrò ben presto in rapporti di affari con 12 cooperative di produzione. Sebbene nel 1900 il fatturato delle cooperative rappresentasse solo l'1% di quello complessivo del commercio al dettaglio, in città come Stoccarda, Monaco, Magdeburgo, Breslavia, Görlitz, Amburgo la cooperazione di consumo era diventata una presenza significativa sul mercato alimentare: l'annuale rimborso medio del 6-7%, e in taluni casi perfino del 10%, costituiva per molte famiglie operaie una notevole integrazione del bilancio domestico. Non a caso in quegli anni si palesò un movimento di protesta dei commercianti al minuto contro le cooperative, il quale, dopo il 1900, riuscì a imporre imposte più gravose a carico delle associazioni e a ottenere da alcuni governi regionali il divieto di adesione alle cooperative per i funzionari e gli impiegati pubblici. Ciò era dettato anche dal progressivo avvicinamento di molte cooperative di consumo alle organizzazioni socialiste. Per la verità il Partito Socialdemocratico Tedesco (SPD) superò molto lentamente l'iniziale diffidenza verso le cooperative, tollerandone a malapena la fondazione dopo il 1892, e soltanto nel 1910 avviando un decisivo cambiamento di prospettiva con l'anteporre il settore del consumo a quello della produzione. La collaborazione con la SPD, ma ancor più i contrasti emergenti in merito all'acquisto all'ingrosso attraverso la GEG, alla produzione in proprio e alla pratica del rimborso, determinarono una frattura irrimediabile tra le associazioni aderenti all'Allgemeiner Verband e gran parte delle cooperative di consumo, composte fino all'80% di operai, che nel 1903 costituirono il Zentralverband deutscher Konsumvereine. Questo ebbe un rapido sviluppo, diventando il 'terzo pilastro' dell'edificio socialista, accanto al partito e al sindacato. Agli inizi del 1926 il Zentralverband controllava 1.132 cooperative, con 3,4 milioni di soci. In concorrenza con i socialisti, i sindacati cristiani promossero altre cooperative, specialmente nella Renania-Vestfalia. Nel 1908 fu costituito il Verband westdeutscher Konsumvereine, con sede a Mülheim, ma in seguito operante su tutto il territorio nazionale, che nel 1913 fu trasformato in Reichsverband deutscher Konsumvereine. Nel 1912 fu creata la Großeinkaufszentrale deutscher Konsumvereine (GEZ), che nel 1923 divenne GEPAG, Großeinkaufs- und Produktionsaktiengesellschaft deutscher Konsumvereine. Con la premessa che il movimento cooperativo non doveva contrapporsi al capitale, ma piuttosto ne doveva circoscrivere i profitti "nei limiti economicamente giusti e tollerabili per i consumatori", il Reichsverband rivendicava cogestione e comproprietà per i lavoratori e controllo del commercio di commissione. Nel 1926 il Reichsverband vantava 390 associate. Il Zentralverband e il Reichsverband furono 'allineati' dopo l'avvento del nazismo, nel 1933, e riuniti nel Reichsbund der deutschen Verbrauchergenossenschaften. Così la loro autonomia veniva definitivamente cancellata. Nel 1941 furono chiuse anche le rimanenti cooperative di consumo e i loro uffici centrali: il loro patrimonio passò al Gemeinschaftswerk der deutschen Arbeitsfront.
La ricostituzione delle cooperative di consumo dopo il 1945 ebbe esiti positivi, ma verso la metà degli anni cinquanta il loro fatturato, pari al 10% del commercio alimentare al dettaglio, diventò stazionario; all'inizio degli anni sessanta calò non solo il numero delle imprese, ma anche quello dei soci, sia per la crescente integrazione sociale della classe operaia, sia per l'emendamento del paragrafo 5 della legge sullo sconto del 1954, emanata a difesa del ceto medio (la quale vietava ai soci sconti maggiori di quelli concessi ai non soci, e comunque complessivamente superiori al 3%), sia per la crescente concorrenza delle catene private di negozi, dei self-services e dei supermercati. Agli inizi degli anni sessanta le cooperative avevano sostituito l'obiettivo di trasformare la società con la pretesa di tutelare tutti i consumatori, perseguendo finalità rigidamente aziendali. Mentre la cooperazione otteneva nuovi consensi tra i lavoratori autonomi nei settori dei servizi, del commercio e dell'agricoltura, negli anni settanta la metà delle cooperative affiliate al Revisionsverband si convertì in società per azioni. Analoga sorte negativa conobbe anche l'impresa più significativa di un altro settore di pubblica utilità, la Neue Heimat, consorzio edilizio collettivo.In Austria il movimento cooperativo fu fortemente influenzato da quello tedesco. Le prime cooperative sorsero nel Vormärz (1815-1848), come reazione all'aumento del costo dei generi alimentari. La creazione di società come la Cassa commerciale di mutuo soccorso di Westböhmen-Asch (1847) o l'Associazione di generi alimentari e di risparmio di Praga (1847) obbediva agli intenti caritatevoli e filantropici dei ceti benestanti. Il vero e proprio movimento cooperativo fra lavoratori sorge con la costituzione, nel 1856, della Società di mutuo soccorso dei lavoratori di fabbrica di Teesdorf, che, con i risparmi dei soci, riuscì a passare dall'acquisto all'ingrosso dei generi alimentari alla costruzione di un deposito merci (1866) e di una propria sede con negozio annesso (1873). A partire dal 1865 circa anche in Austria si registrò un intenso movimento, che nel 1873 contava già 470 società. Nel 1873 fu approvata la legge sulle cooperative, largamente ispirata alle tesi di Schulze, che vietava la vendita ai non soci. A questo periodo risale la fondazione dello Erster niederösterreichischer Arbeiterkonsumverein (1864), la prima cooperativa operaia della Bassa Austria, e della Cooperativa operaia di consumo e risparmio di Fünfhaus a Vienna (1865). È del 1872 la costituzione di una prima unione nazionale, comprendente anche le cooperative di produzione e di mutuo credito, da cui però nel 1898 si staccò l'Unione operaia delle cooperative di consumo. Anche in questo caso ebbe notevole importanza il progressivo cambiamento di atteggiamento da parte dei socialdemocratici, che dalla diffidenza iniziale passarono ad ammettere l'importanza dell'unione cooperativa come "anello della catena delle organizzazioni operaie" (congresso di Brno, 1899), fino alla sua consacrazione ufficiale come 'terza' colonna del movimento operaio nel 1909. In questo contesto fu importante la fondazione agli inizi del secolo della cooperativa di consumo Vorwärts nel quartiere viennese di Favoriten, attraverso la fusione di preesistenti piccole società caldeggiata dal Partito Socialdemocratico. Sull'esempio del Vooruit di Gand, la Vorwärts inaugurò il più grande mulino del paese a Schwechat e una panetteria, che distribuiva lo Hammerbrot. Con l'emblema della panetteria del Partito - il martello rosso con la corona di spighe rossa - il pane Hammerbrot, dopo sei mesi, era disponibile in quasi 1.000 punti di vendita, compresi circa 650 commercianti privati. Tra le due guerre la cooperazione di consumo austriaca si sviluppò ulteriormente e, a differenza di quella tedesca, riuscì a mantenere le proprie posizioni anche nel secondo dopoguerra.
Dal 1956 la curva dei consumatori associati nell'Alleanza Cooperativa Internazionale tende a diminuire. In Europa la cooperazione di consumo, se ha retto bene in Austria, in Svizzera, nei Paesi Scandinavi e anche in Italia, ha incontrato crescenti difficoltà in Inghilterra e in Francia ed è addirittura crollata in Olanda, in Belgio e in Germania. La tendenza verso una maggiore complessità della cooperazione ha definitivamente fatto tramontare la cosiddetta centralità del settore del consumo. È superata altresì la visione di un commonwealth cooperativo su scala generale, e se ne ammette piuttosto una residua validità solo su microscala, a livello comunitario e nell'ambito di strutture polifunzionali. Nel secolo scorso le cooperative di consumo si erano conquistata la fedeltà dei soci dando un nuovo indirizzo ai profitti e pagando i ristorni, mentre il capitale occorrente era accumulato con il reinvestimento delle eccedenze. Le cooperative svolsero un ruolo innovatore collegando produzione e consumo (pane, vino, birra), creando i primi general stores nei villaggi, dando vita a reti regionali integrate e poi a società a livello nazionale. Furono create così le strutture per gli acquisti all'ingrosso, mentre le cooperative al dettaglio allargavano le basi per una vasta gamma di servizi cooperativi, perfino nel settore assicurativo e bancario. In seguito si modificò la clientela: dalla centralità operaia si passò a una clientela assai più diversificata. Di pari passo si indeboliva uno dei pilastri del settore, e cioè l'acquisto giornaliero dei beni di prima necessità. Anche in seguito alla crescente integrazione sociale della classe operaia nell'Occidente, il movimento cooperativo perse una caratterizzazione specifica e assomigliò sempre più a un qualsiasi operatore commerciale. La tradizionale fonte dei capitali, il risparmio dei soci, andò prosciugandosi, tantoché in molti casi si accentuò la dipendenza dai fondi pensione degli impiegati per il reperimento del capitale circolante. Alla fine degli anni cinquanta la cooperazione di consumo si inserì nella corrente consumistica proveniente dagli Stati Uniti, nel tentativo di attribuirsi una nuova, più attraente colorazione ideologica che si concretizzò nell'obiettivo dell'educazione e della protezione del consumatore. Di fronte all'aggressività della concorrenza privata, il settore cooperativo denunciò spesso i limiti della scarsa attrattiva delle condizioni di adesione e della routine cristallizzata della gestione. Si ricorse altresì a fusioni che, se consentirono una maggiore razionalizzazione, resero però anche sempre più difficile la partecipazione dei soci.
Il padre della cooperazione artigiana e di credito in Germania e in Europa è considerato Hermann Schulze-Delitzsch (1808-1883), giudice di orientamento liberale, poi deputato del partito progressista. Nel 1849 egli aveva fondato a Delitzsch, sua cittadina natale, le prime due cooperative tra falegnami e calzolai per l'acquisto del materiale grezzo, sulla base del principio della responsabilità illimitata. Nel 1853 Schulze pubblicò il 'libro dell'associazione', la prima guida pratica per tutte le forme cooperative, che ebbe un successo notevole anche all'estero. L'anno successivo fondò il primo organo di stampa sulla cooperazione in Germania, "Blätter fur Genossenschaftswesen". Nel 1864 fondò l'Allgemeiner Verband der auf Selbsthilfe beruhenden deutschen Erwerbs- und Wirtschaftsgenossenschaften, che diresse fino alla morte. Fu proprio Schulze a influenzare la legislazione cooperativa nel 1867. Egli rivolgeva la propria attenzione soprattutto agli artigiani e ai piccoli esercenti borghesi, anche se riteneva che proprio la partecipazione di tutte le classi e di tutte le professioni avrebbe permesso, a un tempo, la pace sociale e la solidità economica delle imprese, diversificandone i rischi. A tale scopo Schulze sosteneva l'opportunità dell'espansione dell'attività e della prassi di quote non troppo basse (un'azione delle banche popolari di Schulze si aggirava inizialmente intorno ai 100 marchi), per incentivare il risparmio e per allontanare i nullatenenti. Le cooperative, sotto forma di 'società a comunione dei beni per fini commerciali', avrebbero dovuto corrispondere dividendi in rapporto alle quote sociali. A garanzia dei soci, e a copertura dei rischi della responsabilità illimitata, Schulze sosteneva l'opportunità di costituire un capitale di rischio, che in caso di scioglimento della società sarebbe stato ripartito tra i soci, mentre, in polemica con Ferdinand Lassalle (1825-1864), respingeva il sostegno da parte dello Stato. Fedele al principio dell'organizzazione economica decentrata, Schulze si oppose a qualsiasi tentativo di formare una cassa centrale.
Contro l'esasperata ideologia dell'autotutela e contro il rifiuto dell'aiuto statale divulgati dall'Allgemeiner Verband, operò verso la fine del secolo Karl Korthaus (1859-1933). Questi riteneva che le rivendicazioni di Schulze sulla responsabilità illimitata e sulla formazione di capitale proprio danneggiassero anzitutto quei piccoli esercenti e artigiani cui egli si rivolgeva, e tanto più dopo l'approvazione della nuova legge sulle cooperative, del 1889, che introduceva la responsabilità solamente limitata e consentiva l'appoggio della nuova Preußische Zentralgenossenschaftskasse. Questo istituto, fondato nel 1895 con contributi finanziari statali e dal 1932 operante su tutto il territorio nazionale come Deutsche Zentralgenossenschaftskasse, svolse un ruolo assai importante nella diffusione del cooperativismo in Germania. Korthaus ebbe successo nella costituzione di cooperative fra artigiani, riunite nel 1901 su basi decentrate nell'Hauptverband deutscher gewerblicher Genossenschaften, da lui diretto fino al 1920. Dopo che anche l'Allgemeiner Verband rinunciò alla responsabilità illimitata dei soci, le due confederazioni, anche in conseguenza della guerra e dell'inflazione, si unificarono nel 1920 nel Deutscher Genossenschaftsverband: dall'Allgemeiner Verband furono trasferite 946 cooperative di credito e 165 di consumo, dall'Hauptverband 1.784 di consumo e 459 di credito, poi denominate Volksbanken. Al gennaio 1926 vi aderivano 3.506 società. Nel 1933 i nazisti operarono l' 'allineamento' prima delle cooperative commerciali, poi di quelle agrarie, togliendo loro qualsiasi indipendenza.
Il modello di Schulze si diffuse in tutta Europa. A esso si ispirarono le banche popolari di Luigi Luzzatti in Italia, le prime associazioni di mutuo credito promosse a Klagenfurt, in Austria, nel 1891 e le banche popolari belghe fondate da A. Dandrimont e da L. Micha. Tale modello trovò terreno fertile anche in Francia, dietro l'incentivo della legge del 1917: nel 1983 le 38 banche regionali e la banca nazionale CASDEN-BP vantavano oltre 1,2 milioni di soci e un bilancio consolidato di 170 miliardi di franchi.
La cooperativa di tipo Raiffeisen è quella che ha trovato l'applicazione più ampia e che ha conseguito i risultati più duraturi, specialmente nelle campagne. Friedrich Wilhelm Raiffeisen (1818-1888), borgomastro di diverse cittadine della Renania, attinse da Schulze l'idea della cooperazione di credito e l'adattò all'ambiente rurale e al mutualismo di ispirazione cristiana, inizialmente per combattere lo strozzinaggio. Dopo alcune iniziative di tipo caritatevole, nel 1854 fondò a Heddesdorf una società di beneficenza, che nel 1869 trasformò in cooperativa di credito. Con il sostegno della Società agricola della Prussia renana, Raiffeisen avviò altre analoghe iniziative e nel 1871 le cooperative erano già 77. Nel 1877 dette vita all'Anwaltschaftsverband ländlicher Genossenschaften, che si riprometteva di tutelare non solo gli agricoltori, ma anche gli artigiani e i piccoli esercenti. Nel 1899 questo divenne Generalverband der deutschen Raiffeisen Genossenschaften. Le cooperative di Raiffeisen avevano la caratteristica di cooperative agrarie economiche quasi universali, perché a differenza delle affiliate all'Allgemeiner Verband combinavano il movimento dei capitali con quello delle merci e agivano come cooperative di credito, di acquisto e di vendita delle materie prime. Già nel 1876 Raiffeisen aveva fondato la Cassa Centrale per Prestiti Agrari, successivamente divenuta la Deutsche Raiffeisenbank, che dal punto di vista economico era una cooperativa che curava le operazioni finanziarie centralizzate delle casse mutue di prestito. Mentre Schulze costituì associazioni di soci con modeste proprietà, Raiffeisen fondò cooperative per agricoltori che, pur non disponendo di capitali liquidi, possedevano però proprietà fondiarie. In questo modo potevano rispondere in solido illimitatamente di fronte ai prestiti erogati dai comuni o dai privati cittadini, quando ne avevano necessità tra un raccolto e un altro. A copertura dei rischi commerciali, i crediti venivano concessi solo per fini produttivi, nella maggior parte dei casi per l'acquisto di attrezzi e di macchine agricole, di sementi e di concimi, e la sfera di attività veniva mantenuta entro il limite del villaggio e della parrocchia, in modo che il controllo reciproco fosse garantito. Per Raiffeisen ciò aveva il merito di offrire assistenza e carità reciproche e quindi di elevare moralmente la popolazione rurale, il che costituiva pur sempre il suo obiettivo fondamentale. Inoltre la limitazione dell'attività a piccole unità consentiva una gestione onoraria delle cooperative, a eccezione del contabile, in modo da ridurre le spese di esercizio. Per evitare 'la caccia capitalistica ai dividendi' la cooperativa Raiffeisen non offriva quote di partecipazione ai soci, ma devolveva l'utile netto al fondo di riserva, inalienabile e indivisibile anche in caso di scioglimento. Pur essendo accusata da Schulze di 'misticismo religioso' e di scarsa solidità economica, sia per la prassi della concessione di prestiti a lungo termine, sia per l'esposizione in solido dei soci anche per gli eventuali debiti contratti dalla cassa centrale, su cui questi non avevano alcuna influenza, la cooperativa Raiffeisen conobbe una straordinaria fortuna in tutta Europa. A differenza di Schulze, Raiffeisen non era contrario alle sovvenzioni statali, ma fu un suo seguace, Wilhelm Haas (1839-1913) , a fare dei contributi statali concessi dal 1895 dalla Preußenkasse un fattore importante per lo sviluppo del movimento. Haas aveva fondato nel 1883 una unione di associazioni, dal 1890 denominata Reichsverband der deutschen landwirtschaftlichen Genossenschaften, a cui afferivano cooperative di diverso tipo e con diversi statuti. Allontanandosi dal moralismo religioso di Raiffeisen e dando maggiore rilevanza al capitale azionario, Haas pose le condizioni perché il suo Reichsverband diventasse, fino alla metà degli anni venti, la più grande cooperativa tedesca per numero di associate. Nel 1926 su 52.722 cooperative censite nel Reich ben 26.013 erano affiliate al Reichsverband e 8.747 al Generalverband Raiffeisen. Durante la crisi mondiale, però, esso fu indotto a unirsi al Generalverband, dando vita al Reichsverband der deutschen landwirtschaftlichen Genossenschaften Raiffeisen, che con 36.339 cooperative primarie e circa 4 milioni di soci divenne la più grande organizzazione cooperativa del mondo. Dopo l'avvento dei nazisti, nel 1933, anche questa unione fu costretta a rinunciare alla propria indipendenza e fu incorporata nel Reichsnährstand sotto forma di sezione a sé stante. Dopo il 1945 la prevalenza delle cooperative di impianto borgheserurale nei confronti di quelle operaie, già netta negli anni venti, diventò assoluta anche per il progressivo arretramento del settore del consumo. Mentre le banche cooperative erano riuscite nel 1980 a controllare una quota di mercato del 21,4%, le cooperative di merci e di servizi Raiffeisen raggiunsero un fatturato equivalente a più della metà del giro d'affari di tutta l'agricoltura tedesca, e nel settore dei latticini pari a circa l'80%. In base al numero dei soci, nel 1980 si collocarono al primo posto, con ampio margine, le banche popolari e le banche Raiffeisen con 9,1 milioni di soci, i quali però avevano un legame personale quasi inesistente con la cooperativa. Seguivano le cooperative Raiffeisen delle merci e dei servizi con 4,5 milioni, mentre le cooperative edilizie denunciavano 1,6 milioni e quelle di consumo 1,1 milioni.
Il mutuo credito non conobbe grande sviluppo in Gran Bretagna; trovò invece terreno più fertile verso la fine del secolo in Canada, e da qui negli Stati Uniti. Si può dire anzi che fu piuttosto a partire dall'America che il credito cooperativo ebbe una qualche influenza in Inghilterra, dopo gli anni sessanta, sotto forma di limited company, raggiungendo comunque la modesta incidenza nel 1982 dell'1% del mercato. Più consistente fu il fenomeno delle village banks in Irlanda, che, nate verso la fine del secolo, raggiunsero nel 1908 il numero di 268, ma andarono poi declinando negli anni venti e trenta.
Assai più diffusa risultò la cassa Raiffeisen nell'Europa continentale, dove spesso costituì il solido retroterra di un tessuto cooperativo articolato. Tipico fu il caso del Belgio, dove la cooperazione nelle campagne fu un movimento di ispirazione cristiana. La prima gilda di contadini fu fondata nel 1887 dall'abate Mellaerts. Nel 1890 fu dato vita al Boerenbond, unione delle gilde agricole, la cui influenza crebbe incessantemente nel primo quarto del secolo. Dopo la crisi degli anni trenta e della seconda guerra mondiale il Boerenbond riprese a espandersi fino a diventare la prima organizzazione agricola belga per numero di affiliati e per rilevanza economica, estendendo la sua influenza nelle Fiandre, nel Brabante vallone e nelle regioni orientali. Nel 1982 il Boerenbond vantava un'agenzia centrale di acquisto e di vendita, che serviva 346 cooperative locali, con un volume di affari di 19 miliardi di franchi belgi, la stipula di 1,2 milioni di contratti di assicurazione, 32 cooperative lattiere e 470 cooperative locali o regionali di servizi, di commercializzazione e di produzione. Tale tessuto associativo era sorretto dal gruppo di 395 casse Raiffeisen, con 575 succursali e un bilancio consolidato di 199 miliardi di franchi, le quali svolgevano a favore dei contadini tutti i servizi bancari. Le casse Raiffeisen erano coordinate da una cassa centrale, che costituiva la prima cassa di risparmio privato del paese. Essa fungeva da cassa centrale anche per le 64 casse rurali e succursali esistenti in Vallonia, operanti a favore delle unioni professionali agricole (che nella regione coprivano l'80% della superficie coltivata) e dei sindacati agricoli, apparsi fin dalla fine del secolo scorso e dal 1929 associati nella Alliance agricole belge nelle province di Hainaut, Liegi, Lussemburgo e Namur.
In Danimarca le prime cooperative agricole e di produzione nacquero tra il 1880 e la fine del secolo come reazione alla caduta dei prezzi del grano, che spinse gli agricoltori a volgersi verso la produzione animale, l'introduzione di nuove tecnologie e la creazione di forme organizzative che garantissero una più incisiva presenza sul mercato. Nel 1899 fu fondata la federazione delle cooperative Andelsudvalget, il cui sviluppo fu connesso all'attivazione di servizi bancari e assicurativi, e di iniziative produttive volte all'approvvigionamento e alla trasformazione dei prodotti agricoli. La prima cooperativa lattiera fu fondata nello Jütland nel 1882, poi fece la sua comparsa una cooperativa per la produzione del bacon e verso la fine del secolo sorsero iniziative nel settore delle uova, delle sementi e delle forniture agricole. Nel primo dopoguerra il movimento si era esteso a tutti i principali settori agricoli. Forte del sostegno di 54 banche cooperative e di società di assicurazioni con 2 milioni di soci, l'Andelsudvalget era diventata negli anni ottanta la quarta impresa commerciale del paese, e le sue cooperative primarie e secondarie, con oltre 2 milioni di soci, realizzarono nel 1983 un fatturato di 77.402 milioni di corone. Esse controllavano l'80-90% della produzione del latte e dei latticini, il 70% del mercato delle uova e della carne suina, il 50% delle sementi e dei prodotti ortofrutticoli.
Analoghi risultati furono conseguiti dalla cooperazione agricola nei Paesi Scandinavi, dove negli anni ottanta essa giunse a controllare l'80-90% della produzione. In taluni casi, come in Svezia, l'obiettivo della conquista del mercato indusse gli agricoltori a organizzarsi in strutture associative per prodotto, cosicché essi potevano essere contemporaneamente soci di più cooperative. Tutte comunque erano riunite in federazioni di settore, e quindi inquadrate nella organizzazione centrale Lantbrukarnas riksförbund (dal 1971).
Anche in Olanda la data di partenza della cooperazione agricola risale alla sostituzione della coltura cerealicola con l'allevamento durante la crisi agraria del 1880. Un ruolo positivo ebbe al riguardo anche la legge del 1876, che incentivava la costituzione delle cooperative assai più di quanto non consentisse la vecchia legge del 1855 sul diritto di associazione e di riunione. Nel 1877 alcuni contadini di Aardenburg, in Zelanda, crearono una cooperativa di acquisto di concimi chimici di buona qualità, denominata Welbegrepen eigenbelang. Nel 1886 fu la volta della prima latteria cooperativa, nel 1887 della prima società di vendita dei legumi e nel 1896 della prima banca di credito agricolo. Anche in Olanda la maggior parte delle cooperative era a scopo unico per accentuare le funzioni di mercato. Con una crescita costante, attraverso una politica di fusioni, la competitività del settore diventò massima nel secondo dopoguerra, quando in alcune annate riuscì a superare il 50% delle esportazioni. Nel 1983 le 1.484 cooperative esistenti, con oltre 1,3 milioni di soci e un fatturato di 30,8 miliardi di fiorini, occupavano una quota del 50-60% del mercato dei concimi e dei foraggi, dell'80-90% del burro e dei latticini, dei legumi, della frutta e dei fiori. La consistenza del settore va tuttavia considerata in relazione al credito e alle società assicurative, che in larga misura partecipavano al Nationale cooperative raad voor land- en tuinbouw costituito nel 1934. Tra le aderenti è da segnalare la Rabobank Nederland, con sede a Utrecht, banca centrale Raiffeisen di credito agricolo, una delle maggiori banche olandesi e tra le prime 50 nel mondo. Benché la sua storia risalga al secolo scorso, la sua forma attuale risulta dalla fusione delle due banche centrali cooperative esistenti a Utrecht e a Eindhoven, avvenuta nel 1972. La Rabobank Nederland vantava, nel 1983, 955 affiliate diffuse in tutto il territorio con 3.040 succursali e quasi 800.000 soci, le quali, oltre ai servizi bancari, svolgevano anche funzioni di società di assicurazioni, di agenzie di viaggio e perfino di agenzie immobiliari. La Rabobank Nederland possedeva inoltre succursali e uffici di rappresentanza a New York, a Francoforte, a Londra e a Curaçao. Il patrimonio del gruppo, che aveva reso meno rigida la norma che vincolava il cliente a farsi socio, era stimato nel 1983 in 118,3 miliardi di fiorini, e la sua incidenza sul mercato generale superava la quota del 40%, mentre nel settore agricolo giungeva addirittura fino al 90%.
L'intreccio tra cooperazione, mutualismo e credito è stato una costante anche nella storia della campagna francese. In risposta alla crisi agraria degli anni ottanta del secolo scorso si diffusero la cooperativa di acquisto in comune, che precorreva l'attuale società di approvvigionamento, il sindacato per la vendita in comune e per l'utilizzazione delle macchine, nonché l'assicurazione mutua contro la mortalità del bestiame, gli incendi e la grandine. Nello stesso tempo furono promosse da Ludovic de Besse e da Louis Durand le prime casse Raiffeisen contro l'usura, che la legge del 1884 dotò di uno statuto e quella del 1899 autorizzò ad associarsi in casse regionali. Nel 1900 fu dato uno statuto anche alle assicurazioni mutue agricole, e questo segnò l'inizio di un grande sviluppo del settore, che nel 1905 contava ben 4 milioni di soci. Nel 1910 fu creata la Fédération Nationale de la Mutualité, de la Coopération et du Crédit Agricoles. Al 1920 risale la creazione dell'Office du Crédit Agricole, diventato nel 1926 la Cassa Nazionale di Credito Agricolo. Nel 1983 il gruppo del credito mutuo contava su una rete di ben 3.053 casse rurali, con un bilancio consolidato di 143,3 miliardi di franchi e 3 milioni di soci, oltre a un altro milione di clienti non soci. La legge finanziaria del 1975, disponendo che la metà dei fondi collettivi sul libretto speciale di risparmio fosse indirizzata verso 'impieghi d'interesse generale', fece del credito mutuo il principale finanziatore delle collettività locali e del settore associativo. Nel 1983 il settore agricolo contava circa 4.000 cooperative agricole industriali e commerciali e 7.600 cooperative di servizi, forti di 2 milioni di soci e di un volume d'affari di 150 miliardi di franchi, il cui solido retroterra era costituito dalla mutualità sociale agricola con 5,6 milioni di utenti, dal credito agricolo e dalle mutue assicurative con un bilancio di 753 miliardi di franchi. In pratica quattro contadini su cinque aderiscono oggi a una cooperativa; le cooperative agricole e le loro affiliate controllano attualmente almeno la metà delle industrie di trasformazione dei prodotti agricoli (per il 45% del fatturato), il 30-40% della commercializzazione della frutta, dei legumi e del bestiame, il 70% dei cereali, il 50% del latte e dei latticini, il 25% del vino da tavola.
Tra le aree a più alta densità cooperativa vi furono e vi sono gli Stati Uniti e il Canada. In quest'ultimo paese si calcola che un cittadino su tre sia socio di una cooperativa di credito, e che il 75% del frumento e degli altri prodotti cerealicoli sia commercializzato da cooperative. Negli Stati Uniti le prime cooperative di vendita di prodotti agricoli furono istituite nel Connecticut agli inizi dell'Ottocento, mentre verso la fine del secolo comparve nelle zone rurali la cooperativa di consumo come general store. Nel 1916 il Congresso creò le prime banche rurali in forma cooperativa, che attraverso l'emissione di obbligazioni e di titoli diventarono un sistema fondamentale a sostegno della cooperazione di trasformazione, di vendita e di servizio. Fu soprattutto con il New Deal che la cooperazione venne incentivata. A quegli anni risale il rilevante fenomeno delle cooperative di elettrificazione rurale, il quale ricevette impulso dalla Rural electric administration del 1935. Nel 1979 queste cooperative erano 984, con 9 milioni di soci e una vendita di energia elettrica pari a 5 miliardi di dollari, attraverso una rete estesa a tutta la campagna. A partire dagli anni sessanta nel settore agricolo si affermarono tendenze alla concentrazione in grossi organismi di trasformazione e di servizio. Nel 1980 l'80% degli agricoltori era socio di una cooperativa di vendita o di servizio, soprattutto nel Midwest, ma solo un terzo della produzione era delle cooperative (il 10% per il bestiame), a riprova della prevalente dispersione dei piccoli produttori associati di fronte alle grandi imprese private. Tipicamente americana fu la ramificazione di una rete di ben 22.300 cooperative o unioni di credito, con 39,5 milioni di soci, fondate su legami personali derivanti dall'appartenenza a una stessa comunità, chiesa o associazione professionale, nelle quali l'identità di gruppo era il requisito per ottenere un credito, per lo più indirizzato all'acquisto di beni durevoli.Ottimi risultati hanno conseguito le colonie agricole collettivistiche in Israele (kibbutzim), che traggono origine dalle prime comunità cooperative ebraiche (kevuẓah) sorte in Palestina nel 1910. In Giappone hanno avuto grande sviluppo le cooperative agricole polivalenti, che oggi vengono citate dall'Alleanza Cooperativa Internazionale come valida prospettiva comunitaria per il futuro. Buoni risultati ha conseguito di recente la cooperazione in India nello stato del Gujarat, nella commercializzazione lattiero-casearia e nella produzione dello zucchero, e in Malesia nel settore assicurativo.
Nel Terzo Mondo, e in Africa in particolare, dopo il 1960 la cooperazione è stata fortemente caldeggiata dai governi nell'ambito dei programmi di sviluppo, fino a farne spesso una semplice appendice dell'apparato amministrativo statale, ma quasi sempre con effetti molto negativi. Oggi si assiste a una timida ripresa sul fertile terreno delle tradizioni etniche locali.Il tema dei rapporti tra cooperazione e Stato è stato certamente uno dei più ricorrenti nella storia del movimento cooperativo internazionale, e fu oggetto specifico dei lavori dei congressi dell'Alleanza Cooperativa Internazionale del 1904 e, di recente, del 1978 a Copenhagen. Al di là degli aspetti teorici è da osservare che, se nel Terzo Mondo l'intervento dello Stato ha finora prodotto scarsi risultati, in altri casi ha conseguito indubbi successi, come in Canada (mercato delle granaglie), in Giappone (produzione del riso), in Polonia (abitazioni), negli Stati Uniti (elettrificazione delle campagne).
Nonostante la cooperazione di produzione sia una parte modesta (calcolata all'1% da H. Desroche) del movimento cooperativo, essa vi ha ricoperto sempre un ruolo fondamentale, in particolare nella fase iniziale e negli anni più recenti. La sua area di diffusione è sempre stata considerata la Francia, sia per la fortuna del modello bucheziano della cooperativa d'operai associati, sia per il radicamento del modello partecipativo, di matrice fourierista, al quale si richiamò Jean-Baptist-André Godin con il familistère di Guise. Figlia dell'associazionismo riformatore, tra il 1820 e il 1879 la cooperazione di produzione e di lavoro fu concepita spesso come alternativa al sistema capitalistico. Le cooperative operaie sorte dopo il 1848 non sopravvissero al colpo di Stato del dicembre 1851, ma furono la matrice delle società nate negli anni del Secondo Impero tra l'élite operaia convertita al sindacalismo. Dopo gli anni ottanta in Francia prevalse il neutralismo gidiano, anche se Jean Jaurès tentò un rilancio della cooperativa di lavoro socialista con la vetreria operaia di Albi. In tempi più recenti il movimento fu istituzionalizzato come componente dell'economia sociale.
Fin dal suo sorgere, la Prima Internazionale (1864) si espresse a favore delle cooperative di produzione piuttosto che di quelle di consumo, caldeggiate invece da Giuseppe Mazzini. Lo stesso Karl Marx, pur rimanendo sempre assai tiepido nei loro confronti, ammise che le fabbriche cooperative potevano dimostrare che il capitalista 'in quanto funzionario della produzione' era diventato superfluo e che, con l'abolizione dell'antagonismo tra capitale e lavoro, il lavoro associato avrebbe potuto sostituire il lavoro salariato. Marx riteneva tuttavia che, limitate com'erano, le cooperative non avrebbero mai consentito la liberazione delle masse lavoratrici, da perseguire invece con la conquista del potere politico, e che quindi esse, oltre a distogliere le masse da questo obiettivo primario, alla fine avrebbero dovuto cedere di fronte alla concorrenza.
Una valutazione più positiva dette Friedrich Engels nel 1895, quando a proposito della questione contadina considerò la produzione associata come fase di passaggio dalla proprietà a conduzione individuale a quella collettiva evitando la proletarizzazione. In Marx ed Engels fu comunque costante l'avversione per ogni tipo di intervento statale. Ciò del resto risaliva alle polemiche con Ferdinand Lassalle, sotto l'influsso del quale era stato inserito nel programma di Gotha (1875) un articolo relativo alla creazione di comunità socialiste di produttori, sovvenzionate dallo Stato sotto il controllo democratico del popolo lavoratore. La diffidenza marxista nei confronti della cooperazione fu condivisa a lungo, sul piano teorico, dai partiti socialdemocratici aderenti alla Seconda Internazionale (1889), anche se questi alla fine ne apprezzarono l'utilità fino ad ammetterne, nel 1910, la piena legittimità come 'terzo pilastro' dell'edificio socialista, accanto al sindacato e al partito. A quel tempo però la cooperativa di produzione e di lavoro veniva gerarchicamente subordinata a quella di consumo. Se lo stimolo ideologico originario fu di tipo comunitario o partecipativo, nella pratica il successo della cooperativa di produzione e di lavoro dipese dalla sua efficacia come strumento di lotta alla disoccupazione, e quindi, spesso, dal sostegno da parte dell'organizzazione sindacale. Tipico fu il caso delle cooperative tra gli edili sorte in Danimarca in occasione dello sciopero del 1899, quando oltre 40.000 lavoratori rimasero disoccupati. Anche in Olanda la prima cooperativa di produzione nacque tra i tipografi durante la vertenza sindacale del 1866, così come l'anno seguente, in occasione degli scioperi presso i cantieri navali di Amsterdam, fu fondata la sezione olandese della Prima Internazionale, che dette grande rilievo alle 'associazioni di produzione'. Successivamente le cooperative di produzione si limitarono a settori con debole intensità di capitali (costruzioni, abbigliamento, stampa e tipografia, manifattura di sigari). Sviluppatosi ancora negli anni venti in seguito all'aggravarsi della disoccupazione edilizia, il settore entrò successivamente in crisi. In Inghilterra le cooperative di produzione, costantemente afflitte da penuria di capitali, entrarono in crisi già dopo il 1875. Nel 1900 ne esistevano ancora un centinaio, che in seguito si trasformarono per lo più in società a responsabilità limitata (Industrial provident society). In Francia, dopo alcune fasi incerte, le associazioni di produzione si raggrupparono nella Chambre consultative des associations ouvrières de production, sostituita nel 1917 dall'attuale Confédération générale des sociétés ouvrières de production.
La grande rinascita del settore è comunque relativamente recente, a partire dagli anni cinquanta, ed è stata un fenomeno generalizzato in tutta l'Europa, nei settori della prestazione dei servizi, della meccanica e della lavorazione dei metalli, delle arti grafiche e dell'edilizia. Oggi le cooperative di produzione e di lavoro sono considerate dall'Alleanza Cooperativa Internazionale le più idonee per creare un nuovo rapporto tra lavoratori e posti di lavoro, e per rilanciare l'istanza cooperativa tanto nei paesi avanzati quanto in quelli sottosviluppati.In questo contesto ha avuto una grande fortuna il caso di Mondragón, piccolo centro nelle Province Basche, di tradizione socialista, dove svolse un ruolo importante il prete cattolico José María Arizmendi Arrieta. Il complesso di Mondragón, caratterizzato da una forte coesione interna in senso solidaristico, è incentrato sulla Caja Laboral Popular, fondata nel 1959, che è diventata la cassa di credito cooperativo più importante della Spagna. Alla fine del 1983 aderivano al gruppo 167 cooperative, di cui 89 industriali, 8 agroalimentari, 1 di consumo, 44 per l'insegnamento, 14 di abitazione, 7 di servizi, 4 di centri comunitari. Se la cooperativa di consumo Eroski era la più grande del paese, le cooperative di produzione erano strutturate in raggruppamenti industriali, che tentavano di conseguire una complementarità dal punto di vista della produzione e una localizzazione territoriale delle imprese in grado di garantire la mobilità della manodopera. Queste cooperative di produzione vantavano esportazioni per 23 miliardi di pesetas e investimenti per 5 miliardi, con vendite complessive di 109 miliardi. Dando lavoro a 18.744 persone, costituivano la principale fonte di lavoro della regione. I rapporti tra Caja Laboral e cooperative associate erano regolati da un contratto di associazione, che imponeva obblighi giuridici di rispetto degli statuti e di osservanza delle decisioni dell'assemblea della Caja, e obblighi economici per ciò che concerneva gli apporti di capitale e le garanzie da parte delle cooperative, sotto forma di partecipazione alle attività organizzate dalla Caja Laboral. L'originalità del gruppo di Mondragón era legata insomma all'esistenza di una banca integrata di uso esclusivo e obbligatorio per tutti gli elementi del gruppo, pur dotati di una propria personalità giuridica. La Caja Laboral, che era pure una cassa di risparmio estesa a tutte le Province Basche, assumeva pertanto una funzione di direzione centrale.
La cooperazione in Italia, dopo una fase di avvio piuttosto lenta, fu caratterizzata dal conseguimento di una originale complessità, che ne assicurava la presenza in tutti i settori. Nell'Italia liberale le prime iniziative significative furono assunte dalla borghesia negli ultimi decenni del secolo scorso, nel tentativo di riaffermare nella società italiana la propria egemonia, che sembrava essere messa in discussione dalla crisi delle campagne e dagli inizi dell'industrializzazione. A ciò fu dovuta la prima definizione di un quadro giuridico nell'ambito del Codice di commercio del 1882 e poi con la legge del 1889. Le norme contenute nel Codice di commercio del 1882 stabilivano il principio del voto per testa, la variabilità del capitale sociale, il divieto della cessione delle azioni a terzi senza il consenso della maggioranza, il limite - di L. 5.000 - del possesso delle azioni pro capite. Mancava il riferimento alla 'porta aperta' e si rinunciava a conferire al nuovo istituto una forma giuridicamente autonoma optando invece per quella dell'anonima, della collettiva o dell'accomandita, a preferenza del corpo sociale. La legge dell'11 luglio 1889 sulla contabilità generale dello Stato, nell'ammettere per la prima volta agli appalti pubblici le cooperative di produzione e di lavoro, introduceva il concetto dell'esclusiva composizione delle società da parte "degli operai esercenti l'arte o una delle arti che ne sono oggetto" e il principio del ristorno. È indubbio che essa incentivò la formazione di cooperative di lavoro di braccianti e di muratori, e costituì il punto di partenza di quella legislazione cooperativa sugli appalti pubblici che rappresentò un punto di forza dell'intero sistema giolittiano nel primo decennio del secolo. La legge del 6 giugno 1909 e il conseguente regolamento approvato con r.d. del 12 febbraio 1911 definivano una normativa configurante un vero e proprio modello societario a sé stante, nell'enunciazione dei requisiti propri della mutualità e della garanzia ancorata al principio della 'porta aperta', e nella considerazione della dimensione imprenditoriale (riconoscimento dei consorzi con personalità giuridica, riconoscimento del ruolo degli ausiliari, ecc.).
Nel loro disegno associativo globale i conservatori sociali, tra i quali il più rappresentativo fu Luigi Luzzatti (1841-1927) che poi un'ampia pubblicistica di diverso orientamento politico consacrò come 'padre della cooperazione italiana', assegnarono un ruolo fondamentale al credito popolare e alla cooperazione rurale. Luzzatti si ispirava a Schulze nel propagandare la formula della banca popolare, che ebbe una sua prima realizzazione a Lodi nel 1864, e quindi a Brescia, a Milano e a Bologna. Quattro anni più tardi le banche popolari erano già 50, con un capitale di 19 milioni di lire; ma fu negli anni ottanta che conobbero una straordinaria fortuna, raggiungendo le 368 unità nel 1885. Al 1905 ne esistevano ben 827, riunite in un'Associazione fra le banche popolari, che nel 1902 avevano compiuto operazioni per 1.127 milioni di lire. La banca popolare, che poi continuò ad avere larga fortuna in Italia, aveva il carattere della società anonima a responsabilità limitata, con un numero illimitato di soci ai quali era riservato un solo voto. Di origine filantropica e borghese, manifestò un'iniziale tendenza a favorire i piccoli prestiti a breve scadenza e a miti interessi, in un ambito territoriale circoscritto. Rispetto alla banca di Schulze, quella italiana palesava un corpo sociale assai più eterogeneo, dove la grande proprietà conservava una larga influenza, il che ne accentuò la trasformazione in istituto di credito ordinario. Tuttavia essa operò positivamente a favore della media e della piccola industria, del commercio e dell'artigianato, nonché della proprietà agricola, e nella fase iniziale anche a favore di iniziative cooperative, spesso con contributi a fondo perduto. Nella fase successiva, invece, le cooperative non ebbero un'analoga assistenza da parte della banca popolare, cosicché il problema del credito alla cooperazione rimase aperto. Il movimento cooperativo tentò di creare propri organi, fra i quali il maggiore fu l'Istituto di Credito per le Cooperative (1904) con un capitale quasi interamente sottoscritto dalla Società umanitaria di Milano. Nel 1913 fu creato l'Istituto Nazionale di Credito per la Cooperazione, con un capitale iniziale di 7,75 milioni, che nel 1927 venne trasformato in Banca Nazionale del Lavoro e della Cooperazione, poi BNL.
Influenza duratura e diretta ebbe sul tessuto cooperativo la cassa rurale di tipo Raiffeisen, diffusasi nel Veneto, in Lombardia, in Sicilia e nel parmense, come società a responsabilità illimitata e con capitale sociale indivisibile. Essa praticava prestiti di limitata entità a favore di piccoli proprietari, fittavoli, coloni, al fine di combattere l'usura. La prima cassa rurale fu fondata, con l'aiuto del parroco, dal liberale Leone Wollemborg a Loreggia (Padova) nel 1883, ma il grande sviluppo di tale istituzione si ebbe quando i cattolici se ne appropriarono per farne il centro di un sistema rurale integrato di produzione-consumo-credito, cementato dal legame confessionale. Nel 1905 erano attive ben 1.092 casse rurali di deposito e di credito, con oltre 100.000 soci e depositi per 30 milioni, le quali in qualche misura potevano contare anche sul solido retroterra delle banche cattoliche. Allo scopo di sostenere il microcosmo contadino-familiare i cattolici, a differenza dei socialisti, promossero importanti iniziative anche nel settore della mutua assicurazione contro la mortalità del bestiame, i danni della grandine e gli incendi. Comune a cattolici e socialisti fu la promozione dell'affittanza collettiva, ma mentre per i primi, a conduzione divisa, essa rappresentava uno strumento per eliminare la figura del fittavolo e per prefigurare il piccolo affitto diretto coadiuvato dal patronato, per i secondi, a conduzione indivisa, doveva intendersi come mezzo di integrazione della lotta sindacale allo scopo di collocare manodopera e di avviare la socializzazione delle campagne. L'interconnessione tra cooperazione cattolica e credito in ambiente cattolico portò nel 1919 alla costituzione della Banca del Lavoro e della Cooperazione, con sede a Roma. Nel 1922 le casse rurali erano 3.540; durante il fascismo si ridussero a poco più di duemila, per toccare le 755 unità nel 1949 e le 651 nel 1973, nell'ambito di un processo di razionalizzazione che comportò l'aumento di depositi e di impieghi, anche attraverso il coordinamento e l'intermediazione tecnica esercitati dall'Istituto di Credito delle Casse Rurali e Artigiane. Nel 1983 esistevano 669 casse con 300.000 soci e con una percentuale sul mercato del 3,6% (del 15% per il credito agricolo).Grande successo ebbe l'iniziativa dei liberali nella promozione dei sindacati e dei consorzi agrari, in concomitanza con la crisi delle campagne alla fine del secolo scorso. I primi consorzi apparvero già verso la metà dell'Ottocento, quando furono importate dal Giappone le uova di filugello per incentivare la bachicoltura colpita dalla pebrina, e furono promossi i primi acquisti collettivi di sementi di barbabietola e di foraggi. Nel 1884 fu costituita a Canneto Pavese un'Unione viticola per acquisti in comune, che fu di modello a iniziative analoghe. Tale forma di associazione venne incentivata dalla diffusione dei concimi chimici. Il sindacato di acquisti svolgeva funzioni di intermediario rispetto alle richieste degli agricoltori e ai relativi acquisti, per lo più ricorrendo al contributo delle casse rurali e dei comizi agrari. Il consorzio, invece, praticava sia l'acquisto comune di sementi, foraggi, bestiame e macchine agricole, sia la vendita di prodotti e talvolta il credito e l'assicurazione, o addirittura si dotava di opifici per la lavorazione dei prodotti. Nel 1892 venne costituita a Piacenza da 32 privati e da 18 enti la Federazione italiana dei consorzi agrari, presieduta da Enea Cavalieri, e poi da Giovanni Raineri. Essa mantenne sempre una posizione predominante nei confronti degli associati e nel 1914 abolì l'adesione dei privati. La crescita della Federconsorzi, ininterrotta fino al 1926, fu particolarmente intensa tra il 1900 e il 1910, quando le associate passarono da 577 a 1.151 (di cui 601 società agricole) e tra il 1915 e il 1920, quando essa vantava il controllo del 68% del mercato nazionale dei concimi chimici, la produzione di superfosfati e semiselezionati, nonché la vendita di macchinari per circa 25 milioni di lire. A coronamento di tale attività la Federconsorzi contribuì alla promozione della Banca Nazionale dell'Agricoltura. Durante il regime fascista, nel 1939, i consorzi furono trasformati in enti morali a dimensione provinciale, privi ormai della natura cooperativa. Nel dopoguerra la ripresa della Federconsorzi fu legata alla distribuzione degli aiuti alimentari degli Alleati. Nel 1948 essa beneficiò di un quadro giuridico specifico, che ne faceva l'interlocutrice privilegiata del Ministero dell'Agricoltura e delle Foreste. Nel 1983 la Federconsorzi e i consorzi agricoli, forti di 400.000 produttori individuali o associati, registrarono affari per circa 6.500 miliardi di lire.
La cooperazione di orientamento socialista ebbe i suoi punti di forza nel settore del consumo e in quello della produzione e del lavoro. La prima cooperativa di consumo con il sistema inglese fu fondata da Francesco Viganò a Como nel 1864, ma il modello che si impose largamente fu quello dell'Associazione generale fra gli operai di Torino (1854, poi Alleanza cooperativa torinese), che praticava la vendita a prezzo di costo e a credito, limitatamente ai soci. A tale principio si uniformarono le cooperative tra ferrovieri, sorte negli anni sessanta del secolo scorso, alle quali le amministrazioni ferroviarie erano solite fornire l'uso gratuito dei locali e il 5% di ribasso sulle tariffe dei trasporti. A incoraggiare l'uso della vendita ai soli soci aveva contribuito anche la legge del 1870, che esonerava le cooperative dalla tassa del dazio di consumo sui generi forniti ai soci. Di matrice impiegatizia, ma sul tradizionale terreno mutualistico-ricreativo delle associazioni generali, fu un altro tipo di cooperativa di consumo a carattere territoriale, diventata in seguito prevalente in tutto il paese. Essa assunse il nome di Unione cooperativa, anche per analogia con la società fondata a Milano da Luigi Buffoli nel 1886, destinata a essere la più rilevante nel settore. L'Unione cooperativa di Milano applicava il sistema inglese, distribuendo merci a pronti e al prezzo corrente e applicando poi il ristorno. Dopo aver articolato la distribuzione (prima delle stoffe, poi anche dei generi alimentari), essa giunse nel 1920 a vantare un capitale sociale e un fondo di riserva di 10 milioni e vendite per 109 milioni di lire, diventando la principale fornitrice per Milano dei generi di prima necessità. Un terzo tipo di cooperativa di consumo fu quella, più specificamente di orientamento socialista, che si richiamava al modello della maison du peuple e cioè devolveva parte degli utili al miglioramento morale e materiale della classe lavoratrice. In questo ambito nacquero anche talune esperienze di cooperazione integrale, come a Suzzara e ancor più a Reggio Emilia, intorno al Consorzio delle cooperative di consumo costituito nel 1904. Nell'età giolittiana, accanto agli spacci con caratteristiche organizzative interne modeste e improntate al volontariato, basati sulla vendita a prezzo di costo di pochi prodotti essenziali come il pane e il vino, cominciarono a diffondersi imprese efficienti, con un patrimonio sociale consolidato, che puntavano all'articolazione dei punti di vendita e si dotavano di sedi prestigiose, di rappresentanza ma anche funzionali alla diversificazione delle attività. Esse ebbero un ulteriore incremento nel primo dopoguerra, quando, incoraggiate dall'apparato di mobilitazione creato durante il conflitto, rivendicarono obiettivi di organizzazione del mercato dei consumi, vale a dire una sorta di 'funzione pubblica' in rapporto con gli enti autonomi di consumo creati dalle amministrazioni locali. Ancor più ambizioso fu il progetto, caldeggiato da Valentino Pittoni, del Consorzio italiano delle cooperative ed enti di consumo, che si sarebbe dovuto costituire come centrale di acquisto e di produzione dei beni di consumo per il mercato nazionale.
Assai precoce fu anche la costituzione di cooperative di produzione, che cominciarono a svilupparsi fin dagli anni 1860-1870, specialmente nei centri urbani dell'Italia centro-settentrionale, dove esistevano consolidate tradizioni del mestiere artigiano. La prima iniziativa di questo tipo fu la Società artisticovetraria di Altare (Savona) del 1856. Tale tipo di cooperativa si diffuse soprattutto tra sarti, calzolai, guantai, conciatori di pelle e tipografi. Di solito aveva una base sociale modesta, ma un capitale sociale proporzionalmente elevato. Diverso carattere ebbe la Società dei muratori e dei braccianti, costituita per assumere appalti o subappalti e allocare manodopera disoccupata, con una base sociale ampia e, viceversa, un capitale sociale assai modesto. Ne costituiva il modello riconosciuto il tipo 'romagnolo', del quale l'espressione più significativa fu l'Associazione generale operai e braccianti, di Ravenna, fondata nel 1883 da Nullo Baldini (1862-1945). Durante l'età giolittiana la cooperazione bracciantile conobbe una progressiva divaricazione al proprio interno: da un lato essa tese ad assumere affittanze collettive, facendo così dell'avventizio un produttore agricolo inserito in una dimensione collettiva; dall'altro andò specializzando il lavoratore precario e scarsamente qualificato in terrazziere, cioè in operaio specializzato in lavori di sterro e di arginatura. Grande importanza ebbero anche le cooperative di muratori: già numerose negli anni ottanta dell'Ottocento si diffusero rapidamente nei decenni successivi, specialmente nelle grandi città, dove diventarono il perno dell'associazionismo operaio per la loro ampia base sociale, particolarmente omogenea, per l'intreccio con l'organizzazione sindacale e per la capacità di pressione nei confronti degli enti pubblici in materia di appalti. Nel dopoguerra la Federazione delle arti edili incoraggiò esperimenti 'gildisti' e giunse a costituire la Federazione dei consorzi e delle cooperative edili, un organismo nazionale che, utilizzando la struttura sindacale, avrebbe dovuto coordinare e dirigere le cooperative edili consorziate su scala nazionale. Fin dall'età giolittiana, come già rilevò Meuccio Ruini, la cooperazione italiana edile e bracciantile si era incentrata sulla 'grande industria' degli appalti che le sarebbe rimasta peculiare nel contesto internazionale. La riforma legislativa del 1909-1911 incentivò la formazione di strutture consortili, che poi assunsero anche dimensioni nazionali, come il Consorzio metallurgico e quello minerario.Alla base delle varie istanze cooperative vi fu agli inizi una tendenza sostanzialmente unitaria. Ne fu espressione la costituzione della Federazione nazionale delle cooperative italiane a Milano nel 1886 (dal 1893 Lega nazionale delle cooperative). Oltre ai liberali e ad alcuni esponenti della scuola di Luigi Cossa, come Luigi Luzzatti, Francesco Viganò, Ugo Rabbeno e Ulisse Gobbi, un ruolo fondamentale vi ricoprirono i repubblicani, ispiratisi alla lezione mazziniana, e soprattutto i radicali lombardi vicini al Consolato operaio di Carlo Romussi (1847-1913). Questi fu il primo direttore dell'organo ufficiale della Federazione, "La cooperazione italiana", che uscì il 1° gennaio 1887 e fu in seguito diretto da Antonio Maffi (1845-1912). La Lega esercitò una importante funzione di rappresentanza politica e sindacale, in particolare nei settori del consumo, della produzione e del lavoro e nel settore agricolo, tanto più che fino al primo dopoguerra fu l'unica organizzazione centrale e nazionale delle cooperative in Italia. Essa assunse ben presto un orientamento filosocialista, che portò all'allontanamento dei cooperatori liberali e cattolici, in particolare dopo che nel 1912 alla segreteria andò Antonio Vergnanini (1861-1934). La Lega raggiunse il massimo sviluppo intorno al 1920, quando dichiarò di organizzare circa 8.000 cooperative, di cui 3.600 di consumo, 2.700 di produzione e di lavoro, 700 agricole, 1.000 varie, con un numero di circa 2 milioni di associati, un capitale azionario di 600 milioni di lire e un movimento di affari di un miliardo e mezzo. In realtà la Lega divenne allora oggetto delle violente polemiche dei liberisti e dei nazionalisti, e soprattutto subì la concorrenza di altre organizzazioni centrali di diverso orientamento politico: sul tronco dell'Unione Italiana del Lavoro fu promosso nel gennaio 1920 il Sindacato nazionale delle cooperative, presieduto da Carlo Bazzi, e alla fine del 1922 l'Alleanza cooperativa italiana, con sede a Roma; agli inizi degli anni venti aveva visto la luce la Federazione nazionale delle cooperative tra ex combattenti, diretta da Rosario Labadessa; nella primavera del 1921 fu la volta del Sindacato italiano cooperativo di produzione e di consumo, di stampo fascista, presieduto da G. Postiglione. Maggiore solidità fu dimostrata dalla Confederazione nazionale delle cooperative, fondata a Roma nel 1919 dai cattolici, e diretta dall'avvocato Ercole Chiri; il suo punto di forza era costituito dalle casse rurali e dalle cooperative di consumo: su 2.793 aderenti, le prime erano circa 1.300, le seconde 941. Secondo una statistica ministeriale, al 31 marzo 1921 sarebbero state attive complessivamente 19.510 cooperative, di cui 7.643 di lavoro e di produzione, 6.481 di consumo, 1.534 di credito, 2.239 agricole, 133 di assicurazione e 1.480 varie.
Era un panorama particolarmente ricco e articolato, ma con un elevato indice di mortalità, calcolato nel 20% in dieci mesi. I socialisti controllavano poco meno della metà del movimento, e i cattolici erano di fatto gli unici a contrastarne l'egemonia. Esisteva però una terza forza, molto composita, che traeva consensi tra gli ex combattenti, gli ex sindacalisti-rivoluzionari e i democratici: di più recente formazione, e quindi più debole sul piano organizzativo e imprenditoriale, era però destinata a ricoprire un ruolo fondamentale nel processo di fascistizzazione della cooperazione italiana. Tale processo conobbe due fasi distinte: la prima di 'selezione' e di inquadramento attraverso atti squadristici, liquidazioni coatte, fusioni e risanamenti più o meno giustificati; la seconda, dal 1926, di 'ricostruzione' e di inserimento nel regime, anche attraverso la creazione di nuove strutture (Mutua assicurazione ed enti cooperativi nel 1926; Centro acquisti collettivi nel 1927). La fascistizzazione ebbe il momento più significativo con la creazione dell'Ente Nazionale per la Cooperazione (ENC), con funzioni di istituto di diritto pubblico sotto il controllo del Ministero dell'Economia Nazionale (r.d. del 30 dicembre 1926). Le cooperative aderenti all'ENC venivano aggregate per categoria in unioni provinciali - con funzioni di revisione e di controllo - riunite a loro volta in federazioni nazionali con compiti rappresentativi e assistenziali. La tendenza alla burocratizzazione trovò conferma nella successiva trasformazione dell'ENC da associazione di imprese cooperative in associazione di federazioni nazionali di categoria, giuridicamente riconosciute come unioni professionali (r.d. del marzo 1931).
Alla fine della guerra e nel clima creatosi dopo la Resistenza la cooperazione italiana conobbe nuovi impulsi, anche se spesso all'insegna dello spontaneismo. La Costituzione, all'art. 45, ne definiva le finalità: "La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l'incremento con i mezzi più idonei e ne assicura con gli opportuni controlli il carattere e le finalità". Il d.l. del 14 dicembre 1947 (legge Basevi) definiva la nuova veste giuridica della cooperazione attribuendo estese prerogative alle associazioni di rappresentanza riguardo alla vigilanza e recuperando alcune norme esistenti nella precedente legislazione in materia di appalti e relativamente alle commissioni provinciali e centrali, nonché al registro prefettizio - integrato dallo schedario generale -, al quale avrebbero dovuto iscriversi tutte le cooperative che intendessero usufruire di qualsiasi agevolazione. Il decreto legge, infine, fissava a 9 il numero minimo dei soci richiesto per la costituzione della società, e definiva i requisiti mutualistici necessari per usufruire dei benefici fiscali, come la limitazione del dividendo al 5%, il divieto della distribuzione delle riserve ai soci, la devoluzione a scopi di utilità pubblica del patrimonio sociale in caso di scioglimento. La riforma del 1971, poi, elevava a 2 milioni di lire il limite massimo della partecipazione di ciascun socio e incrementava i benefici fiscali. La ripresa, tra spontaneismo e tradizione, fu comunque intensa. Nel 1948 le società erano circa 17.000, cioè intorno al livello del primo dopoguerra, con 4 milioni di soci, un capitale di 3 miliardi e riserve per 2,5 miliardi di lire. La cooperazione di consumo confermava la base sociale più ampia, mentre il primato del numero delle società apparteneva al settore della produzione e del lavoro. Cospicua era la diffusione delle cooperative agricole sorte in occasione dell'occupazione delle terre e in seguito alla riforma agraria.Il 5 maggio 1945, sotto l'egida della Democrazia Cristiana, fu ricreata la Confederazione cooperativa italiana; il 26 maggio un comitato dei rappresentanti dei Partiti Comunista, Socialista, Repubblicano, Liberale e d'Azione ricostituiva la Lega nazionale delle cooperative e delle mutue. Nel 1952 una parte dei repubblicani e i socialdemocratici fondarono l'Alleanza generale delle cooperative italiane. Infine, nel 1971 fu costituita l'Unione nazionale cooperative italiane, riconosciuta dal Ministero nel 1981. Nel 1980 esistevano circa 125.000 società, ma solo il 30% di esse apparteneva a un'organizzazione centrale, e circa il 70% era iscritto al registro del Ministero del Lavoro. Di queste più della metà erano cooperative di abitazione (67.781, di cui ben 52.930 non aderenti ad alcuna confederazione nazionale), 19.376 erano agricole, 17.880 di produzione e 7.901 di consumo. Assumendo come base i dati relativi alle cooperative aderenti alle organizzazioni centrali, nel 1983 risultavano circa 8,4 milioni di soci, un fatturato di 30.000 miliardi di lire e 850.000 dipendenti. La cooperazione di consumo rappresentava il primo gruppo di distribuzione alimentare.
Nel 1979 il settore agricolo realizzò una produzione di 4.000-4.500 miliardi, pari al 15-20% della produzione commerciabile. Nel credito il gruppo più importante era quello delle casse rurali e artigiane, che aderivano alla Confederazione attraverso la loro Federazione nazionale (Federcasse). Anche la Lega manifestava la volontà di una più incisiva presenza nel settore assicurativo con l'Unipol (1963) e in quello finanziario con la Fincooper, fino alla recente politica di quotazione in borsa.Le organizzazioni centrali sono diventate complessi organismi di rappresentanza polisettoriale con ambizioni manageriali, in una fase di transizione sul piano organizzativo e gestionale resa ancora più urgente dalla riduzione della loro omogeneità interna e da una sorta di crisi di identità dell'impresa cooperativa, riguardante i suoi requisiti mutualistici e di partecipazione democratica del corpo sociale. Nella ricerca di una maggiore efficienza si denunciano eccessi di burocratizzazione, di sottocapitalizzazione di talune imprese, di mancanza di sinergismo tra i diversi settori: il problema sembra oggi quello di riuscire a coniugare l'efficienza con il rilancio della socialità e dell'obiettivo della continuità organizzativa dell'impresa, al di là della stessa norma legislativa che genericamente fissa "il vantaggio mutualistico dei soci" nella fruizione di beni e di servizi o di occasioni di lavoro a condizioni più vantaggiose rispetto al mercato.
La cooperazione nacque in Europa, in Inghilterra e in Francia in particolare, nella prima metà del secolo scorso. Fu figlia dell'associazionismo solidaristico propagandato dai riformatori sociali dell'Ottocento, tanto liberali quanto democratici, socialisti e cristiano-sociali. In questo ambito l'idea cooperativa si caricò di significati utopici, dando poi vita storicamente a esperienze diverse. Secondo lo schema interpretativo di H. Desroche vi furono: l'associazionismo operaio di tipo bucheziano; l'esperienza comunitaria, inizialmente di impronta owenita, che si diffuse poi in Francia fino al 1864 ed è riemersa nel XX secolo nei kibbutzim (dal 1910) e quindi nelle associazioni di lavoro delle realtà agroindustriali; il modello partecipativo, basato sull'integrazione di talento, capitale e lavoro, di origine fourierista, che ebbe una prima esperienza concreta nel familistère di Guise, per affermarsi in seguito con la Mitbestimmung nella Germania Federale e, più di recente, nel complesso spagnolo di Mondragón e in taluni settori della cosiddetta economia sociale; l'integrazione con l'organizzazione sindacale, che fu sperimentata inizialmente nelle vetrerie operaie in Francia, per iniziativa di Jeanne Deroin (1848), e poi nelle gilde edili dei primi decenni del secolo; il federalismo, affermatosi in Inghilterra attraverso il magazzino all'ingrosso negli ultimi anni dell'Ottocento e soprattutto dopo il 1900, e che in Francia trovò un convinto sostenitore in Marcel Mauss, amico e discepolo di Jean Jaurès; infine il modello politico, che poneva la cooperazione al servizio di un progetto di rivoluzione economica e politica, specialmente negli ambienti più radicali del movimento operaio e socialista europeo, e quindi in quelli bolscevichi. Se, parafrasando la norma legislativa italiana, scopo dell'impresa cooperativa fu ed è quello di fornire beni o servizi o occasioni di lavoro direttamente ai membri dell'organizzazione a condizioni più vantaggiose di quelle che otterrebbero dal mercato, è certo che essa dette vita a un settore quantitativamente rilevante, aperto alle innovazioni, spesso dai confini incerti (fu classica al riguardo la polemica sulla cooperazione vera o falsa), talvolta in un legame più o meno stretto con preesistenti attività associative, come il mutuo soccorso, o con una sorta di prolungamento dell'attività sindacale.In questo contesto lo schema interpretativo della storia della cooperazione, già emerso alla fine del secolo scorso e basato su una triarchia che aveva i suoi punti di riferimento nell'Inghilterra per la cooperazione di consumo (Probi Pionieri di Rochdale e magazzini all'ingrosso), nella Germania per quella di credito (casse Raiffeisen e banche popolari di Schulze-Delitzsch) e nella Francia per quella di produzione (associazionismo quarantottesco), appare troppo restrittivo e di comodo, anche se ha avuto larga influenza e ancora oggi trova dei sostenitori.
Nata in relazione all'affermazione del mercato capitalistico, con intenti ora di resistenza, ora di adattamento, l'associazione economica volontaria senza fini di lucro si definiva sul piano giuridico e organizzativo negli ultimi decenni dell'Ottocento, in un processo di differenziazione nei confronti delle società puramente assistenziali e di 'resistenza': finiva la 'preistoria' (Totomiantz) e iniziava la fase della maturità. La costituzione a Londra nel 1895 dell'Alleanza Cooperativa Internazionale ne rappresentò il suggello, e contribuì alla fortuna dei principî dei Probi Pionieri di Rochdale come fattore unificante di tutto il movimento. Se agli inizi la cooperazione era stata incoraggiata dal padronato e dalla borghesia liberale per un fine di integrazione sociale e politica del proletariato, ma anche a sostegno dell'attività produttiva di ceti artigiani e impiegatizi e dei piccoli proprietari, a cavallo del secolo essa diventò, accanto al partito e al sindacato, 'la terza colonna' dell'edificio costruito dal movimento socialista per l'emancipazione della classe operaia. Le diffidenze delle prime generazioni socialiste, impegnate soprattutto nella formazione e nella legittimazione dei partiti operai nazionali, apparivano superate di fronte ai risultati conseguiti in termini economici, ma anche di aggregazione del consenso, di reperimento di fonti finanziarie e di creazione di sedi materiali per l'organizzazione politica e sindacale. Nasceva allora la teoria della cooperazione 'di classe', in contrapposizione a quella 'neutra' attribuita alla borghesia liberale e democratica; si individuava nella cooperazione un collettivismo "più elastico" (Jaurès) o "volontario" (Mauss); si affacciavano progetti di cooperazione 'integrale', fondati sulla cosiddetta sovranità del consumatore, o di cooperative commonwealth (Potter) che si coniugavano con il socialismo. Ciò coesisteva, tuttavia, con perduranti elementi di conflittualità con il partito in merito alla cosiddetta autonomia dell'impresa cooperativa, di cui in ogni caso si affermava la centralità operaia. Sul piano storico il tema del rapporto tra politica e cooperazione si è tradotto nel quesito se l'ideologia sia stata, e sia, un freno o un incentivo allo sviluppo dell'impresa.
Restavano fuori dall'influenza socialista un ampio settore cooperativo, e in particolare il credito popolare e le mutue assicurazioni, di composizione piccolo- e medio-borghese, gran parte dell'associazionismo rurale, rivolto verso l'utenza urbana impiegatizia e piccolo-borghese, una cospicua area del movimento legata a strutture associative preesistenti e fortemente localistiche. Questo fu il terreno privilegiato di intervento non solo dei liberali, ma anche dei cristiano-sociali e dei cattolici, che in molti casi adottarono e svilupparono i modelli organizzativi dei primi (come per le casse rurali), accentuando semmai i fattori della volontarietà, della cointeressenza nella gestione amministrativa, della gradualità, dell'interclassismo e spesso anche della confessionalità. Nel lungo periodo, venuta meno negli ultimi decenni la cosiddetta centralità operaia, è stato il settore che ha manifestato la maggiore solidità organizzativo-imprenditoriale. Diventata, in una società di massa, un fattore essenziale delle subculture socialista, cattolica e cristiano-sociale, la cooperazione svolse un ruolo importante nella diffusione di una coscienza democratica e autoemancipatrice presso strati notevoli della popolazione europea tra Ottocento e Novecento. Due furono i tipi di impresa fondamentale: di servizio, e di lavoro e produzione. Quella di servizio ai consumatori prevalse per un lungo periodo in seno all'Alleanza Cooperativa Internazionale, contribuendo alla fortuna di una teoria fondata sull'egemonia del consumatore, secondo la quale l'interesse di questi si identificava con quello generale. La cooperativa di consumo riteneva di essere la sola autentica, rimproverando agli altri settori un prevalente corporativismo e particolarismo. Ma a partire dalla metà degli anni cinquanta si è registrata una costante diminuzione dei suoi effettivi rispetto ad altri tipi di cooperazione, mentre di recente, di fronte all'efficacia della concorrenza privata, sono venute meno alcune importanti e tradizionali aree cooperative. Abbandonato qualsiasi progetto di riforma globale della società, il settore sembra oggi impegnato nella difesa delle tradizionali posizioni sul mercato attraverso processi di ristrutturazione e di concentrazione. In grande sviluppo sono invece le cooperative di servizio nel settore agricolo, sia per l'approvvigionamento, sia, e soprattutto, per la commercializzazione. Per lo più le federazioni cooperative agricole sono riuscite a integrarsi con la mutualità agricola e con il credito. In molti paesi grandi consorzi cooperativi riescono a controllare anche il 70-80% del mercato (ad esempio lattiero-caseario), ma subiscono spesso l'agguerrita concorrenza delle multinazionali, che usufruiscono di una maggiore concentrazione di potere decisionale e di intervento.
Un settore di elevate prestazioni è diventato quello della cooperazione di servizio al risparmio-credito. In esso rientrano: il credito agricolo, il più antico e consistente, con caratteristiche più o meno accentuatamente regionali; il credito mutualistico, in parte ispirato a Raiffeisen e per lo più libero, cioè esente da connessioni con il settore pubblico; il credito popolare, le cui origini risalgono a Schulze-Delitzsch e a Luigi Luzzatti, che si è indirizzato tradizionalmente verso le piccole e medie imprese, il commercio e la libera professione. Connesso al credito è il settore relativo alla copertura dei rischi sociali, anch'esso in ascesa.L'impresa cooperativa di lavoro e di produzione invece ha un'incidenza numerica minima nel movimento cooperativo mondiale, ma comunque ha rivestito un'importanza storica fondamentale. Essa ebbe una notevole fioritura durante la Seconda Repubblica in Francia, e poi si diffuse nel resto d'Europa come cooperativa di produttori, sia di agricoltori che di commercianti e artigiani, titolari di una piccola impresa individuale familiare o appartenente alla categoria delle piccole e medie imprese, con autonomia gestionale. Fin dalla seconda metà del secolo scorso tale impresa cooperativa si definì anche come società di lavoratori, il cui modello più classico fu quello delle cooperative operaie di produzione industriale, diffuso in particolare in Francia e in Italia: essa ha trovato più di recente una significativa applicazione in Spagna (complesso di Mondragón), e talvolta si pone in correlazione con l'impresa comunitaria e con il sindacato (Danimarca). Se nell'Europa orientale nel secondo dopoguerra si sono attuate collettivizzazioni tramite la cooperazione (con la parziale eccezione della Iugoslavia), nell'Europa occidentale si mettevano in pratica forme di socializzazione volontaria, specialmente in ambiente agricolo, dando vita a piccole cooperative per la gestione di macchine agricole e per il riaccorpamento e la gestione dei terreni, che però restavano spesso di proprietà individuale. Su tutto il settore, che nella Comunità Economica Europea, nel 1985, dava lavoro a oltre 800.000 lavoratori, una notevole influenza aveva esercitato la spinta verso l'autogestione. È rimasto un problema per lo più aperto quello dell'adattamento delle microcooperative di lavoro alle macrocooperative di servizi (credito, approvvigionamento, commercializzazione). Nel complesso il movimento cooperativo, che aveva superato la difficile prova di due conflitti mondiali e che era sopravvissuto efficacemente anche nelle aree a regime fascista - sia pure con processi di 'allineamento' autoritario e burocratico -, attraversa da alcuni anni una difficile fase di transizione che ha comportato alcune perdite, ma anche alcuni successi. Agli inizi degli anni ottanta nei paesi della CEE si contavano 55 milioni di cooperatori e oltre 60 milioni di assicurati mutualisti. Dall'Europa e dall'America settentrionale l'idea cooperativa si è diffusa in Asia e in Africa (dal 1960), anche se qui con risultati complessivamente deludenti per l'ipertrofia delle strutture burocratiche pubbliche e per la sostanziale impreparazione tecnico-amministrativa. Nel 1977, comunque, aderivano all'ACI 175 organizzazioni regionali o nazionali di 65 paesi, in rappresentanza di oltre 355 milioni di soci. Oggi si calcola che, con la Repubblica Popolare Cinese, i soci di cooperative siano almeno 500 milioni.
Nei paesi di tipo occidentale la cooperazione ha dovuto subire la sfida del mercato e affrontare contemporaneamente trasformazioni sociali profonde che hanno modificato sociologicamente e culturalmente anche i suoi soggetti tradizionali. Oggi il movimento cooperativo si domanda se i 'sacri' principî di Rochdale siano ancora pienamente validi o richiedano un aggiornamento radicale, al fine di garantire lo sviluppo. Esso ricerca una nuova legittimità in un nuovo fattore 'militante', ma mentre alcuni attribuiscono l'attuale crisi di identità alla precedente opzione 'neutrale', che avrebbe indotto l'impresa cooperativa a trasformarsi sempre più in una semplice impresa capitalistica e ad accentuare la dicotomia tra gestione e morale, altri auspicano una più aperta deregulation. Mentre ci si interroga sulla natura mutualistica dell'impresa cooperativa - che tra l'altro impone vincoli alla remunerazione del capitale - lo stesso principio del ristorno viene messo in discussione a favore di una destinazione sociale degli utili in opere e in servizi di interesse comune per i soci. La tendenza alla concentrazione, specialmente nel settore del consumo, ha creato tre ordini di problemi: l'invecchiamento del corpo sociale, con un'implicita influenza negativa per quel che riguarda il rinnovamento tecnologico e aziendale; la formazione di un corpo tecnico-manageriale a tempo pieno, con la conseguente tendenza all'autonomia degli organi direttivi, e quindi al progressivo distacco dalla base sociale; la messa in discussione dell'utilità della partecipazione sociale alla definizione della strategia dell'impresa. La questione più rilevante, ma di ardua soluzione, sembra essere oggi quella di conciliare la ricerca di una maggiore efficienza (resa più difficile dall'insufficiente sinergismo e dagli eccessi burocratici) con il rinnovamento del patto associativo tradizionale, e l'incremento della produttività e della competitività sul mercato con il privilegiamento dell'obiettivo della continuità organizzativa e del perseguimento dell'utilità sociale. (V. anche Autogestione e cogestione; Socialismo).
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