ASSOCIAZIONE
di Pierpaolo Donati
Tradizionalmente lo studio dell'associazione umana è stato svolto come parte dell'analisi delle comunità e, dal XIX secolo, dei gruppi (o raggruppamenti) sociali in generale. A partire dalla civiltà greca, e fino all'epoca moderna, si presuppone una tendenza naturale dell'essere umano a vivere con i suoi simili e si descrivono le forme associative in rapporto alle funzioni specifiche che un dato gruppo assolve o dovrebbe assolvere per l'insieme della società.Nell'associazione si vede un finalismo intrinseco che porta, quasi lungo un continuum, dai presupposti biologici (di affinità e complementarità), attraverso i bisogni psichici (affettivi e solidaristici) e quelli materiali (di sopravvivenza), alle espressioni culturali mutevoli a seconda dell'area geopolitica considerata. L'associazione è vista come un gruppo che raccoglie una molteplicità di individui connessi in modo tale che il singolo si senta parte di un 'noi' comune: è "un nesso di creature sociali che assumono fra loro relazioni sociali ben determinate" (v. MacIver e Page, 1949, p. 14), dove è chiaro che 'relazione' può significare qualunque cosa. Il termine può valere per una piccola famiglia, per una comunità locale, su su fino al gruppo etnico, che può comprendere milioni di individui. Fino alla nascita delle scienze sociali moderne l'associazione è stata considerata l'elemento originario di ogni sviluppo sociale, il fattore elementare del processo storico.
Lo studio delle associazioni su basi teorico-empiriche, e non più solo filosofiche, storiche e giuridiche, richiede un'autotematizzazione da parte della società; benché non sia difficile rinvenire i germi di tale impostazione in una serie di autori cosiddetti classici (da Aristotele a Ibn Khaldūn, a Vico, a Montesquieu), questo tipo di riflessione è strettamente collegato alla nascita e allo sviluppo delle scienze sociali moderne a base empirica.Il concetto arriva ad acquistare caratteristiche più 'positive' allorché si comincia a definirlo in termini comportamentistici (come avviene in Gran Bretagna e poi negli Stati Uniti), oppure quando se ne tenta una designazione di 'genere specifico' mediante una teoria sistematica formalizzata (come avviene nell'Europa continentale, in particolare in Francia e soprattutto in Germania). Si devono, a questo scopo, individuare dei 'modi di agire' o dei 'generi specifici' di configurazioni sociali, vuoi come 'tipi ideali' (per dirla con Weber), vuoi come 'tipi sociali' a base empirica (per dirla con Durkheim), che escludono il semplice aggregato (agglomerato) casuale, l'incontro o lo stare assieme momentaneo, il carattere effimero. L'associazione richiede una coscienza comune, connessioni stabili e una continuità di vita. Anche dal punto di vista antropologico, essa "significa propriamente una società costituita con un'esistenza permanente, una collettività di persone reclutate sulla base di principî riconosciuti, con interessi e norme comuni che fissano diritti e doveri dei suoi membri nelle loro specifiche relazioni e in rapporto ai comuni interessi" (v. Mair, 1965; tr. it., pp. 17-18). Può essere più aperta o più chiusa verso l'esterno, e più o meno organizzata al suo interno.
Diffusa è l'idea che l'associazione si sviluppi in modo organico dai livelli inferiori a quelli superiori dell'organizzazione sociale.
Si deve a C. Cooley il termine primary groups per designare le più piccole associazioni umane (famiglia, parentela, vicinato, gruppi amicali e di gioco), che sono dette primarie sia rispetto al tempo, in quanto seguono la crescita dell'individuo dalla sua nascita e ne forgiano la personalità di base, sia rispetto al ruolo che hanno per il mantenimento dei valori fondamentali di una cultura (o sub-cultura) determinata. Su scala più vasta si sviluppano i secondary groups, cioè i raggruppamenti sociali più vasti, dalle associazioni locali ai partiti politici, allo Stato (v. Cooley, 1909).
Fra le trattazioni sistematiche che cercano di specificare in tal senso le varie forme associative, troviamo la teoria dei raggruppamenti sociali di G. Gurvitch (detta "classificazione pluralistica delle manifestazioni della società": v. Gurvitch, 1950) e la successiva opera di L. Mendieta y Núñez, che raccoglie una rassegna di tipologie delle associazioni naturali e artificiali, da Aristotele alla società moderna. L'autore stesso distingue fra i "gruppi strutturali" della società (famiglia, clan, tribù, casta, Stato), i "quasi-gruppi strutturali" (comunità, nazione, classi sociali, masse), i "quasi-gruppi occasionali transitori" (folla, pubblico) e i "gruppi artificiali", definiti come "insiemi di persone che si riuniscono in modo permanente conformandosi a norme che essi stessi hanno creato e che accettano in vista di realizzare un fine comune" (gruppi statuali, religiosi, politici, economici, scientifici, culturali, sportivi, filantropici, segreti, patologici e misti) (v. Mendieta y Núñez, 1957).
Molti hanno sottolineato la diversità di approccio nello studio dell'associazione fra Stati Uniti ed Europa. Infatti, la sociologia americana si definisce, fin dal suo sorgere, come lo studio del modo in cui i gruppi sociali operano per lo sviluppo e la maturazione della personalità dei membri attraverso le interazioni. Per essa l'associazione è la risultante di individui. In Europa, invece, prevale una visione dell'associazione come qualcosa di superiore e anche trascendente l'individuo, come entità dotata in certo modo di vita propria.
L'idea dell'associazione come entità autonoma e sovraordinata idealmente e geneticamente ai suoi membri è chiaramente rintracciabile negli studiosi romantici e organicisti, sia sociologi che antropologi, dell'Ottocento. Tuttavia la distinzione fra approcci europei e nordamericani non può essere enfatizzata oltre certi limiti, sia perché si contano molte e rilevanti eccezioni nell'un campo e nell'altro, sia perché tali diversità si sono stemperate nel corso del Novecento.Comune a tutti è l'idea che l'associazione sia quella relazione-forma sociale che media il rapporto fra individuo e società.
Per quanto concerne le piccole associazioni, il risalto è giustificato dalla loro specifica funzione psicosociale: il contatto immediato tra gli individui che appartengono a tali gruppi permette loro l'identificazione sia con gli altri membri, dei quali hanno un'esperienza effettivamente vissuta e diretta, face-to-face, sia con l'unità associativa nella sua identità globale. Nelle piccole associazioni il singolo si sente come un individuo particolare legato insostituibilmente ad altri singoli. Il senso di ciò che è umano e la sua cultura specifica vengono acquisiti nelle associazioni primarie, non solo all'origine - nell'infanzia -, ma anche in tutto il corso della vita, in cui quell'esperienza si trasforma e si estende. L'intima vicinanza ad altri, e quindi l'appartenenza a gruppi che rendono il contatto umano immediato, è condizione del senso di umanità in generale (v. Horkheimer e Adorno, 1956; tr. it., p. 79). Per quanto riguarda le grandi associazioni, il carattere di mediazione sta nel proteggere una comunità da forze oppressive esterne e nel conferirle una certa autonomia. Per converso, però, l'identificazione con un'associazione grande e potente può alimentare taluni fenomeni distruttivi (per esempio di tipo autoritario), o dissociativi (come lo sciovinismo), o particolaristici (come i gruppi di pressione).
Si possono evidenziare delle esigenze psicologiche che stanno alla base delle associazioni. Rose, ad esempio, ritiene che le associazioni (volontarie) sorgano sulla base di tre bisogni psicologici fondamentali: di compagnia umana (fellowship), di sicurezza personale e di soddisfacente conoscenza delle forze che governano il mondo sociale (v. Rose, 1954, p. 103). Secondo questo autore, i suddetti bisogni non sono necessariamente biologici, ma hanno piuttosto origine nell'esperienza infantile o nascono dal vuoto psicoculturale che si genera allorché le istituzioni sociali cambiano e non adempiono più le funzioni che svolgevano in precedenza. L'associazione, quindi, quali che ne siano le dimensioni e le funzioni, è sempre il prodotto di caratteristiche generali di ogni concreta società, che condizionano le possibilità e le forme della sua strutturazione nello spazio-tempo sociale. Ad esempio, l'associazione moderna è sentita e rappresentata come un modo per evitare l'anonimato e la dispersione, perché la società è vissuta come anomica, frammentata, dispersiva e massificante. Il che non è delle associazioni nelle società premoderne, presso le quali l'associazione corrisponde maggiormente a bisogni primari di sopravvivenza, protezione e aiuto reciproco.
Dal punto di vista sociostrutturale, un tema fondamentale è costituito dai problemi che presenta il passaggio dalle associazioni primarie a quelle seconrie lungo il ciclo di vita dell'individuo. Le difficoltà di questo passaggio crescono con l'età moderna, nella quale si produce una polarizzazione fra le associazioni primarie, tendenzialmente solidaristiche, e quelle secondarie, tendenzialmente strumentali e competitive.In proposito, si deve a F. Tönnies la distinzione, divenuta classica, fra comunità (Gemeinschaft) e società (Gesellschaft) come tipi ideali (da lui detti 'normali') di formazioni (associazioni) tra cui si muove la vita sociale reale. Si deve, a questo proposito, sottolineare il fatto che è errato pensare che solo la Gesellschaft sia un'associazione (come fanno gli americani, i quali traducono questo termine con 'association'). Secondo questo autore, infatti, entrambi i tipi suddetti sono associazioni, in quanto entrambi sottendono relazioni positive di affermazione reciproca. Quando il gruppo sociale formato da tale rapporto positivo-affermativo è concepito come "vita reale e organica" si ha la 'comunità'; quando ci si riferisce a una formazione sociale "ideale e meccanica" si ha la 'società' (v. Tönnies, 1887; tr. it., p. 45). Le prime (associazioni comunitarie) sono caratterizzate dalla volontà essenziale, dal possesso, dal suolo e dal diritto familiare. Il loro prototipo è la famiglia. Le seconde (associazioni sociali) sono caratterizzate dalla volontà arbitraria, dal patrimonio, dal denaro, dal diritto delle obbligazioni. Il loro prototipo è l'associazione del capitale a scopo di commercio e di produzione (il tipo perfetto è la società per azioni, che non presenta alcuna commistione con elementi comunitari). La teoria tönnisiana, che risente dell'eredità culturale romantica, asserisce che nel corso della storia si va sempre più dalle 'associazioni comunitarie' alle 'associazioni sociali', senza per questo che l'originario spirito comunitario possa essere del tutto cancellato (esso rimane il germe della vita sociale). Si tratta dunque di una teoria che si esprime come tipologia duale della struttura societaria. Essa dice assai poco sulle modalità storiche e concettuali del passaggio dalle une alle altre. E ciò perché manca di una vera e propria teoria della differenziazione sociale.
Per arrivare a una tale teoria occorre che prima si risolva un dilemma fondamentale: se le associazioni siano il prodotto degli individui (teorie e approcci denominati di 'individualismo metodologico') oppure una realtà autonoma (teorie e approcci cosiddetti 'olistici').L'autore classico a cui maggiormente si richiamano le teorie individualistiche è M. Weber. Richiamandosi a Tönnies egli distingue fra due tipi generali di relazioni sociali, caratterizzandoli per il diverso riferimento simbolico e intenzionale dell'attore (il re-fero). "Una relazione sociale deve essere definita 'comunità' se e nella misura in cui la disposizione dell'agire poggia - nel caso singolo o in media o nel tipo puro - su una comune appartenenza soggettivamente sentita (affettiva o tradizionale) degli individui che a essa partecipano". "Una relazione sociale deve essere definita 'associazione' se e nella misura in cui la disposizione dell'agire sociale poggia su una identità di interessi, oppure su un legame di interessi motivato razionalmente (rispetto al valore o rispetto allo scopo)". In particolare (ma non esclusivamente) l'associazione può basarsi, in modo tipico, su una stipulazione razionale mediante un impegno reciproco. Allora l'agire associativo è orientato, nel caso della sua razionalità: a) razionalmente rispetto al valore, in base alla credenza nella propria obbligatorietà; b) razionalmente rispetto allo scopo, in base all'aspettativa della lealtà dell'altra parte.
Per questo autore "i tipi più puri di associazione" sono: a) lo scambio rigorosamente razionale rispetto allo scopo, e liberamente pattuito in una situazione di mercato, che costituisce un compromesso attuale fra individui che hanno interessi contrapposti ma complementari; b) la pura unione di scopo, liberamente pattuita, che costituisce la stipulazione di un agire continuativo diretto, nella sua intenzione e nei mezzi, soltanto a perseguire gli interessi oggettivi (economici o di altra specie) dei propri membri; c) l'unione di intenzioni, fondata su motivi razionali rispetto al valore e rappresentata dalla setta razionale, in quanto essa prescinde dalla cura di interessi emotivi e affettivi e si propone di servire soltanto la 'causa' (il che, in tutta la sua purezza, avviene soltanto in casi particolari) (v. Weber, 1922). Le relazioni di comunità e di associazione sono concetti più generali rispetto a quello di "gruppo sociale": perché ci sia quest'ultimo occorre "un certo apparato di persone" (o una certa persona singola che agisce come capo). Weber avverte anche che la grande maggioranza delle relazioni sociali ha in parte i caratteri della comunità e in parte i caratteri dell'associazione (così, per esempio, la famiglia può essere 'sentita' come comunità e 'utilizzata' come associazione).
L'autore cui si rifanno invece le teorie socioantropologiche di tipo olistico è É. Durkheim, il quale imprime allo studio delle associazioni una svolta decisiva. In primo luogo perché l'associazione è in lui sinonimo di società in un senso molto preciso: è la condizione originaria ('religiosa' in quanto legame reciproco, da re-ligio, re-ligare) di individui che sono i prodotti, non i creatori, di tali legami. In secondo luogo perché, in stretta connessione con ciò, formula con precisione la tesi secondo cui l'associazione è un fenomeno sociale che si espande nella misura in cui si sviluppa la divisione del lavoro sociale. Là dove la divisione del lavoro è scarsa, l'associazione è data per uniformità (ovvero è caratterizzata dalla 'solidarietà meccanica', nella quale gli individui coincidono punto per punto con la coscienza collettiva). A misura che la divisione del lavoro si sviluppa, l'associazione viene a fondarsi sulla distinzione o differenza (ovvero è caratterizzata dalla 'solidarietà organica', generata dalla specializzazione dei compiti e delle funzioni). È la prima formulazione di una teoria che lega il fenomeno associativo a una teoria elaborata e sui generis della differenziazione sociale. Associazione e cooperazione per Durkheim non sono sinonimi: la prima precede la seconda, e la seconda si sviluppa nella misura in cui la prima diventa più 'organica' (v. Durkheim, 1893; tr. it., pp. 277-278).
Si deve alla sociologia 'formale' di G. Simmel la prima esplicita concettualizzazione dell'associazione come relazione sociale pura, nel quadro di una prima teoria generalizzata della differenziazione sociale. Con Simmel nasce un approccio diverso, che va al di là della contrapposizione fra teorie individualistiche e olistiche dell'associazione. Tale approccio può essere chiamato 'relazionale' in quanto mette l'accento sulla relazione associativa in sé e per sé, come fuoco della realtà e dell'analisi. Per questo autore l'associazione è caratteristica propria di ogni interazione sociale (consensuale o conflittuale, quali che ne siano i contenuti) in quanto azione reciproca, sociabilità o associazione pura (Vergesellschaftung). La società è associazione in quanto è per definizione 'reciprocità' (azione reciproca) fra individui che possono essere definiti solo in rapporto a essa (v. Simmel, 1908). Con ciò Simmel vuol mettere in evidenza che, una volta entrati in contatto, gli individui si trovano necessariamente entro un tessuto di relazioni che è, per così dire, il fatto associativo allo stato latente. Attraverso specifici processi, la relazione può dissolversi o prendere forme più definite (per esempio concretizzarsi in forme statutarie). Tutta una serie di percorsi sono possibili nell'incessante trama delle interazioni quotidiane. È così che si costruiscono le norme sociali (come aspettative reciproche stabilizzate) e che queste diventano poi norme giuridiche di diritto positivo.Simmel richiama l'attenzione sul fatto che le associazioni, come "formazioni sociali più vaste", devono essere comprese in base ai processi relazionali microsociali, "vita pulsante della società": "fra gli esseri umani, l'associazione ha luogo incessantemente, ora riunendo, ora separando e poi riunendo di nuovo, in un eterno fluire e pulsare che tiene avvinti gli individui, anche là dove non dà origine a organizzazioni vere e proprie. [...] Tutti questi rapporti, insomma, che interessano migliaia di persone e si manifestano in forme episodiche o durevoli, consapevoli o inconsapevoli, stabili o effimere, ci tengono costantemente uniti gli uni agli altri. È in essi il luogo di una reciprocità fra elementi, cui spetta il compito di sopportare la durezza, l'elasticità, la molteplicità e l'unità di un vivere sociale tanto intelligibile quanto enigmatico" (v. Simmel, 1917; tr. it., p. 41).
A Simmel si devono studi rimasti insuperati, come quello sulle associazioni segrete e sulle cerchie sociali. In quest'ultimo ha mostrato che, quanto più la società si differenzia in cerchie 'intersecantesi' anziché 'concentriche', tanto più l'individuo può appartenere a un numero elevato di associazioni. Questo processo è praticamente sinonimo di differenziazione sociale. L'associazionismo è dunque direttamente correlato e proporzionale a questo processo, non a quello della segmentazione (riproduzione di unità sociali aventi la stessa struttura modulare). Nello stesso tempo Simmel ha mostrato, in modo del tutto originale, come avvenga il processo di autonomizzazione delle forme associative, che procede nella misura in cui la società viene configurandosi in modo sempre più funzionale, destituito di fini, valori e contenuti sostanziali. Simmel è anche il primo a generalizzare (nella sua Filosofia del denaro) quel tipo di analisi, inaugurato da Marx, che coglie nel clima culturale della modernità la tendenza a rendere sempre più astratte (in senso sia 'economico' che 'estetico' o di 'gioco') le relazioni associative.
Riallacciandosi a Simmel, L. von Wiese ha elaborato una teoria formalistica della società come associazione. Von Wiese, però, intende la società come costituita da due processi fondamentali distinti: associativi e dissociativi (ed eventualmente misti). Con ciò si discosta da Simmel, il quale aveva insistito sul fatto che la relazione sociale è sempre integrativa e conflittuale nello stesso tempo (anche se non sotto lo stesso rispetto), e che proprio in questo carattere interattivo è 'associazione'. Studiare la relazione sociale come processo associativo oppure dissociativo è per von Wiese lo specificum sociologicum: "La dottrina relazionale conosce solo movimenti di unificazione o di allontanamento; tertium in sociologia non datur" (v. von Wiese, 1933; tr. it., p. 334).
Più recente è l'analisi dell'associazione come fenomeno che si dispiega entro la dualità (o continuum) movimento/istituzione. Evolutivamente, si può intendere e analizzare l'associazione come il prodotto (il 'precipitato') di un movimento sociale, inizialmente effervescente o statu nascenti, o di un gruppo latente che, avendo preso coscienza di ciò che ne fonda la solidarietà, dà vita a un'azione collettiva organizzata, che poi acquista caratteri più razionali, meditati, stabili (v. Boudon e Bourricaud, 1982). Normalmente è così che nascono le istituzioni sociali (v. Alberoni, 1977). Ma è vero anche il contrario, dal momento che le istituzioni sociali esistenti comportano tensioni dissociative e spingono quindi alla formazione di condizioni strutturali e culturali da cui emergono nuovi fenomeni associativi (v. Gallino, 1981).
Se una volta l'uomo necessitava di, e aspirava a, una societas pre-figurata nella sua natura, nell'epoca moderna l'uomo è un costruttore di mondi sociali, dunque di associazioni che hanno un rapporto sempre meno diretto e causale con la sua natura. Associarsi diventa un'arte o una tecnologia delle possibili combinazioni, una forma della comunicazione libera da presupposti. Per tali costruzioni sociali bisogna creare in anticipo le condizioni necessarie del 'distacco', dal momento che, per associarsi, è necessario che esista in precedenza una 'distanza' fra gli individui. Dunque le associazioni 'diventano' il prodotto della crescita del distanziamento (pluralizzazione dei mondi della vita) e aumentano in proporzione a quest'ultima, assumendo forme più autonome.In quanto mediazione fra la totalità e il singolo, l'associazione resta un'istanza che cresce e si differenzia quanto più la società moderna tende a farsi società di massa e a produrre apparenti uniformità. Per la comprensione dell'associazione come fenomeno sociale si deve sviluppare un codice simbolico che vada al di là della sua spiegazione quale prodotto di individui (teorie individualistiche) o di strutture sociali (teorie olistiche) e intenderlo come fenomeno essenzialmente relazionale.
Nelle società semplici (cosiddette primitive o a scala locale) la vita sociale si svolge entro i vincoli (valori, norme, consuetudini, riti) dettati da una coscienza collettiva cogente, che lascia scarsissimo spazio alla differenziazione. Mancando il senso del 'privato' (v. Donati, 1978) manca anche la 'distanza' fra gli individui e quindi la loro possibilità di muoversi (associarsi) 'liberamente'. Dalla nascita alla morte, ruoli e tempi sociali sono pre-definiti dalla struttura rigida della comunità (intendendo la comunità come 'gruppo locale' o 'banda', termine che designa quindi genericamente i gruppi organizzati prevalentemente su base locale: v. Murdock, 1949; tr. it., p. 73). L'associazione è un dato di fatto, è l'appartenenza a un clan, tribù, stirpe, lignaggio, gens. Tale ascrizione definisce tutte le altre appartenenze e alleanze possibili (v. Lévi-Strauss, 1947).Nelle società antiche (per esempio Grecia e Roma), con le prime differenziazioni societarie (per esempio la netta distinzione fra città e campagna o la nascita di nuove classi sociali a seguito di una diversa divisione sociale del lavoro) sorge anche la possibilità di corrispondenti, ulteriori forme diversificate di associazione. Diventa esplicita l'idea di associazione come comunità di uomini che mira a realizzare ciò che appare loro (come singoli) un bene. I 'singoli' sono però ancora gruppi ristretti di 'uomini liberi'.
Tutte le comunità (associazioni) inferiori sono frazioni della comunità politica (πόλιϚ) e quest'ultima raccoglie solo i cittadini, i quali sono tali per la loro posizione di οἰϰοδεσπότηϚ (Aristotele, Eth. Nic., VIII; Pol., I).
Alcuni intravvedono in Roma, già a partire dal V secolo a. C., certe forme di associazione in un senso a noi più vicino: come i collegi compitalizi (specie di confraternite religiose che avevano lo scopo di celebrare feste e organizzare giochi popolari), i sodalitia (che sostenevano i candidati alle elezioni), i collegi di artigiani (che raggruppavano alcune categorie professionali e sfoceranno nelle corporazioni medievali). Si tratta però sempre di associazioni aventi un carattere non tanto 'volontario' (in senso individuale) quanto piuttosto largamente comunitario.
Durante il Medioevo, la contrapposizione fra publicus e privatus propria del diritto romano, sebbene in uso, non ha avuto carattere vincolante. Nel quadro dei rapporti giuridici e sociali dell'ordine feudale vi sono bensì associazioni superiori e inferiori, con le relative prerogative e privilegi, ma non vi è alcuno status definibile in termini di diritto privato, dal quale i privati possano, per così dire, passare in una sfera pubblica (v. Habermas, 1962).
Le associazioni mescolano insieme caratteri pubblici e privati. Tipico è il caso delle confraternite, degli ordini religiosi e delle corporazioni. Anche l'università nasce come associazione di studenti. Però, come tutte le associazioni, deve essere regolata o dalle istituzioni politiche o dalla Chiesa. Se qualche associazione nasce fuori di queste, deve prima o poi venire da esse inquadrata o incorporata, oppure diventa una forma deviante e va ad alimentare le forze del cambiamento che conducono verso la modernità.
Nella città medievale la forma di associazione più rappresentativa è quella della corporazione, che rappresenta in modo emblematico la commistione di pubblico e privato propria di questo assetto storico. Essa deriva da una singolare fusione fra la corporazione romana e la gilda, un'istituzione di origine germanica sorta per lottare contro le violenze e l'arbitrio, e che supplisce all'immobilità e alle carenze dell'autorità (si distinguevano in gilde di mutua protezione, gilde di mercanti e gilde di artigiani). Gli individui sono integrati in questa 'associazione', divenuta gruppo chiuso, in stretto rapporto alla condizione familiare e professionale, come parte dell'ordine istituzionale. In tal senso la corporazione è il prototipo delle forme associative considerate come corpi intermedi della società, se e là dove ci si riferisca a una semantica della società intesa come stratificazione per ceti (v. Luhmann, 1982).
Di associazione nel senso sociologico odierno del termine si può cominciare a parlare solo con l'inizio dell'epoca moderna. Il soggetto storico protagonista delle nuove forme associative è la borghesia, cresciuta poco a poco nei 'borghi' all'epoca dei liberi Comuni, fiorita con l'aprirsi dei mercati nel Cinque-Seicento ed esplosa in seguito con la prima rivoluzione industriale. È solo quando certi individui (gruppi di fuorusciti e devianti) si affrancano dai vincoli dell'ordine medievale, che nascono le libere associazioni economiche, culturali, religiose, sociali e politiche.Il processo storico ha svolte precise e punti di accelerazione, con il Rinascimento, la Riforma protestante e poi le moderne rivoluzioni politiche (inglese e francese) nel quadro del nascente capitalismo. È solo nell'ambito delle complesse condizioni storiche dell'Europa del XVII e XVIII secolo che nasce quell'individuo 'casuale' (svincolato, cioè, da forti legami sociali ascrittivi) che sta alla base della concezione propriamente moderna delle associazioni. Lo sviluppo più tipico e maturo si ha in Inghilterra, dove si afferma una semantica economica delle associazioni, legata alla concezione della società come mercato (liberalismo e relativa dottrina dei diritti civili, fra cui quello moderno di associazione). Anche le associazioni di beneficenza e perfino le friendly societies non possono essere veramente comprese che in relazione al nuovo ambiente storico e culturale. Da quel momento il fenomeno delle associazioni diventa incomprensibile se non lo si vede come il prodotto di quella grande trasformazione che è l'avvento del moderno capitalismo.
L'associazionismo moderno è strettamente correlato ai processi di industrializzazione, urbanizzazione e modificazione delle strutture politiche in senso democratico. All'interno di questo grandioso processo, l'associazione resterà d'ora in poi legata (in senso analitico e funzionale) alla sfera degli interessi. Tale sarà, ad esempio, tutto il complesso fenomeno associazionistico legato alle ideologie e ai movimenti socialisti nel corso del XIX e XX secolo (dalle società di mutuo soccorso alle comuni, ai sindacati, ai partiti politici), anche quando essi proclamino ideali di nuova umanità.In seguito, però, si assiste a ulteriori trasformazioni: l'associazionismo diventa uno stile di vita, una forma della qualità della vita, un modo di gestire le relazioni fra sistema sociale e ambiente. Nelle società complesse della seconda metà del XX secolo il fenomeno associativo si apre a nuove possibilità interpretative e attuative, ulteriormente libere da quei vincoli che il primo capitalismo aveva creato (per esempio gli status legati alla sua specifica divisione del lavoro, al suo tipico 'modo urbano' di vita, ecc.). L'associazionismo acquista un dinamismo allo stesso tempo più articolato e più intrecciato rispetto alle precedenti forme associative. In questa nuova dimensione, che possiamo brevemente definire postindustriale, le associazioni diventano un nuovo modo di 'fare società' attraverso la costruzione di 'reti sociali' che connettono formale e informale, privato e pubblico, ambiti e servizi di vita quotidiana che non rispettano più le antiche distinzioni, dicotomie o linee di separazione. Si pensi alle associazioni che erogano servizi a persone in difficoltà con criteri di cooperazione professionale, che presentano elementi di volontariato e sono magari finanziate da istituzioni pubbliche e operanti per conto di esse; oppure a quelle associazioni (per esempio di self-help, di mutuo aiuto) che lottano contro comportamenti dannosi, o per la reintegrazione sociale di handicappati, malati o disadattati; si pensi ancora alle Bürgerinitiativen o alle associazioni su single issues; alle associazioni di difesa del consumatore, del cittadino, di tipo ecologico e così via, tutte forme che agiscono mescolando in vari modi risorse e strumenti comunitari, pubblici e talora anche di mercato. Tutta una nuova trama associativa si dispiega, entro forme storicamente inedite.
In conclusione, il concetto di associazione può rimandare a quattro principali accezioni.
1. Una di tipo antropologico, che denota una propensione originaria degli esseri umani a vivere in raggruppamenti sociali. In questa accezione il termine mantiene, per così dire, un carattere indistinto e serve per designare tendenze (istinti, pulsioni, bisogni, costanti socio-biologiche, anche significati simbolici e religiosi ultimi) non dipendenti da un particolare momento o assetto storico. Questo codice simbolico prevale nelle società segmentarie o comunque là dove l'associazione è un fatto di affinità e somiglianza.
2. Una di tipo politologico, che denota una forma di mediazione degli interessi, e del loro governo, avente una propria autonomia, con potere superiore agli individui ma inferiore a quello dello Stato. In questa accezione si identifica con i cosiddetti 'corpi intermedi', che rimandano a una concezione organica e stratificata della società, anche se, con l'avvento dell'epoca moderna, può in qualche modo adattarsi a una concezione pluralistica e funzionale dell'organizzazione societaria. Questo codice simbolico prevale nelle società stratificate per ceti e/o classi.
3. Una di tipo economico, nella quale l'associazione è espressione della ricerca di interessi comuni che, per quanto latamente intesi, sono concepiti e governati da una logica dell'utilità. In questa accezione le associazioni sono i soggetti di una società concepita come mercato; si possono muovere, parallelamente, anche nella sfera politica, la quale diventa allora un''arena'. Questo codice simbolico delle associazioni prevale nelle 'società aperte', a orientamento utilitaristico e pragmatico.
4. Una di tipo sociologico, che denota una relazione o processo di unione, cooperazione, connessione a maglie più strette o più larghe, e il prodotto di tali relazioni e processi, in funzione di obiettivi essenzialmente sociali, cioè volti al benessere, o comunque a beni relazionali, secondo modalità autonormative. Questo codice simbolico è particolarmente adatto alle società di Welfare avanzato, nelle quali coglie il dinamismo proprio della sfera sociale interconnessa fra pubblico e privato che tende a espandersi. In questo caso le associazioni diventano costruzioni sociali di tipo relazionale, soggette a una propria logica, svincolata in linea di principio da rapporti diretti o strettamente causali con quelle delle altre accezioni (antropologica, politica ed economica), per quanto commista o dotata di riferimenti a esse.In breve, se è vero che la associazione è una tendenza propria (antropologicamente connaturata) degli esseri umani, le associazioni come noi oggi le intendiamo sono un prodotto dell'evoluzione connessa al tipo e al grado di differenziazione sociale che viene posto in essere da una concreta collettività o dall'intera società, utilizzando un codice che può essere di tipo politologico, economico o sociologico, o una loro combinazione; di fatto, è questo articolarsi secondo uno sviluppo multidimensionale che rende così arduo lo studio delle associazioni come forme sociali.
È necessario comprendere a fondo che cosa significhi che le associazioni, intese nel senso in cui oggi comunemente ne parliamo, sono il prodotto della modernità (o, se si preferisce, del processo di modernizzazione), e cosa ciò comporti per lo sviluppo sia delle forme associative che del sistema societario complessivo.In Europa, come si è detto, l'origine e lo sviluppo delle associazioni sono legati alla nascita della 'sfera pubblica borghese'. Esse trovano il loro terreno di coltura in quelle estese reti orizzontali di scambi che si sviluppano senza poter essere più ricondotte né a forme di scambio chiuse nella comunità (famiglia-parentela), né a rapporti verticali di dipendenza politica o religiosa (Stato e dominio di ceti, o Chiesa). Le associazioni fioriscono nel corso del Sei-Settecento come processi di autochiarificazione e autoorganizzazione dei privati intorno alle esperienze, ai bisogni e alle aspirazioni della loro nuova condizione (privata).
In Inghilterra (già a partire dalla Magna Charta, nel 1215), questo processo assume i caratteri di una limitazione dei poteri del sovrano, di una garanzia per i corpi intermedi e di un diritto di autogoverno della società civile. In Francia, invece, la tendenza assume forme più radicali. Qui sono i diritti dell'individuo astratto dalla comunità che vengono enfatizzati. Con la Rivoluzione francese si arriva addirittura ad abolire le associazioni perché considerate un intralcio all'affermazione dei diritti individuali e al potere della 'volontà generale' (è noto l'impianto individualistico della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 26 agosto 1789, così come si devono ricordare lo scioglimento di tutte le organizzazioni religiose e la costituzione civile del clero nel 17891790 e l'abolizione di tutte le associazioni professionali con la legge Le Chapelier del 1791).
L'associazione borghese è basata sull'eguaglianza politica dei membri e sull'estraneità rispetto al campo politico dell'assolutismo. Per questo nasce in forma segreta: tale prassi, tipica, nell'età dell'illuminismo, non solo delle logge massoniche, ma anche di molte associazioni e società conviviali, ha un carattere 'dialettico' verso il sovrano assoluto; non a caso è stato detto che "la società civile non è altro che un frutto della Libera Massoneria" (E. Lessing). Nella misura in cui le associazioni segrete possono uscire allo scoperto senza pericolo, dalle file dei notabili borghesi sorgono altre associazioni che, sempre sulla base della cooptazione, si trasformano in associazioni aperte le quali assicurano un accesso relativamente facile ed esplicitano una serie di criteri istituzionali, comuni e visibili, per la vita associativa.Nasce così la caratteristica fondamentale delle associazioni moderne, basate su rapporti fra eguali, semplicemente in quanto uomini. Sebbene all'inizio l'uomo sia ancora di fatto identificato con il borghese, l'associazione diventa una sfera in cui le leggi dello Stato (gerarchia e dominio) e le leggi del mercato (competizione e sfruttamento) sono sospese. Si richiede sempre più un tipo di relazioni sociali che non presupponga l'eguaglianza di status, ma ne astragga sistematicamente.Alquanto diversa, anche se per molti aspetti convergente, è la via seguita nel Nuovo Mondo. Nell'America del Nord, lontano dalle stratificazioni storiche dell'Europa, si sviluppa un tipo di società che incarna l'ideale associazionistico moderno in una forma pura e sui generis. È il modello democratico quale ci è stato tramandato da A. de Tocqueville. Esso si basa su una libertà di associazione in linea di principio la più estesa possibile e sull'accento, che è insieme una cultura civica e una religione civile, posto sulla partecipazione come diritto-dovere di ciascun individuo (v. Almond e Verba, 1963). Tocqueville riferisce la partecipazione associativa a tre tipi di associazione: quelle permanenti a base territoriale (per esempio le contee), quelle politiche (per esempio i partiti), quelle civili (per esempio culturali ed educative). Egli vede una sinergia fra tutte queste forme, anche se nota che è nelle associazioni politiche che si apprende la 'teoria generale delle associazioni'. In tutti questi casi non si tratta tanto di combattere contro qualcuno, quanto di fare assieme qualcosa.
Per Tocqueville l'associazione civile è l'istituzione sociale fondamentale. Essa ha funzioni di autogoverno, di critica delle leggi e di cooperazione. Quanto ai fini, vi è quello manifesto di far fronte a bisogni comuni, ma più importante ancora è quello latente della difesa e della promozione delle libertà. Soltanto l'associazionismo può bilanciare gli effetti negativi delle tendenze egualitaristiche che egli vede prorompere in Europa: "Tra le leggi che reggono le società umane, ve n'è una che sembra più precisa e più chiara delle altre. Perché gli uomini restino civili, o lo divengano, bisogna che tra loro l'arte di associarsi si sviluppi e si perfezioni, nella stessa proporzione in cui aumenta l'eguaglianza delle condizioni" (v. Tocqueville, 1835-1840; tr. it., p. 601).
Se dunque nelle società europee l'associazionismo moderno è sin dall'inizio inserito in precise contrapposizioni (fra liberalismo e assolutismo prima e fra liberalismo e socialismo poi), il modello di sistema societario che emerge negli Stati Uniti è il preannunzio di una società altamente decentrata e complessa in cui l'associazione diventa uno stile di vita, per erigere una democrazia che sappia realizzare il massimo di sinergia fra libertà, eguaglianza e solidarietà. Di qui anche la sostanziale diversità nel modo d'intendere l'associazionismo: in Europa l'associazione ha sempre bisogno di una tutela statuale (regolativa in senso più aperto o più restrittivo), negli Stati Uniti è il governo che deve essere sorvegliato dalla società civile organizzata in associazioni.Con il XX secolo, però, le cose cambiano. Dopo la fase dei regimi totalitari (che hanno irreggimentato le associazioni sotto l'egida dello Stato e del partito unico), anche in Europa il processo di modernizzazione genera un'associazionismo più libero. Negli Stati Uniti, per contro, la primitiva democrazia associativa perde taluni suoi connotati tipico-ideali, sia per l'avvento della cosiddetta società di massa, sia per le dinamiche interne alle organizzazioni associative, soggette a tendenze monopolistiche, oligarchiche (si ricordi la nota 'legge ferrea dell'oligarchia' di R. Michels) o elitarie (v. Mills, 1956).
Sociologicamente, quindi, sembra emergere una tendenza storica comune al mondo occidentale e modernizzato in genere: la 'pluralizzazione' del sistema societario, che procede attraverso l'incremento sia della differenziazione che dell'integrazione associativa.
Si deve a T. Parsons la formulazione della teoria più elaborata a questo riguardo. Essa sostiene che le associazioni democratiche sono un 'universale evolutivo', cioè una forma autonoma di organizzazione sociale che la società deve incontrare e incorporare se vuole svilupparsi. Sono esse che combinano il massimo possibile di diversità (diseguaglianza legittima) e di reintegrazione (quindi di eguaglianza) rispetto ai fondamentali valori, norme e processi che reggono la società e le permettono di accrescere le proprie capacità di adattamento di fronte alle sfide dell'ambiente interno ed esterno (v. Parsons, 1969). La teoria ha avuto successivamente importanti sviluppi, sia nella direzione del mantenimento della prospettiva normativa parsonsiana di tipo tocquevilliano (v. Munch, 1988), sia nella direzione di una 'denormativizzazione' dei sistemi sociali contemporanei (v. Luhmann, 1982).
È peraltro alla luce dei nuovi elementi storico-culturali che caratterizzano la modernità che anche la Chiesa cattolica ha riconosciuto in modo pieno il diritto di associazione al suo interno (Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, 1965; nuovo Codice di diritto canonico del 1983; l'esortazione postsinodale Christifideles laici del 1988), nel solco di un pensiero cattolico che aveva da tempo rivalutato l'importanza dell'associazionismo sociale (v. Sturzo, 1960; v. Ardigò, 1978; v. Campanini, 1987).Se si prescinde dalle diverse concezioni e vie di modernizzazione, e si cerca di mettere a punto una teoria dello sviluppo delle associazioni nella società complessa di oggi, si può dire che l'associazione diventa l'espressione sociologica del pluralismo proprio delle società caratterizzate dalla modernizzazione o che tendono a essa. Tuttavia è importante sottolineare la differenza fra il pluralismo associativo, che potremmo chiamare 'industriale', caratterizzato da soggetti che si muovono secondo la logica delle classi, dei partiti e dei sindacati (si vedano le teorie che vanno da Dahrendorf a Pizzorno, esposte in Pizzorno, 1980), e il pluralismo che potremmo chiamare 'postindustriale', caratterizzato da altre logiche.Con lo sviluppo di sistemi maturi di Welfare State la contrapposizione moderna fra mercato e Stato, fra concezione liberale e concezione socialista, a un certo punto cede il passo a un nuovo assetto in cui si confrontano due modi diversi di intendere e praticare l'associazionismo: il pluralismo sociale e il neocorporatismo.
Il pluralismo sociale mette l'accento sull'idea che la società debba promuovere il massimo di istanze associazionistiche, autogestionarie, di nuove forme d'integrazione fra libertà e solidarietà primarie e secondarie variamente intrecciate, anche per riformare uno Stato sociale di origine paternalistica, assistenziale e centralizzata. Esso rappresenta uno sviluppo del riconoscimento normativo degli interessi sociali proprio del liberalismo, e punta a una nuova forma democratica che sia espressione dell'emancipazione e dell'allargamento dei diritti di partecipazione (politica, culturale, sociale, economica) per tutti i gruppi sociali (non solo del 'quarto stato', ma anche dei più deboli e degli emarginati, dovunque siano) (v. Stasi, 1979; v. Kellerhals, 1974).
Per quanto concerne invece le tendenze in senso neocorporativo, occorre precisare che non si tratta soltanto del neocorporativismo inteso come forma di governo politico dei regimi avanzati di Welfare (compromesso fra Stato e mercato), che si regge sulla concertazione centralizzata fra sindacati dei lavoratori, associazioni padronali e governo/partiti (v. Wilensky, 1976); ma si tratta soprattutto del neocorporatismo inteso come crescita e trasformazione delle associazioni in forme di "governo privato degli interessi" (v. Streeck e Schmitter, 1985). Nella teorizzazione più paradigmatica, l'associazione diventa un principio-guida distintivo e autonomo della struttura complessiva della società. L'associazione è guidata dal principio della 'concertazione organizzativa', in contrasto con il principio della solidarietà spontanea che regola la comunità (famiglia e reti informali), con quello della competizione dispersa che regola il mercato (le imprese e le attività economiche in genere) e con quello del controllo gerarchico che regge lo Stato (burocrazie pubbliche).In questa configurazione vengono a maturazione, con una strutturazione però del tutto nuova, alcune idee, tendenze, impulsi, che hanno attraversato la modernità fin dai suoi inizi, sia come forme reattive all'anomia sociale (per esempio in Hegel o in Durkheim), sia come persistenza di una concezione organica della società (per esempio nella dottrina sociale della Chiesa, cfr. la Rerum novarum del 1891), sia ancora come prefigurazione di un 'nuovo socialismo' (per esempio l'idea di associationisme elaborata negli anni trenta del secolo scorso da Saint-Simon come alternativa al capitalismo).Si creano nuove forme di organizzazione degli interessi, soprattutto su base professionale, che assumono una varietà di ruoli nella formulazione e nell'implementazione sia delle politiche pubbliche che di quelle private, avendo come loro caratteristiche una forte autonomia e una capacità di combinare varie risorse e strumenti, che non sono riconducibili a schemi corporativi precedenti statualmente inquadrati (v. Williamson, 1989).
L'associazionismo diventa uno stile di iniziativa per la produzione, gestione e/o distribuzione di beni e servizi che, attraverso peculiari interconnessioni e networks, conferisce un profilo del tutto nuovo alle società che stanno nascendo sotto i nostri occhi, perché stravolge le tradizionali distinzioni tra sfera pubblica e privata (v. Donati, 1984). Si affacciano sulla scena forme associative inedite (per esempio le cooperative di solidarietà sociale, certe organizzazioni non tradizionali di volontariato come le comunità terapeutiche, associazioni di servizio come le HMOs, Health Maintenance Organizations, negli Stati Uniti, e così via) che esprimono forme di gestione degli interessi 'collettivi' attraverso complicate strutture di interconnessione fra sistema politico-amministrativo, mercato, comunità e associazioni vere e proprie (v. Franz e altri, 1986).Il quadro delle associazioni si allarga e si complica. Non ci sono più solo le forme associative che esprimono il 'privato borghese' o la solidarietà di classe, le forme della partecipazione per centralità (legate al prestigio o comunque alle caratteristiche dello status nella scala sociale) o le appartenenze subculturali di comunità. Nascono e si espandono forme che tendono a diventare un principio autonomo di organizzazione sociale che interagisce, generando nuovi scambi, con altre forme organizzative che non hanno nell'associazione il loro carattere (o principio-base) primario e distintivo, perché corrispondono ad altri impulsi (il profitto nel mercato, la benevolenza nel volontariato puro, il comando nelle azioni di politica statale, ecc.). Siamo così a una fase ulteriore della democrazia associativa. Il codice simbolico emergente dell'associazionismo non è più quello della 'rappresentanza' (come nel corporativismo medievale o nelle forme a esso ispirate), e neppure quello della 'partecipazione', che ha a lungo incarnato il senso dell'associazionismo nella modernità. Nelle società cosiddette postmoderne, a elevata complessità, le associazioni seguono un nuovo codice simbolico: quello della produzione o costruzione sociale di nuove autonomie sociali.
La definizione sociologica di associazione è una delle maggiori difficoltà che si incontrano nelle scienze sociali.Secondo Gallino, l'associazione deve essere intesa come una collettività volta alla realizzazione di scopi non raggiungibili dai singoli individui, sia essa istituita d'autorità, dall'alto, come un ordine professionale, sia essa costituita volontariamente dal basso, come un circolo ricreativo. Essa è comunque caratterizzata da una presenza stabile e da attività comuni che vengono assicurate almeno in parte da un'organizzazione. In tal senso è un mezzo per stabilire in modo deliberato, o rendere più efficaci, vincoli di solidarietà (v. Gallino, 1978, p. 45). In uno scritto successivo lo stesso autore fornisce la seguente definizione: il termine designa "qualsiasi tipo di collettività che si costituisca sulla base di decisioni individuali volontarie, in presenza di interessi comuni o complementari, a prescindere dal fatto che comprenda al presente, o tenda a sviluppare in futuro forme di organizzazione più o meno avanzata. Questa vastissima classe di collettività comprende ovviamente anche le organizzazioni in senso stretto" (v. Gallino, 1981, p. 23). Tralasciamo qui il problema se le organizzazioni siano un sottoinsieme delle associazioni (come ritiene Gallino), oppure se associazioni e organizzazioni siano due forme sociali distinte benché in parte coincidenti (come ritiene Scott: v., 1981).
La principale differenza fra le due definizioni di cui sopra sta nel fatto che nella seconda vengono a essere escluse le associazioni istituite dall'alto. Tale differenza non è casuale, ma indica il nodo concettuale del problema. La prima definizione corrisponde meglio alla tradizione culturale europea, la seconda si muove invece verso quella di origine anglosassone (segnatamente nordamericana). Negli Stati Uniti, infatti, le associations sono sinonimo di associazioni volontarie a carattere spontaneo (v. Hausknecht, 1962; v. Robertson, 1966; v. Smith e Freedman, 1972).
La definizione di Sills è, a questo riguardo, paradigmatica. L'associazione è identificata sulla base di tre elementi principali: 1) è un gruppo organizzato che si costituisce allo scopo di soddisfare alcuni interessi comuni dei suoi membri; 2) l'affiliazione è volontaria (nel senso che non è obbligatoria, né conseguita per nascita); 3) esiste indipendentemente dallo Stato. A questi criteri ne vengono aggiunti due ulteriori: 1) l'attività principale dell'associazione non è collegata con l'attività economica dei suoi membri (come avviene nei sindacati o nelle associazioni professionali o nelle cooperative); 2) le associazioni hanno una modalità di partecipazione definita occasionale (spare-time participatory associations) (v. Sills, 1968). Come alcuni hanno notato (v. Talamo, 1987, p. 190), per Sills (e gli americani in genere) forme associative come i sindacati, gli ordini professionali o le corporazioni artigianali - ma si potrebbero aggiungere anche molte associazioni religiose, politiche, educative tipiche dell'Europa - non sono associazioni (volontarie) nei termini sopra indicati, ma eccezioni.Consapevole di queste diversità e delle estreme incertezze che il problema ancora comporta, Knoke propone la seguente definizione minimale di associazione: "Un gruppo nominativo formalmente organizzato i cui membri, siano essi persone o organizzazioni, non sono in maggioranza ricompensati finanziariamente per la loro partecipazione" (v. Knoke, 1986, p. 2). Tale definizione viene praticamente a coincidere con il campo detto delle 'organizzazioni non di profitto' (v. Powell, 1987).La definizione deve dunque tener conto delle diverse caratteristiche dei contesti socioculturali e politici. Probabilmente, rispetto al significato più tradizionale europeo (di 'corpo intermedio'), l'associazione va subendo sia un processo di generalizzazione simbolica (in senso lato designa la vastissima classe dei raggruppamenti associati, sempreché abbiano una strutturazione e non siano puro movimento sociale), sia un processo di specificazione, che ne sottolinea la natura squisitamente volontaristica.
Una definizione generale che tenga conto di queste tendenze può pertanto essere la seguente: associazione è un gruppo organizzato su basi volontarie per il perseguimento di obiettivi comuni non raggiungibili individualmente dai singoli membri. In ogni caso, il dato più rilevante sta nel fatto che, negli scopi e nella vita dell'associazione, è in gioco un bene comune che ha un carattere relazionale: può essere prodotto e fruito solo assieme, e non è necessariamente utilitaristico (come nel concetto di interesse collettivo).
Va rilevato che tale communal good, oggetto di una nuova concettualizzazione in termini di diritti umani (v. Waldron, 1987), tende a influenzare lo sviluppo di un diritto sociale proprio delle associazioni, che tuttavia è ancora in fieri.
Le associazioni possono essere classificate in base a vari criteri: scopi, funzioni, strutture, modalità partecipative, fattori determinanti, e così via. È importante sottolineare che, quale che sia il criterio adottato, per esso vale l'ulteriore distinzione fra tipologia in senso normativo (in base a quanto formalmente dichiarato nello statuto o atto costitutivo) e quella in senso empirico (in base all'effettivo operare e ai suoi risultati).
Vediamo in sintesi i principali criteri tipologici.
1. Tipologie rispetto agli scopi (ossia le finalità dichiarate e gli interessi in senso lato che le motivano). In questa prospettiva si può distinguere fra: associazioni economiche (Unione industriali, Camera di commercio), professionali (Ordini professionali, ANAAO - Associazione Nazionale Assistenti Ospedalieri), sindacali (CGIL, CISL, UIL, Cobas), politiche (partiti politici), religiose (AC-Azione Cattolica, confraternite), culturali (Rotary Club, Lyons Club, circoli letterari), educative (AGE-Associazione genitori, Boy Scouts), scientifiche (Lega contro il cancro), caritative (San Vincenzo), assistenziali (Misericordie, pubbliche assistenze), sportive (CAI-Club Alpino Italiano, Aeroclub, circoli sportivi), di tempo libero (Club della forchetta, circoli delle vacanze). La lista potrebbe andare avanti per molto. Che dire delle associazioni femminili (UDI, CIF) o ecologiche (Italia nostra, WWF) o di promozione di nuovi diritti civili, sociali, culturali?Invero, il campo delle finalità è potenzialmente illimitato. Se si segue questo criterio, non è facile tracciare distinzioni. Spesso l'attribuzione a un tipo o all'altro è problematica perché ci sono sovrapposizioni. Si può ad esempio distinguere fra scopi di tipo strumentale e scopi di tipo espressivo (v. per esempio Palisi e Jacobson, 1977), oppure fra associazioni 'impegnate' (di tipo politico, educativo, ecc.) e 'non impegnate' (di loisir, tempo libero, ecc.) (v. Cesareo, 1966). Tuttavia qualsiasi criterio di classificazione in base agli scopi, se è utile per orientarsi, risulta necessariamente parziale e riduttivo dal punto di vista sociologico. Anche posto che un'associazione abbia un solo fine (ad es. strumentale, come un'associazione commerciale), nel perseguirlo deve necessariamente porsi altri scopi e assolvere altre funzioni.
2. Tipologie rispetto alle funzioni. Si distingue di solito fra associazioni uni-, multi- o sovrafunzionali. Il discorso è analogo al precedente. Generalizzando si può dire che, per quanto il patto o carta fondativa o statuto dell'associazione possa dichiarare determinate funzioni, in generale ci si deve attendere che tali funzioni manifeste siano accompagnate da altre funzioni, sociologicamente dette 'latenti' (secondo la nota distinzione di R. Merton) perché non consapevoli o non dichiarate o non intenzionali. Al limite si può sostenere che, quali che siano gli scopi e le funzioni dichiarate, al fondo ve n'è sempre una diffusa e pervasiva, quella dell'integrazione sociale dei membri fra loro e con la società, che ha un carattere sovrafunzionale.
3. Tipologie rispetto alla struttura interna. L'elemento decisivo è qui rappresentato dal tipo di relazioni che si stabiliscono fra i membri in ordine al funzionamento dell'associazione. Si hanno tipologie secondo l'assetto organizzativo (ripartizione dei compiti in termini di diritti-doveri), le modalità di distribuzione del potere (cariche sociali e loro attribuzione), le caratteristiche dei processi decisionali (assembleari o a più stadi). Sotto tutti questi aspetti si deve rilevare che la ricerca empirica è ancora largamente carente. Chi ha tentato l'analisi sul campo, con strumenti abbastanza sofisticati, ha dovuto richiamare l'attenzione sul fatto che l'effettivo funzionamento delle associazioni si discosta in genere molto dai modelli ideali della democrazia partecipativa proclamata in astratto.
4. Tipologie rispetto alle modalità di partecipazione. Dal punto di vista normativo l'appartenenza può essere totalmente libera o variamente condizionata (in modi espliciti o impliciti: ad esempio l'iscrizione a un ordine professionale è condizione necessaria ed esplicita se si vuole esercitare la professione corrispondente; di certe associazioni si può far parte solo se si è maschi o femmine; in certi casi occorre la presentazione di uno o più soci, e così via. Dal punto di vista empirico, invece, le modalità di partecipazione possono essere formali o informali, continuative o occasionali, secondo diversi criteri e gradazioni.Un modo meno tradizionale di analizzare le modalità di partecipazione alle associazioni propriamente volontarie fa riferimento al sistema degli incentivi di cui un'associazione dispone o per cui si caratterizza. Tali incentivi possono essere di tipo materiale individuale, legati a finalità ideali o alla solidarietà fra i membri. La tesi secondo cui la partecipazione è proporzionale al calcolo dei costi-benefici (v. Olson, 1965) non ha avuto sostanziali conferme empiriche. Nella maggior parte di queste associazioni la partecipazione non dipende in modo lineare dalla struttura degli incentivi selettivi che essa offre (v. l'ampia rassegna di Knoke, 1986).
5. Tipologie rispetto ai fattori che determinano il sorgere e lo svilupparsi delle associazioni. In passato, a partire dalla scuola americana di Chicago, e poi con alcune ricerche rimaste classiche (v. Lynd e Lynd, 1937; v. Warner e Lunt, 1941), l'indagine sulle associazioni è stata particolarmente rilevante negli 'studi di comunità'. Essa ha consentito una più profonda comprensione della struttura e della dinamica globale delle associazioni viste alla luce della compresenza, collaborativa o conflittuale, di più subculture esprimenti vari tipi di associazionismo, con modalità diverse di partecipazione e di influenza sulle vicende della comunità stessa.
Tra gli studiosi che hanno approfondito in modo originale questo approccio è da segnalare A. Meister (v., 1969 e 1972), le cui ricerche spaziano dalle società più industrializzate a quelle in via di sviluppo.
Generalizzando una teorizzazione elaborata già negli anni sessanta, in riferimento alla partecipazione associativa di tipo politico (v. Pizzorno, 1966), si può dire che, tradizionalmente, i fattori determinanti di cui si parla sono stati studiati in relazione: a) alle appartenenze di classe (cioè come espressione di una situazione di interessi o della posizione nel sistema produttivo e distributivo della società; vi rientra anche gran parte dell'analisi differenziale fra maschi e femmine, con l'asserzione della maggior 'propensione' partecipativa dei primi); b) alle appartenenze subculturali (cioè come espressione dei legami con tradizioni culturali e di comunità, in particolare quando si considerino i fenomeni migratori); c) alle appartenenze di status (cioè come espressione di una maggiore centralità nella scala sociale delle ricompense, del prestigio e del potere, secondo un sistema a gradazioni).
Oggi si può dire che tutte queste forme permangono là dove il contesto sociale mantiene caratteristiche di industrializzazione tradizionale, mentre subiscono forti cambiamenti là dove mutano le relazioni produttive (società dei servizi e settori postindustriali), o là dove le tradizioni culturali comunitarie subiscono processi di erosione e di modernizzazione (a opera dei mass media o di altro), ovvero là dove la cosiddetta 'società flessibile' aumenta le incongruenze di status e modifica gli stili di vita, in modo che diventa più difficile rintracciare una precisa cultura partecipativa (associativa) propria di ciascuno strato sociale.Molte tesi tradizionali, fino a ieri incontrastate, debbono oggi essere riviste. Si deve per esempio rivedere l'idea che l'associazione rappresenti lo sviluppo di funzioni in precedenza assolte dalla famiglia (tesi cara a quasi tutti gli autori a cavallo fra l'Ottocento e il Novecento). In realtà le funzioni svolte dalle associazioni non sono tanto l'estensione di quelle comunitarie (famiglia, parentela, vicinato, gruppi amicali), quanto nuove funzioni, che non sono peraltro svolte in modo isolato, ma piuttosto attraverso reti di interdipendenza e di interazione continua fra gruppi primari da un lato e associazioni organizzate dall'altro.Parimenti deve essere riconsiderata la tesi che l'associazionismo sia direttamente correlato ai processi di industrializzazione e di urbanizzazione. Perché una correlazione positiva sussista, occorre la presenza di variabili rilevanti (come lo sviluppo di fattori culturali favorevoli al sorgere di un'adeguata coscienza soggettiva, la liberazione da fattori ascrittivi legati ai ruoli sessuali e/o alla regolazione sociale dei gruppi di età, e così via). L'avvertenza vale soprattutto per i paesi di cultura non occidentale.Nei riguardi poi della tesi secondo cui il regime democratico favorisce l'associazionismo, bisogna osservare che essa è certamente vera se si vuole con ciò sottolineare la differenza rispetto a quanto accade nei regimi autoritari (i quali per prima cosa sottomettono le associazioni al loro potere), però si deve riconoscere che le relazioni tra forma del governo politico e fenomeno associativo sono interattive, non a senso unico, e inoltre che anche nelle democrazie odierne esistono difficoltà alla comprensione, al rispetto e alla promozione delle associazioni da parte dei sistemi politico-amministrativi.
6. Per concludere, si deve notare che le tipologie adottano in genere più criteri di analisi contemporaneamente. Se si studia la partecipazione, si prendono in considerazione una serie di variabili ritenute significative (età, sesso, stato civile, condizione professionale, struttura della famiglia, fede religiosa, affiliazione politica, razza, ecc. dei membri) e poi si elaborano i dati in modo da vedere quale profilo ne esce per le associazioni considerate. Se si studiano le associazioni in se stesse, si scelgono alcune caratteristiche prefissate e poi si elaborano tabelle a doppia o n-esima entrata, collocando quindi ogni associazione in una sola cella. Un esempio classico in tal senso è la tipologia basata su tre assi: il grado di accessibilità (alto o basso) nell'affiliazione, la capacità di conferire uno status prestigioso (alto o basso) da parte dell'associazione, le funzioni assolte dall'associazione (strumentali, strumentali-espressive, espressive) (v. Gordon e Babchuk, 1959).Per tutto quanto si è detto, in particolare circa la diversità dei contesti geopolitici e circa l'estrema complessità del fenomeno, sia rispetto alla continua produzione di normatività sociale e giuridica, sia rispetto alle azioni e agli effetti prodotti, l'associazionismo risulta essere un fenomeno difficilmente misurabile e inquadrabile dal punto di vista empirico. Si comprende quindi perché la ricerca sul campo sia stata sinora limitata a contesti piuttosto circoscritti e ad aspetti particolari. Un censimento appare quindi praticamente (e anche teoricamente) impossibile.
Le indagini empiriche segnalano comunque, in generale, una crescita dell'associazionismo nei paesi più industrializzati e modernizzati (per l'Italia v. Cattarinussi, 1987; v. Rossi e Colozzi, 1984; v. Cesareo e Rossi, 1989; v. Mortara, 1985; v. Eurisko, 1987; v. IREF, 1985 e 1988; per bibliografie internazionali e ricerche comparative v. Knoke, 1986).
Il problema centrale, però, è comprendere come le associazioni si differenzino e si integrino al loro interno e nei rapporti reciproci, in rapporto ad altre istituzioni sociali e alle interazioni complessive fra sottosistemi societari.
Uno schema di differenziazione sintetico può essere individuato distinguendo quattro fondamentali dimensioni analitiche delle associazioni: in senso 'economico' (funzione adattiva), in senso 'politico' (funzione di raggiungimento delle mete), nel senso dell''integrazione sociale' (funzione di integrazione normativa e di servizio sociale), in senso culturale ed educativo (funzione di mantenimento e sviluppo dei valori e dei modelli di comportamento fondamentali). Queste dimensioni operano all'interno di ogni gruppo, quali che siano i suoi obiettivi. Esse tendono non solo a interagire, ma anche a differenziarsi fra loro, così da modificare in continuazione la struttura e l'operare delle associazioni.
Inoltre ogni associazione, pur appartenendo a un campo o a un settore definito in base agli scopi, può svolgere azioni in altri campi o in altri settori, ma in tal caso si deve specificare che sta agendo sotto altra veste. Per esempio, un'associazione di volontariato può convenzionarsi con un ente pubblico per l'erogazione di servizi: in tal caso però diventa un'agenzia (v. Kramer, 1981) che interferisce con il mercato e con il sistema amministrativo. Oppure un'associazione può agire verso il sistema politico per influenzare le decisioni dei governi, ma allora deve essere chiamata gruppo di interesse o di influenza (lobby).Le associazioni, così come tendono a differenziarsi per tipi distinti fra loro, tendono però anche ad aggregarsi o federarsi all'interno dei vari tipi. Per esempio, le associazioni di tipo sindacale o professionale, inclusi certi settori dei servizi (come gli ospedali privati negli Stati Uniti), formano delle federazioni o superfederazioni (dette peak federations) che giocano un ruolo cruciale nella regolazione 'corporata' delle società complesse.
Tracciare confini definiti diventa problematico: le associazioni sono sistemi relazionali a confini variabili; occorre pertanto sviluppare un sistema di osservazione adeguato alle complesse transazioni interne ed esterne dell'oggetto considerato. Interessante, a questo proposito, è la prospettiva, sorta di recente, di una 'ecologia sociale delle associazioni' (v. McPherson, 1983): la proposta è di considerare le associazioni come gruppi sociali, sempre in via di creazione e dissoluzione, che si mobilitano e competono per l'uso delle risorse di un dato ambiente sociale, in vista della costruzione di 'nicchie' a differenti potenziali di adattamento.
Soltanto recentemente si è cominciato a mettere a punto una teoria socio-antropologica delle associazioni sufficientemente strutturata e generalizzabile. Poiché il suo oggetto è, sotto ogni punto di vista, 'relazionale', sia quanto ai contenuti che alle forme sociali, il suo compito va al di là dell'individuazione e della definizione di precise entità corrispondenti (empiriche o astratte), per investire soprattutto la chiarificazione della dinamica (processuale) delle relazioni sociali implicate, i loro prodotti ed effetti, dichiarati o meno, attesi o meno.Dal momento che il fenomeno delle associazioni è strettamente connesso alla crescita della differenziazione sociale, lo sviluppo di una siffatta teoria dipende dalla capacità di risolvere la polisemia e la sovradeterminazione del concetto attraverso un'analisi teorico-empirica che comprenda e spieghi la variabilità e complessità del fenomeno, tenendo conto al contempo dei processi di generalizzazione e di specificazione.Da un lato, come processo generalizzato, l'associazionismo rappresenta un meccanismo di 'bilanciamento' della rottura e diversificazione di precedenti legami sociali di appartenenza, in vista della costituzione di nuovi legami, connessioni, consociazioni. Dall'altro, a ogni nuova svolta epocale o sistemica nascono nuove modalità (contenuti e forme) di attuazione di possibilità associative in precedenza sconosciute o ritenute impossibili o improbabili. L'associazione quindi nasce dalla solidarietà e produce solidarietà, ma nello stesso tempo nasce da dissociazioni e produce mutamento e conflitti.
La specificazione avviene lungo un insieme di distinzioni-guida che diventano sempre più complesse, sia perché cresce il loro numero, sia perché, in parallelo, crescono le opportunità di intrecci reciproci. In generale la società moderna comporta un mutamento nelle caratteristiche delle associazioni; acquisività anziché ascrittività, particolarismo anziché universalismo, specializzazione anziché diffusività funzionale, strumentalità anziché pura espressività, orientamento ai bisogni e ai valori dell'individuo (Self) piuttosto che a quelli della collettività. Ma il passaggio non è lineare da un polo all'altro. Piuttosto il cambiamento del fenomeno associativo deve essere inteso come nascita di un codice simbolico per la costruzione di complessi networks relazionali, cioè forme organizzative sui generis, sempre più distinte dalla comunità, dallo Stato e dal mercato, che rispondono a esigenze associative genuinamente 'sociali', in particolare comunicative.
Per differenziare le associazioni si devono introdurre sempre nuove distinzioni-guida, per esempio ci si deve chiedere se esse sono: a) create dall'alto o dal basso; b) con affiliazione del tutto libera o in qualche modo condizionata; c) con criteri di inclusione espliciti e formalizzati oppure più impliciti e informali; d) volte a interessi propri oppure altrui; e) con un'organizzazione democratica diretta oppure indiretta; e così via. La lista potrebbe continuare a lungo. Questi criteri, combinati fra loro, servono comunque per definire le associazioni nella loro specificità.
La differenziazione va soggetta a sempre ulteriori combinazioni di criteri distintivi.Le distinzioni-guida che servono per differenziare le forme associative fra loro servono anche come criteri per distinguere le associazioni dalle altre forme di socialità, come i gruppi primari (a base naturale e comunitaria, come la famiglia), i movimenti sociali (come collettivi statu nascenti privi di una organizzazione definita), le classi sociali (come raggruppamenti strutturali definiti rispetto al sistema produttivo e distributivo di una società), le corporazioni (come organismi professionali ed economici aventi funzioni istituzionali nel sistema statuale), la massa (come aggregato di individui non aventi relazioni sociali reciproche, bensì caratteristiche di uniformità rispetto a un centro a essi esterno).Solo in questo quadro di specificazione dei criteri-guida è ancora possibile parlare dello Stato e delle organizzazioni altamente formalizzate (come le burocrazie pubbliche o le imprese) come di 'associazioni', e metterle a confronto con forme associative quali l'associazionismo sociale e il volontariato. Si tratta di comprendere i fattori che operano le selezioni e le loro combinazioni, in modo da mostrare come, nell'immenso oceano delle associazioni umane, si produca la loro continua differenziazione e integrazione, attraverso un gioco sempre più complesso di interazioni, interdipendenze e scambi che annullano precedenti confini mentre ne creano di nuovi
Alberoni, F., Movimento e istituzione, Bologna 1977.
Almond, G. A., Verba, S., The civic culture: political attitudes and democracy in five nations, Princeton 1963.
Ardigò, A., Toniolo: il primato della riforma sociale per ripartire dalla società civile, Bologna 1978.
Boudon, R., Bourricaud, F., Groupes, in Dictionnaire critique de la sociologie, Paris 1982, pp. 269-277.
Campanini, G., Personalismo e democrazia, Bologna 1987.
Cattarinussi, B., Associazionismo, in Nuovo dizionario di sociologia (a cura di F. Demarchi e altri), Torino 1987.
Cesareo, V., Aspetti e tendenze dell'associazionismo volontario, in "Studi di sociologia", 1966, IV, 3, pp. 299-316.
Cesareo, V., Rossi, G. (a cura di), L'azione volontaria nel Mezzogiorno fra tradizione e innovazione, Bologna 1989.
Cooley, C., Social organization, New York 1909 (tr. it.: L'organizzazione sociale, Milano 1963).
Donati, P., Pubblico e privato: fine di un'alternativa?, Bologna 1978.
Donati, P., Risposte alla crisi dello Stato sociale, Milano 1984.
Durkheim, É., De la division du travail social, Paris 1893 (tr. it.: La divisione del lavoro sociale, Milano 1962).
Durkheim, É., Leçons de sociologie, Paris 1950 (tr. it.: Lezioni di sociologia, Milano 1973).
Eisfeld, R., Pluralismus zwischen Liberalismus und Sozialismus, Stuttgart 1972 (tr. it.: Il pluralismo fra liberalismo e socialismo, Bologna 1976).
Eurisko, Indagine sociale italiana, Milano 1987.
Franz, H. J. e altri, Associations and coordination, in Guidance, control and evaluation in the public sector (a cura di F. X. Kaufmann e altri), Berlin 1986, pp. 531-555.
Gallino, L., Associazione, in Dizionario di sociologia, Torino 1978, pp. 45-48.
Gallino, L., Gli effetti dissociativi dei processi associativi nelle società altamente differenziate, in AA. VV., La società industriale metropolitana e i problemi dell'area milanese, Milano 1981, pp. 23-41.
Gordon, C. W., Babchuk, N., A typology of voluntary associations, in "American sociological review", 1959, XXIV, 1, pp. 22-29.
Gurvitch, G., La vocation actuelle de la sociologie, Paris 1950 (tr. it.: La vocazione attuale della sociologia, Bologna 1965).
Habermas, J., Strukturwandel der Öffentlichkeit, Neuwied 1962 (tr. it.: Storia e critica dell'opinione pubblica, Bari 1971).
Hausknecht, M., The joiners: a sociological description of voluntary association membership in the United States, New York 1962.
Horkheimer, M., Adorno, T. W., Soziologische Exkurse, Frankfurt a.M. 1956 (tr. it.: Lezioni di sociologia, Torino 1966).
IREF, Rapporto sull'associazionismo sociale, Rimini 1985.
IREF, Secondo rapporto sull'associazionismo sociale 1986, Milano 1988.
Kellerhals, J., Les associations dans l'enjeu démocratique, Lausanne 1974.
Knoke, D., Associations and interest groups, in "Annual review of sociology", 1986, XII, pp. 1-21.
Kramer, R. M., Voluntary agencies in the Welfare State, Berkeley 1981 (tr. it.: Volontariato e Stato sociale, Roma 1987).
Lévi-Strauss, C., Les structures élémentaires de la parenté, Paris 1947 (tr. it.: Le strutture elementari della parentela, Milano 1967).
Luhmann, N., The differentiation of society, New York 1982.
Lynd, R. S., Lynd, H. M., Middletown in transition, New York 1937 (tr. it.: Middletown, Milano 1970).
MacIver, R. M., Page, C. H., Society, New York 1949.
McPherson, J. M., An ecology of affiliation, in "American sociological review", 1983, XLVIII, pp. 519-532.
Mair, L., An introduction to social anthropology, Oxford 1965 (tr. it.: Introduzione alla antropologia sociale, Milano 1970).
Meister, A., Participation, animation et développement à partir d'une étude rurale en Argentine, Paris 1969 (tr. it.: Sviluppo comunitario e partecipazione sociale, Milano 1971).
Meister, A., Vers une sociologie des associations, Paris 1972.
Mendieta y Núñez, L., Théorie des groupements sociaux, Paris 1957.
Mills, C. W., The power élite, New York 1956 (tr. it.: L'élite del potere, Milano 1959).
Mortara, A. (a cura di), Le associazioni italiane, Milano 1985.
Munch, R., Understanding modernity, London 1988.
Murdock, G. P., Social structure, New York 1949 (tr. it.: La struttura sociale, Milano 1971).
Olson, M., The logic of collective action: public goods and the theory of groups, Cambridge, Mass., 1965 (tr. it.: La logica dell'azione collettiva: i beni pubblici e la teoria dei gruppi, Milano 1983).
Palisi, B. J., Jacobson, P. E., Dominant statuses and involvement in types of instrumental and expressive voluntary organizations, in "Journal of voluntary action research", 1977, VI, pp. 80-88.
Parsons, T., Politics and social structure, New York 1969 (tr. it.: Sistema politico e struttura sociale, Milano 1975).
Pizzorno, A., Introduzione allo studio della partecipazione politica, in "Quaderni di sociologia", 1966, XV, 3-4, pp. 235-287.
Pizzorno, A., I soggetti del pluralismo: classi, partiti, sindacati, Bologna 1980.
Powell, W. W. (a cura di), The non-profit sector: a research handbook, New Haven, Conn., 1987.
Robertson, D. (a cura di), Voluntary associations: a study of groups in free societies, Richmond, Virg., 1966.
Rose, A. M., Theory and method in the social sciences, Minneapolis 1954.
Rossi, G., Colozzi, I., Il volontariato in Italia: alcuni dati dalla prima ricerca nazionale sui gruppi di volontariato, in Le frontiere della politica sociale (a cura di P. Donati), Milano 1984, pp. 282-317.
Scott, W. R., Organizations: rational, natural, and open systems, Englewood Cliffs, N. J., 1981 (tr. it.: Le organizzazioni, Bologna 1985).
Sills, D. L., Voluntary associations: sociological aspects, in International encyclopedia of social sciences, vol. XVI, New York 1968, pp. 362-379.
Simmel, G., Soziologie: Untersuchungen über die Formen der Vergesellschaftung, Berlin 1908 (tr. it.: Sociologia, Milano 1989).
Simmel, G., Grundfragen der Soziologie, Berlin 1917 (tr. it.: Forme e giochi di società, Milano 1983).
Smith, C., Freedman, A., Voluntary associations: perspectives on the literature, Cambridge, Mass., 1972.
Stasi, B., Vie associative et démocratie nouvelle, Paris 1979.
Streeck, W., Schmitter, P. C. (a cura di), Private interest government: beyond the market and State, London 1985.
Sturzo, L., La società: sua natura e leggi, Bologna 1960.
Talamo, M., Le associazioni, in La società contemporanea (a cura di V. Castronovo e L. Gallino), vol. II, Torino 1987, pp. 189-204.
Tocqueville, A. de, De la démocratie en Amérique, 2 voll., Paris 1835-1840 (tr. it.: La democrazia in America, in Scritti politici, vol. II, Torino 1968).
Tönnies, F., Gemeinschaft und Gesellschaft, Leipzig 1887 (tr. it.: Comunità e società, Milano 1963).
Waldron, J., Can communal goods be human rights?, in "Archives européennes de sociologie", 1987, XXVII, pp. 296-322.
Warner, L., Lunt, P. S., The social life of a modern community, New Haven, Conn., 1941.
Weber, M., Wirtschaft und Gesellschaft, Tübingen 1922 (tr. it.: Economia e società, Milano 1974³).
Wiese, L. von, System der allgemeinen Soziologie, Berlin 1933 (tr. it.: Sistema di sociologia generale, Torino 1968).
Wilensky, H., The 'new corporatism', centralization and the Welfare State, London 1976 (tr. it.: Neocorporativismo, accentramento e Stato assistenziale, Bologna 1980).
Williamson, P. J., Corporatism in perspective, London 1989.
di Diana Vincenzi Amato
Il termine associazione viene usato sia per indicare l'atto con cui più persone si mettono insieme per svolgere un'attività o per raggiungere dei fini in comune, sia per indicare l'insieme delle persone stabilmente legate da tale accordo.Il termine così inteso è tuttavia troppo ampio e generico per definire correttamente e il primo fenomeno (l'atto) e il secondo (l'associazione). Non tutti gli accordi per lo svolgimento in comune di determinate attività sono infatti accordi associativi: ce ne sono per l'apporto di lavoro o di mezzi all'attività imprenditoriale altrui, dietro partecipazione agli utili (associazione in partecipazione), o per la coltivazione di un fondo, l'allevamento del bestiame o le attività connesse (patti agrari); ce ne sono per la regolamentazione della concorrenza tra imprenditori (patti di concorrenza e cartelli) o per costituire raggruppamenti temporanei di imprese per la realizzazione di opere particolarmente impegnative (joint ventures nell'esperienza americana; in Italia legge n. 584 dell'8 agosto 1977, che prevede la riunione di imprese sotto una società 'capogruppo' per l'appalto di lavori pubblici). Tutti questi accordi sono secondo molti riconducibili al contratto di scambio, e in essi manca comunque la volontà di dar vita a quell'ente a sé, rilevante all'esterno, cui si dà il nome di associazione.
A sua volta, l'unione di più persone per il perseguimento di fini comuni può non esser frutto di un loro accordo, ma derivare da un provvedimento dell'autorità amministrativa che istituisce l'ente (associazione obbligatoria o coattiva), al quale le persone che si trovano in una determinata situazione o che svolgono o intendono svolgere una determinata attività sono per legge tenute a iscriversi.Un significato più specifico dell'associazione come atto può essere dunque individuato nell'accordo con cui più persone danno vita a un ente collettivo (atto costitutivo) e comprendere anche l'atto con il quale una persona entra successivamente a far parte dell'ente costituito (ammissione, iscrizione). Quanto all'associazione come ente, questa può esser definita quale collettività volontariamente organizzata per il perseguimento di interessi comuni, capace di agire unitariamente all'esterno come portatrice di interessi distinti da quelli individuali dei singoli associati.
La pluralità di soggetti che fa da substrato agli enti associativi - e alla quale è da ricondurre la vecchia denominazione di corporazioni - li caratterizza rispetto ad altri enti operanti nel mondo giuridico, le fondazioni o istituzioni, nelle quali è dominante o prevalente il patrimonio e la sua destinazione a uno scopo.Anche nelle associazioni vi è di regola un patrimonio, o un fondo patrimoniale, così come nelle fondazioni non è assente l'elemento personale; ma il patrimonio, nelle associazioni, è strumentale al loro funzionamento, sicché teoricamente esso può venire a mancare senza che l'associazione si estingua, come avviene invece per le fondazioni; rispettivamente poi, e all'inverso, le persone fisiche che operano nelle fondazioni agiscono come strumenti o organi dell'ente stesso, e il loro venir meno, a differenza che per le associazioni, non incide in alcun modo sull'esistenza dell'ente, che c'è sin che c'è il patrimonio.
Al dato strutturale che distingue associazioni e fondazioni si riconducono diversificazioni nelle rispettive discipline, riguardo la formazione della volontà, i mezzi e lo scopo, che tuttavia non sempre si riscontrano sul piano reale. In particolare le associazioni dovrebbero distinguersi dalle fondazioni per il principio maggioritario nella formazione della volontà, per l'identificazione tra appartenenti alla struttura interna dell'ente e interessati o destinatari dell'attività, per il patrimonio, che sarebbe formato dal solo apporto degli iscritti.
Per converso, accade in concreto che l'associazione sia talora gestita da una minoranza all'interno del gruppo o da amministratori a questo estranei, che l'attività da essa svolta abbia carattere altruistico, a beneficio di persone diverse dagli associati, e che vi siano, e siano prevalenti, contributi esterni.
Parallelamente, la fondazione è spesso lo strumento adoperato dai gruppi per lo svolgimento di quelle stesse attività (benefiche, culturali, scientifiche) che possono essere svolte in forma associata: amministratori possono esserne gli stessi fondatori, lo scopo altruistico può inglobare quello 'egoistico' della fondazione e del gruppo che le ha dato vita.
Nonostante la rilevata elasticità delle rispettive discipline e la conseguente interscambiabilità nella prassi, va detto che tra associazioni e fondazioni è rimasta una rilevante differenza.
Come si vedrà, esistono associazioni riconosciute e non riconosciute, e anche per le fondazioni si parla di fondazioni riconosciute e non riconosciute. Tuttavia, mentre le associazioni hanno avuto una larghissima diffusione, e l'hanno avuta proprio quelle non riconosciute, le fondazioni sono da noi una realtà nell'insieme più marginale, e di quelle non riconosciute si mette in dubbio l'ammissibilità.
C'è da chiedersi perciò che cosa spieghi il diverso sviluppo delle une e delle altre in un sistema giuridico che, caratterizzato com'è dalla libertà contrattuale e dalla libertà associativa, avrebbe permesso un pari sviluppo di entrambe.Secondo alcuni la maggiore marginalità delle fondazioni, e in particolare la dubbia ammissibilità di quelle non riconosciute, deriverebbero da ragioni squisitamente tecnico-giuridiche: dal fatto che non potrebbero esistere patrimoni a destinazione vincolata se non nei casi stabiliti dalla legge, e dal fatto che, sottraendo la destinazione del patrimonio al riconoscimento amministrativo, si sottrarrebbe la fondazione a ogni verifica della rilevanza sociale del fine perseguito e ai successivi controlli sull'attività svolta.
Si tratta però di argomenti che potevano avere un peso con riferimento alle vecchie fondazioni erogatrici, nate da disposizioni testamentarie di un isolato benefattore, ma che non reggono di fronte al prevalere, su quelle, di nuove fondazioni: fondazioni che, nate per iniziativa di un gruppo di fondatori e da questi amministrate, perseguono scopi culturali o scientifici, o fondazioni il cui scopo si esaurisce nello svolgimento di un'impresa (fondazioni d'impresa), o ancora fondazioni che svolgono un'attività economica per la realizzazione dei propri scopi (imprese di fondazione).
Più che ragioni tecniche sembra vi sia stata piuttosto una maggiore vischiosità che ha tenuto legate le fondazioni, a differenza delle associazioni, al vecchio sistema che connetteva l'esistenza di un ente al conseguimento della personalità giuridica mediante il riconoscimento amministrativo. Un sistema, però, che era strettamente legato alla diffidenza con cui in passato, a partire dalla Rivoluzione francese, venivano guardati tutti i corpi intermedi, associazioni e fondazioni, quali possibili centri di potere politico, e che non trova più alcuna ragione in un regime improntato alla piena libertà di agire dei privati.
3. Associazioni e società
Di gran lunga più rilevante della distinzione tra fondazioni e associazioni è la contrapposizione, nell'ambito degli enti associativi, tra le associazioni in senso stretto da un lato e, dall'altro, le società civili e commerciali, le cooperative e le mutue assicuratrici, e i consorzi con attività esterna.La distinzione è netta nel nostro codice, vuoi per la collocazione - nel primo libro le associazioni, nel quinto le altre figure - vuoi per il diverso sistema di attribuzione della personalità giuridica. La si ritrova, però, anche in altri ordinamenti europei, e ha una corrispondenza, sia pure parziale, nella contrapposizione tra not for o non profit organizations e business corporations propria dei sistemi anglosassoni.
L'elemento scriminante tra società e associazioni in senso stretto era indicato tradizionalmente nello scopo, lucrativo nelle prime, non lucrativo nelle seconde; oggi si preferisce parlare di scopo (o attività) economico o non economico, in modo da collocare accanto alle società anche le altre figure sopra ricordate, dove la distribuzione degli utili è considerata non essenziale, come nelle cooperative, o vietata, come nei consorzi tra imprenditori (legge n. 240 del 21 maggio 1981), e in modo da comprendervi anche le società a partecipazione statale, dove la partecipazione pubblica non ha fini lucrativi, ma si pone come strumento di politica economica.La sostituzione dello scopo economico al più ristretto scopo lucrativo, se pure ha dato ragione della collocazione fuori delle associazioni in senso stretto delle ricordate figure associative prive di scopo di lucro, non appare tuttavia sufficiente a spiegare altri fenomeni presenti nella realtà sociale, né è sempre coerente con le indicazioni legislative, specie di legislazione speciale.
Nella realtà, infatti, si nota un uso sempre più disinvolto delle diverse forme, con associazioni che svolgono attività economica e società commerciali che non hanno scopo di lucro, mentre la legislazione speciale ha progressivamente eroso la linea di confine tra le due figure. Così è accaduto in Italia, dove all'uso delle società calcistiche di costituirsi in società per azioni ha fatto seguito una legge (n. 91 del 23 marzo 1981) che chiede alle associazioni sportive professionistiche di assumere la veste di società per azioni o a responsabilità limitata. Così è accaduto in Francia, dove l'uso della forma societaria è stato per legge consentito a forme associative tra comproprietari di immobili divisi in appartamenti, tra agenti di cambio per la compensazione dei valori mobiliari, tra professionisti per la messa in comune dei mezzi necessari all'esercizio della loro professione, e dove è frequente il ricorso alla forma societaria da parte di associazioni aventi scopo benefico o culturale ed educativo. Così ancora, sia pure in senso inverso, è accaduto in Spagna, dove la maggiore libertà statutaria e facilità di acquisto della personalità da parte delle associazioni hanno favorito il ricorso a tale forma per lo svolgimento di attività economiche, e dove, dall'altro lato, è la stessa legge a consentire alle società anonime e a responsabilità limitata di assumere un oggetto non commerciale.
Di fronte a questa progressiva divaricazione tra forma e funzione ci si è chiesti se non sia il caso di riportare la partizione tra associazioni e società ai soli dati strutturali, come già avviene in Germania, dove possono aversi associazioni a scopi economici e non economici e società lucrative e non lucrative; o come avviene nei paesi anglosassoni, dove la distinzione base è tra incorporated e unincorporated groups, o tra unincorporated associations e corporations, mentre la distinzione in relazione alla presenza o meno dello scopo di lucro avviene all'interno di ciascuna delle due categorie, ed è legata sostanzialmente alla previsione ovvero all'esclusione di ogni forma di ripartizione, anche solo finale, degli utili eventualmente prodotti.La soluzione prospettata, che condurrebbe alla piena neutralità e fungibilità delle forme giuridiche, ha trovato tuttavia forti obiezioni in chi ha posto in luce come il dato della spartizione o meno degli utili e della distribuzione finale tra i soci del capitale risultante dall'attività svolta sia esso stesso un dato strutturale; e come questo dato sia poi strettamente legato alla conformazione della plurisoggettività e alle modalità di partecipazione alla vita dell'ente. Là dove non c'è spartizione di utili e divisione finale del capitale la struttura sociale è infatti tendenzialmente aperta, con variabilità e fungibilità degli associati, mentre gli enti con scopo lucrativo hanno struttura chiusa; nel primo caso, inoltre, la partecipazione alle deliberazioni avviene per teste, mentre nel secondo caso avviene di regola per quote di capitale sociale.
Manca dunque un sistema di definizione delle associazioni e delle società che possa valere per tutte le possibili figure che la realtà sociale e legislativa presenta in un dato momento e in un dato paese, e a maggior ragione è difficile trovare una definizione che omologhi le due distinte figure nelle esperienze di paesi diversi.Alcuni dati, tuttavia, sembrano rimanere rilevanti nell'ordinamento italiano per distinguere le società dalle associazioni, tutti direttamente o indirettamente riportabili allo scopo: da un lato il fatto che lo scopo di lucro non può essere perseguito se non attraverso uno dei tipi societari previsti dalla legge, laddove scopi non lucrativi, economici o no, possono essere realizzati utilizzando tanto la forma associativa, con o senza riconoscimento, quanto, almeno in particolari casi, la forma societaria; dall'altro lato la libertà delle stesse forme associative, specie ove non si chieda il riconoscimento; infine il già accennato diverso sistema di acquisizione della personalità.
La personalità giuridica viene infatti acquistata automaticamente dalle società commerciali, con l'iscrizione nel registro delle imprese, nel rispetto delle condizioni e con l'adempimento delle formalità di legge (cosiddetto sistema normativo); essa deriva invece, per le associazioni, da uno specifico provvedimento discrezionale dell'autorità amministrativa che valuta caso per caso le ragioni, i mezzi e l'utilità dell'attività che l'associazione intende svolgere (cosiddetto sistema concessorio). Un sistema, quest'ultimo, che accomuna associazioni e fondazioni e che risale al ricordato vecchio sfavore per tutti quegli enti che non si proponessero uno scopo di profitto, e costituissero invece forme di aggregazione di interessi politici, religiosi, professionali, separati e concorrenti rispetto a quelli statuali, ovvero dessero luogo a una immobilizzazione eccessiva di ricchezze.
All'acquisizione della personalità giuridica, come si è detto, era legata in passato l'esistenza stessa, o giuridica rilevanza, delle formazioni associative. Il Codice civile del 1865 poneva tra i soggetti di diritto diversi dalle persone, e accanto ai comuni, le province e gli istituti pubblici civili ed ecclesiastici, "tutti i corpi morali legalmente riconosciuti". Da parte sua la dottrina giuridica stentava ad attribuire alle associazioni prive di riconoscimento una rilevanza che andasse oltre i rapporti interni tra gli associati, tanto da negare talora ogni tutela giuridica alle associazioni e agli associati che lamentassero violazioni dei terzi: le prime, si diceva, non esistono, e i secondi hanno agito per conto di un 'niente'. Con l'affermarsi poi, all'inizio del secolo, delle teorie pluralistiche, gli stessi rapporti interni tra gli associati vennero collocati nell'ambito di ordinamenti distinti da quello statuale, e considerati del tutto irrilevanti per questo.
Oggi la problematica dell'esistenza o meno di enti privi di personalità giuridica sembra completamente superata: le associazioni non riconosciute sono disciplinate nel nostro, come in altri ordinamenti, accanto alle associazioni riconosciute, e a entrambe i nostri giudici, conformemente a quanto ritenuto in dottrina, accordano la tutela del diritto al nome, all'onore, ecc.; riguardo le stesse fondazioni poi, vi è chi ritiene, come si è visto, che sia ingiustificato non riconoscerne la rilevanza, anche se prive di riconoscimento formale.
Sebbene la disciplina delle associazioni non riconosciute sia nel nostro codice assai scarna, e sembri suggerita prevalentemente da esigenze di tutela dei terzi, il fatto stesso che si parli di associazioni non riconosciute, attribuendo loro una limitata autonomia patrimoniale e la capacità di agire e difendersi in giudizio, ha portato dottrina e giurisprudenza a riconoscere uno spazio sempre più ampio al loro agire; fino a risolvere in senso positivo il problema dell'appartenenza all'associazione non riconosciuta dei beni acquistati con il fondo comune, prima ancora che la nuova legge sulla pubblicità immobiliare (n. 52 del 27 febbraio 1985) prevedesse l'indicazione del loro nome, accanto a quello del rappresentante legale, nella nota di trascrizione.Il dato formale del riconoscimento amministrativo è venuto dunque perdendo gran parte della sua importanza, tanto che si ritiene che il riconoscimento sia ormai rilevante solo riguardo a due delle prerogative della personalità: la limitazione della responsabilità di chi agisce per conto dell'ente e la capacità di questo di ricevere per eredità, legato o donazione.
La sempre più ampia capacità operativa degli enti di fatto, di contro al prezzo pagato per godere delle prerogative indicate, ha notevolmente allontanato i gruppi, anche i più significativi, dalla richiesta di riconoscimento. Che i partiti, come i sindacati, per i quali è la stessa Costituzione a prevedere una forma particolare di acquisto della personalità, siano associazioni non riconosciute è soltanto sintomatico della diffusione del fenomeno.
5. Disciplina delle associazioni riconosciute
Il Codice civile agli artt. 14-35 detta per le associazioni riconosciute (e per le fondazioni) una disciplina assai organica, che ne considera tanto la costituzione e la successiva estinzione quanto il funzionamento interno e gli organi a esso preposti, tanto la posizione degli iscritti e le modalità per l'accesso successivo quanto il loro eventuale recesso o espulsione.
L'associazione, come si è detto, quando non derivi da un atto autoritativo della pubblica amministrazione, nasce da un atto di autonomia privata. L'atto costitutivo è appunto il negozio plurilaterale con il quale più persone si organizzano stabilmente per il perseguimento di uno scopo comune, fissando nell'atto stesso o in un documento allegato (statuto) le regole per l'organizzazione e il funzionamento dell'ente, e le norme di comportamento dei partecipanti.Questo atto, che per le associazioni che non aspirino al riconoscimento è libero nella forma e nei contenuti (tanto che si ritiene possa essere fatto anche oralmente e provato con testimoni), deve invece rispondere a determinate condizioni quando si intenda chiedere il riconoscimento. In particolare, il nostro codice chiede la forma dell'atto pubblico, e chiede altresì, inderogabilmente, che siano indicati lo scopo, la sede e la denominazione dell'ente, le norme fondamentali del suo ordinamento e della sua organizzazione, e infine le regole per l'ammissione dei soci e i loro diritti e obblighi.Le indicazioni richieste, necessarie per una valutazione complessiva dell'ente ai fini del riconoscimento, rispondono anche a un'esigenza di tutela dei terzi che con l'ente potranno intrattenere rapporti giuridici: ne consentono infatti un'esatta individuazione e un'esatta imputazione degli atti compiuti in suo nome. Una finalità, questa, che è palese nell'obbligo fatto alle associazioni riconosciute di iscriversi in un apposito registro, richiamando in esso l'atto costitutivo e riportando i medesimi dati in esso contenuti o le relative variazioni, e fornendo i nomi degli amministratori e di quelli, tra essi, dotati di rappresentanza.
Organi indispensabili all'agire dell'associazione sono l'assemblea dei soci e gli amministratori, nonché, per lo svolgimento delle attività esterne, i rappresentanti legali dell'ente, di norma scelti tra gli amministratori stessi.L'assemblea è l'organo deliberante, cui spettano le decisioni relative alla vita e all'attività dell'ente. Il codice le riserva in modo inderogabile l'approvazione annuale del bilancio, le modifiche dell'atto costitutivo e dello statuto, lo scioglimento dell'associazione e la devoluzione del suo patrimonio, la nomina e la revoca degli amministratori e l'azione di responsabilità nei loro confronti, l'esclusione degli associati. Non vincolanti sono ritenute invece le norme circa le maggioranze richieste nelle diverse deliberazioni, salva forse la maggioranza dei tre quarti per lo scioglimento anticipato; sicché si ritiene che lo statuto non solo possa indicare maggioranze più o meno elevate rispetto a quelle di legge, ma possa anche adottare forme di rappresentanza indiretta, attraverso la nomina, anche in assemblee parziali, di delegati al collegio deliberante, secondo un modello già in uso nelle associazioni non riconosciute con gran numero di iscritti (ad esempio i partiti). Al singolo associato, del resto, è consentito impugnare le delibere contrarie alla legge, all'atto costitutivo e allo statuto, e chiederne la sospensione per gravi motivi.Gli amministratori, alla cui nomina e sostituzione provvede l'assemblea, hanno funzioni sostanzialmente esecutive, di amministrazione dell'ente, che di norma rappresentano verso l'esterno. Si tratta di poteri autonomi, non derivanti dall'assemblea, la quale può solo dare direttive generali, non attinenti ai singoli atti, ed esercita un controllo successivo, ma generico, attraverso l'approvazione annuale del bilancio.
Gli amministratori, pur non essendo mandatari ma organi dell'ente, rispondono verso questo secondo le norme del mandato, e cioè in base alla diligenza media in relazione al tipo di atto, e con una valutazione meno rigorosa quando la loro attività è svolta gratuitamente.
Altri organi, come si è visto, possono esser previsti dall'atto costitutivo o dallo statuto. È quasi sempre presente nelle associazioni un organo di controllo (collegio dei probiviri, collegio arbitrale, commissione per le garanzie statutarie), cui è affidata l'applicazione dei provvedimenti disciplinari e la soluzione dei conflitti interni.L'organo di giustizia interna venne considerato in passato come il terzo potere nell'ambito di un ordinamento originario, del tutto sottratto a quello statuale, ed è stato poi a lungo visto come espressione della piena autonomia contrattuale e associativa; tanto che, rispetto quantomeno alle associazioni non riconosciute, si riteneva legittima una clausola compromissoria che, nel rimettere a tale organo le controversie interne, escludesse il ricorso al giudice ordinario.
Oggi si tende a ritenere che l'attività svolta da organi di questo tipo sia, al più, parte o fase del provvedimento interno, necessaria dunque al suo completamento prima del ricorso alla giurisdizione ordinaria; ma c'è chi dubita che lo stesso esaurimento delle procedure interne possa ritardare il ricorso al giudice, quando siano coinvolti e minacciati interessi dell'individuo costituzionalmente protetti.Il problema degli organi e dei provvedimenti di giustizia interna coinvolge prevalentemente, d'altra parte, le associazioni non riconosciute. Per quelle riconosciute non solo esiste una serie assai penetrante di controlli amministrativi - dall'atto di riconoscimento all'approvazione delle modifiche statutarie, dalla sospensione delle delibere contrarie all'ordine pubblico e al buon costume all'impugnativa, a opera del Pubblico Ministero, delle stesse delibere contrarie anche solo alle norme statutarie - che dovrebbero garantire una corretta attribuzione e uso dei poteri degli organi associativi, ma esistono anche e soprattutto, come vedremo, norme inderogabili che rimettono al giudice ordinario, e subordinano a gravi motivi, il provvedimento disciplinare per eccellenza, l'espulsione dell'associato.
La qualità di socio si acquista, come si è detto, attraverso la partecipazione all'atto costitutivo o mediante la successiva iscrizione. La medesima qualità può venir meno, oltre che con l'estinzione dell'associazione, per volontà unilaterale dell'associato (recesso) ovvero a seguito di un provvedimento di esclusione o espulsione; e può inoltre venir meno, si ritiene, al verificarsi di fatti determinati, indicati dall'atto costitutivo quali cause di scioglimento.Il codice chiede che le associazioni riconosciute indichino nell'atto costitutivo o nello statuto i criteri di ammissione dei soci, tacendo del tutto e sull'organo competente ad accogliere o respingere la domanda di ammissione e sulla possibilità di impugnare il provvedimento di rifiuto. Circa l'espulsione dispone invece che sia l'assemblea a deliberarla e solo per gravi motivi, ed esplicitamente prevede il ricorso all'autorità giudiziaria.Il rifiuto di ammissione viene dunque visto come fatto assai meno grave dell'esclusione successiva: vuoi per ragioni di carattere teorico, poiché, essendo l'atto di associazione un atto di autonomia, non vi sarebbe alcun obbligo di contrarre con chi del gruppo non fa ancora parte, e vi sarebbe invece da rispettare il vincolo contrattuale riguardo agli iscritti; vuoi, forse, per residue ragioni legate a un passato in cui la diffidenza verso il rafforzarsi dei gruppi non poteva non orientare nel senso della completa svalutazione dell'interesse a partecipare di chi fosse esterno al gruppo stesso.
Se oggi sono le prime ragioni a prevalere, e anzi le uniche a esser esplicitate, rimane l'ambiguità di una dottrina che mentre colloca negli amministratori il potere di decidere sulla domanda di ammissione, quasi si tratti di ordinaria amministrazione da svolgere applicando automaticamente i criteri statutari, nega ogni pretesa tutelabile in chi pure presenti tutti i requisiti richiesti; una dottrina che mentre afferma che gli amministratori devono comunque motivare il rifiuto, sicché sarebbe da ritenere invalida una norma interna che rimettesse la decisione in proposito al loro completo arbitrio, nega a chi sia stato respinto ogni possibilità di ricorso all'autorità giudiziaria, ipotizzando al più un'azione di responsabilità dell'associazione stessa contro gli amministratori, ove il rifiuto sia illegittimo.Il ricorso al giudice è invece consentito all'associato che sia espulso, poiché l'associato, come si è visto, ha diritto a permanere nel gruppo ove non ricorrano gravi motivi, e la valutazione di questi, se contestati, non può che esser rimessa a un organo esterno all'associazione. Si richiama qui quanto già detto circa l'eventuale presenza di un organo di giustizia interna, cui siano affidati in via primaria o in sede di ricorso i provvedimenti disciplinari, con la precisazione che anche la norma sulla competenza assembleare, al pari di quelle sui gravi motivi e sul sindacato giudiziale, è quasi unanimemente ritenuta norma inderogabile.
Si è notato che, quando il giudice valuta la presenza dei gravi motivi dell'espulsione, lo fa allo stesso modo in cui, in un giudizio per la risoluzione di un contratto, valuta l'importanza dell'inadempimento lamentato dal richiedente. Quando tuttavia lo statuto dell'associazione predisponga gravi e precisi motivi, è dubbio se al giudizio positivo, già espresso su quelli dall'autorità amministrativa che provvide al riconoscimento o approvò la relativa modifica statutaria, possa sovrapporsi una diversa valutazione del giudice in sede di reclamo. È da ricordare però che nella maggior parte dei casi le cause di esclusione statutariamente previste sono assai vaghe e generiche, poiché invocano "slealtà di comportamento", "condotta riprovevole", "attività pregiudizievole", sicché la valutazione del giudice non sarà diversa da quella che il medesimo dovrebbe operare nel silenzio dello statuto.
La ricordata vaghezza delle previsioni statutarie - ove vi siano - e, in loro assenza, la necessità di ricercare altrove, e in ispecie nella natura e negli scopi dell'associazione, i 'gravi motivi' che possano giustificare un'espulsione, rendono assai dubbia la configurazione del sindacato giudiziale quale sindacato di 'legittimità'. E infatti chi continua a parlare di 'legittimità' è costretto ad allargare il concetto fino alle soglie del 'merito', ritenendo il giudizio di legittimità comprensivo di tutto ciò che non porti a valutare la mera 'opportunità' del provvedimento reclamato.
Permangono dubbi inoltre circa gli effetti dell'annullamento giudiziale della delibera di espulsione: la reintegrazione nell'associazione, che ne dovrebbe logicamente derivare, può incontrare ostacoli difficilmente superabili nell'ostracismo del gruppo, mentre il ricorrere in questi casi al risarcimento dei danni non fornirebbe alcuna valida tutela alle ragioni dell'associato espulso.La perdita della qualità di socio può derivare anche dalla volontà dell'associato, al quale la legge consente di recedere ad nutum, nel rispetto della libertà associativa. Il rispetto di questa libertà, del resto, non può consentire all'associato che un impegno solo temporaneo a mantenere fermo il rapporto associativo, salva comunque la possibilità di ritirarsi anticipatamente in presenza di gravi motivi. In presenza di gravi motivi, anzi, non opererebbe nemmeno la norma che rinvia l'efficacia del recesso allo scadere dell'anno in corso; una previsione, questa, difficilmente spiegabile, e spiegata ora con la volontà di evitare che il socio ricorra al recesso per prevenire un'espulsione, ora con l'opportunità di consentire all'associazione di percepire i contributi associativi, secondo quanto spesso previsto da clausole statutarie. In questa stessa direzione, del resto, la dottrina riconosce l'ammissibilità di clausole che subordinino il recesso al pagamento di una penale, purché questa non abbia un'entità tale da renderlo eccessivamente gravoso.
L'associato receduto o espulso non può pretendere la restituzione dei conferimenti, né può vantare alcun diritto sui beni sociali. È ancora il codice che lo precisa con una norma che, si è detto, mette bene in luce il carattere non patrimoniale del rapporto associativo, e la stessa impossibilità pratica di rappresentare la partecipazione di ciascun associato in termini di quota. La norma sarebbe volta a salvaguardare le ragioni dei terzi sul patrimonio sociale e a conservare quello stesso equilibrato rapporto tra mezzi e scopi dell'ente, che era presente al momento del riconoscimento. Si tratterebbe dunque di regole inderogabili, non ricorrendo qui nemmeno quelle ragioni che, in caso di estinzione dell'ente, consentono che, una volta soddisfatti i creditori sociali, i beni residui siano distribuiti tra i soci, se così prevede l'atto costitutivo o così dispone l'assemblea.
All'abbondanza della disciplina codicistica delle associazioni riconosciute fanno riscontro tre soli articoli dedicati alle associazioni non riconosciute. Il primo di questi rinvia agli accordi associativi circa l'ordinamento interno e l'amministrazione dell'ente, e ne attribuisce la rappresentanza in giudizio alle persone cui, in base agli accordi stessi, è attribuita la presidenza o la direzione. Il secondo articolo identifica il "fondo comune", consistente nei contributi degli associati e nei beni con questi acquistati, ed esclude ogni pretesa dei singoli alla divisione del fondo e alla restituzione della propria quota finché dura l'associazione. Il terzo articolo, infine, fa gravare sul fondo comune le obbligazioni assunte dall'ente tramite i propri rappresentanti e chiama a rispondere in solido chi abbia agito all'esterno per conto dell'associazione.È dunque del tutto indiretto, attraverso il richiamo agli accordi, il riferimento agli organi dell'ente e ai loro poteri, mentre manca ogni norma volta alla tutela dell'associato nell'ambito dell'associazione e ogni disciplina della nascita, trasformazione ed estinzione dell'ente.
L'assenza di una vera e propria disciplina fu, a suo tempo, voluta: il rinvio agli accordi degli associati venne inteso prevalentemente nel senso della sostanziale indifferenza, per l'ordinamento giuridico, di quegli accordi, e l'unica vera ragione di un intervento legislativo sulle associazioni non riconosciute venne individuata nell'opportunità di garantire i terzi per le obbligazioni assunte per conto di quelle. Un articolo del progetto preliminare che dichiarava applicabili alle associazioni non riconosciute, in mancanza di accordi, le norme riguardanti l'organizzazione, l'amministrazione e lo scioglimento e liquidazione delle associazioni riconosciute era stato del resto cancellato dal testo definitivo: onde evitare, si disse, che una equiparazione tra i due tipi di organizzazioni togliesse valore al riconoscimento.
La crescente importanza assunta dalle associazioni non riconosciute, il progressivo superamento dell'idea che solo il riconoscimento valga ad attribuire soggettività e autonomia al gruppo, la convinzione, in altre parole, che la stessa autonomia privata sia in grado da sola di dar vita a un soggetto sostanzialmente autonomo, hanno fatto venir meno le ragioni del silenzio legislativo, e soprattutto le ragioni che consigliarono di sopprimere ogni rinvio alla disciplina delle associazioni riconosciute. Nel permanere di quel silenzio si è ritenuto pertanto che proprio il ricorso alla disciplina delle associazioni riconosciute sia la via più corretta per integrare le ricordate lacune legislative, e che di quella disciplina le sole norme non invocabili siano quelle riconducibili direttamente o indirettamente all'acquisto della personalità giuridica.Si sono addotte, a sostegno di questa tesi, l'identità di struttura tra associazioni riconosciute e non, e l'appartenenza al medesimo tipo contrattuale; si è posto l'accento sulla realtà pratica del fenomeno, sul peso assunto dalle formazioni associative nella vita degli individui, sull'esigenza di dare attuazione ai principî costituzionali e in particolare all'art. 2, che garantisce i diritti inviolabili dell'uomo nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità.
Ammesso, in modo pressoché unanime, il richiamo alle norme sulle associazioni riconosciute, dottrina e giurisprudenza si sono poi divise sulla sua natura, se diretta ovvero analogica; con conseguenze pratiche tutt'altro che insignificanti se si considera che l'applicazione diretta comporterebbe l'invalidità di tutte quelle clausole statutarie che siano in contrasto con norme ritenute inderogabili, laddove l'applicazione analogica le farebbe salve, avendo solo funzione suppletiva. La preferenza accordata dalla più recente dottrina alla prima delle due tesi deriva in gran parte dall'attenzione che tale dottrina pone all'esigenza di garantire un'adeguata protezione dei singoli nell'ambito delle formazioni sociali, secondo le indicazioni costituzionali. Un'attenzione oggi condivisa da quella giurisprudenza che invoca implicitamente o esplicitamente l'applicazione diretta quando si tratta di colpire clausole statutarie che non richiedano gravi motivi per l'esclusione degli iscritti, o non consentano di ricorrere al giudice contro il relativo provvedimento; invoca invece implicitamente il richiamo analogico quando consente deroghe a principî pure ritenuti inderogabili per le associazioni riconosciute, quali l'eguaglianza nel voto o la competenza dell'assemblea a decidere l'esclusione di un socio.
Se questo è l'orientamento prevalente, non è tuttavia mancato chi ha posto in luce come, seguendo in particolare la via dell'applicazione diretta in nome dell'art. 2 della Costituzione, si rischi di lasciare completamente nell'ombra un altro importante principio costituzionale, la libertà di associazione garantita dall'art. 18, senza tra l'altro fornire adeguati mezzi di attuazione dello stesso art. 2, e anzi contraddicendone l'affermata immediata operatività.
È stata in particolare la dottrina costituzionalistica a porre in luce la manipolazione che i principî costituzionali vengono a subire ove nella lettura degli artt. 2 e 18 della Costituzione si trasferisca l'immagine di associazione costruita sulla base delle indicazioni codicistiche; che è poi l'immagine dell'associazione riconosciuta.
Nel codice, come si è visto, si esprimono insieme l'originario sfavore verso i fenomeni associativi e la successiva accettazione di questi a opera dell'ordinamento fascista, purché, però, con il riconoscimento dello Stato e sotto il suo controllo. La Costituzione repubblicana vede per converso nella libertà dei singoli di associarsi e nelle stesse associazioni due anelli fondamentali del suo sistema di garanzie dei diritti della persona.
Ciò dà luogo, in relazione agli elementi sopra descritti, a rilevanti differenze: l'esistenza e la qualificazione del gruppo come associazione, sotto il profilo costituzionale, sono indipendenti dalla sua rilevanza esterna e da quegli elementi (fondo comune, rappresentanza unitaria) che secondo lo schema del codice fanno del gruppo un soggetto di diritto; sotto quel profilo, poi, la liceità del gruppo è condizionata unicamente all'osservanza dei divieti costituzionali: quello di perseguire fini vietati al singolo dalla legge penale e quello di costituire associazioni segrete e di organizzarsi militarmente per il perseguimento, anche indiretto, di fini politici (art. 18).
Entro questi limiti la libertà associativa si esprime - oltre che nella possibilità di costituire associazioni, e dunque nell'effettivo rispetto dello spazio a esse riconosciuto per il perseguimento collettivo di qualsiasi fine - nella libertà di darsi le regole e le strutture organizzative ritenute più idonee.La libertà organizzativa è infatti ritenuta inseparabile da quella di associarsi e dalla varietà degli scopi perseguibili. Che così sia, si dice, sarebbe provato a contrario dall'art. 39 della Costituzione, che pone un ordinamento a base democratica come condizione per la registrazione dei sindacati. Una registrazione, peraltro, prevista in via eccezionale e da cui conseguirebbero, comunque, personalità giuridica e rappresentatività di tutti gli appartenenti alla categoria. Fuori dall'ipotesi dell'art. 39, rimasta com'è noto inattuata, il legislatore ordinario non potrebbe imporre nessun obbligo di registrazione né vincolo organizzativo, se non quelli funzionali a risultati ulteriori che l'associazione stessa voglia perseguire (il riconoscimento), o quelli connessi ad aspetti economici dell'attività del gruppo che coinvolgano interessi esterni (la responsabilità del fondo comune e quella solidale di coloro che agiscono per l'associazione, l'indivisibilità del fondo, ecc.). Quanto invece alle limitazioni legislative a tutela degli interessi individuali degli iscritti, queste non potrebbero riguardare che posizioni irrinunciabili dei medesimi, e sarebbero dunque mere esplicitazioni dell'art. 2 della Costituzione, che garantisce i diritti inviolabili dell'uomo nelle formazioni sociali.
Muovendo dunque dall'art. 18 della Costituzione, ogni applicazione diretta alle associazioni non riconosciute delle norme dettate per quelle riconosciute viene ritenuta inammissibile. In particolare il principio della 'porta aperta', quello della gravità dei motivi per l'espulsione e quello della competenza esclusiva dell'assemblea per i provvedimenti relativi non sarebbero applicabili alle associazioni prive di riconoscimento. La loro libertà organizzativa, di cui costituisce piena applicazione il rinvio dell'art. 36 del Codice civile agli accordi degli associati, trova i suoi soli limiti nella Costituzione: nella stessa libertà associativa, che impedisce a un'associazione di farsi portatrice di interessi generali precludendo allo stesso tempo ogni possibilità di partecipazione ai terzi o escludendo arbitrariamente gli iscritti; nella garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo di cui all'art. 2 della Costituzione, che vieta che la partecipazione o la permanenza nell'associazione sia subordinata alla loro rinuncia; nel diritto al giudice naturale, di cui all'art. 102 della Costituzione, che non può essere preventivamente abdicato.
Spetterà proprio al giudice curare, insieme al rispetto dell'autonomia privata, il rispetto delle prime due regole: non seguendo standard prefissati ma valutando di volta in volta, in relazione al carattere dell'associazione, agli scopi perseguiti, all'influenza che l'associazione stessa esercita nella vita sociale, se quel rispetto sia stato assicurato.Non si tratta più, come nella dottrina civilistica che contrappone associazione e singoli, di assicurare a questi ultimi l'osservanza dei patti. Si tratta piuttosto di tutelare quella libertà dei singoli di associarsi (e di essere associati) di cui la tutela dell'associazione, come ente, non è che lo strumento.
Dal quadro sommario fin qui tracciato emerge come la disciplina codicistica delle associazioni, chiaramente dettata per organismi di ridotte dimensioni e per di più influenzata da uno scarso interesse, se non da sfavore, per i corpi intermedi, sia per ciò stesso inadeguata a far fronte alla grande espansione dei fenomeni associativi e al peso politico, economico e sociale che le associazioni più forti esercitano sull'intera collettività.Paradossalmente tuttavia i punti in cui l'inadeguatezza della disciplina attuale più si rivela sono assai distanti tra loro, e possono suggerire soluzioni divergenti.Vi è infatti, da un lato, il ricordato fenomeno dell'interscambiabilità delle forme giuridiche, che vede in fatto società che perseguono scopi non economici e associazioni che svolgono attività economica: un fenomeno che forse richiederebbe una disciplina fondata su parametri diversi dalla veste giuridica di volta in volta adottata.
Vi è, dall'altro lato, il riconoscimento costituzionale della libertà di associazione, con i soli limiti della liceità e non segretezza sopra riferiti, che spinge verso la massima libertà delle forme e dei fini, e che chiaramente si opporrebbe a una disciplina che tendesse a ingabbiare in una griglia suddivisa secondo precisi parametri ogni fatto associativo.Vi è ancora, sullo stesso versante costituzionale, ma nella direzione di un qualche limite alla libertà delle associazioni, il principio della tutela dei singoli nelle formazioni sociali; un principio particolarmente significativo in una società in cui i gruppi privati, divenuti altrettanti centri di potere economico e politico, sembrano aver perso l'originario ruolo di mediatori tra cittadino e Stato, ed è lo Stato stesso a dover assolvere un ruolo di mediazione tra tali gruppi e i singoli, a difesa degli interessi individuali.Si tratta di una problematica assai complessa, dove alla tentazione di un intervento legislativo che tenga conto della realtà dei fatti sociali e insieme traduca in una specifica normativa i principî costituzionali sopra richiamati fa riscontro un'altrettanto forte tentazione a conservare la normativa esistente, in quanto questa, per le sue stesse carenze, consentirebbe un continuo adattamento, per via giurisprudenziale, alla varietà dei casi che l'esperienza presenta.
Sarebbe scorretto attribuire soltanto a questa seconda tentazione l'evoluzione interpretativa che ha caratterizzato, nell'ultimo decennio, la dottrina e la giurisprudenza in materia. È in ogni caso difficile immaginare che una disciplina nata in un contesto tanto difforme dall'attuale possa portare ancora molto lontano.
AA.VV., Évolution et perspectives du droit des sociétés, Milano 1968.
Barbera, A., Commento all'art. 2, in Commentario della Costituzione (a cura di G. Branca), Bologna-Roma 1975, pp. 50-122.
Barile, P., Associazione (diritto di), in Enciclopedia del diritto, vol. III, Milano 1958, pp. 837 ss.
Basile, M., L'intervento dei giudici nelle associazioni, Milano 1975.
Basile, M., Gli 'enti di fatto', in Trattato di diritto privato (a cura di P. Rescigno), t. 1, Persone e famiglia, Torino 1982.
Bianca, C. M., Diritto civile, vol. I, La norma giuridica. I soggetti, Milano 1978.
Bigliazzi Geri, L., Breccia, U., Busnelli, F. D., Natoli, U., Diritto civile, vol. I., t. 1, Norme, soggetti e rapporto giuridico, Torino 1987.
Bobbio, N., Libertà fondamentali e formazioni sociali. Introduzione storica, in "Politica del diritto", 1975, n. 4, pp. 451 ss.
Carbonnier, J., Droit civil, vol. I, Introduction. Les personnes, Paris 1984¹⁵.
De Giorgi, M. V., Persone giuridiche, associazioni e fondazioni, in Trattato di diritto privato (a cura di P. Rescigno), t. 1, Persone e famiglia, Torino 1982.
Ferrara, F., Le persone giuridiche (con note di F. Ferrara jr.), in Trattato di diritto civile italiano (a cura di F. Vassalli), vol. II, t. 2, Torino 1956².
Ferro Luzzi, P., I contratti associativi, Milano 1976.
Galgano, F., Delle associazioni non riconosciute e dei comitati, in Commentario del codice civile (a cura di A. Scialoja e G. Branca), libro I, Delle persone e della famiglia (artt. 36-42), Bologna-Roma 1967.
Galgano, F., Delle persone giuridiche, in Commentario del codice civile (a cura di A. Scialoja e G. Branca), libro I, Delle persone e della famiglia (artt. 11-35), Bologna-Roma 1969.
Galgano, F., Il diritto privato tra codice e Costituzione, Bologna 1977.
Galgano, F., Le associazioni, le fondazioni, i comitati, Padova 1987.
Lagarde, H., Droit commercial, vol. II, t. 1, Sociétés, groupements d'intérêt économique, entreprises publiques, Paris 1980.
Lesher, R. S., The non profit corporation. A neglected stepchild, in 22 The business lawyer 95, 1967.
Lombardi, G., Potere privato e diritti fondamentali, Torino 1967.
Marasà, G., Le 'società' senza scopo di lucro, Milano 1984.
Minervini, G., Società, associazioni, gruppi organizzati, Napoli 1973.
Nigro, M., Formazioni sociali, poteri privati e libertà del terzo, in "Politica del diritto", 1975, n. 5-6, pp. 579 ss.
Oleck, H. L., Non profit corporations, organizations and associations, Englewood Cliffs, N. J., 1980.
Pace, A., Commento all'art. 18, in Commentario della Costituzione (a cura di G. Branca), Bologna-Roma 1975, pp. 191-237.
Pace, A., Problematica delle libertà costituzionali. Lezioni. Parte speciale. La libertà di associazione, Padova 1988.
Ponzanelli, G., Le 'non profit organizations', Milano 1985.
Reichert, B., Handbuch des Vereins und Verbandsrechts, Berlin 1970.
Rescigno, P., Persona e comunità. Saggi di diritto privato, Bologna 1966.
Rubino, D., Le associazioni non riconosciute, Milano 1952².
Scalfi, G., L'idea di persona giuridica e le formazioni sociali titolari di rapporti nel diritto privato, Milano 1968.
Sica, V., Le associazioni nella Costituzione, Napoli 1957.
Tamburrino, G., Persone giuridiche e associazioni non riconosciute. Comitati, Torino 1980.
Vincenzi Amato, D., Associazioni e tutela dei singoli. Una ricerca comparata, Napoli 1984.
Volpe Putzolu, G., La tutela dell'associato in un sistema pluralistico, Milano 1977.
Warburton, J., Unincorporated associations: law and practice, London 1986.
Wiedemann, H., Gesellschaftsrecht. Ein Lehrbuch des Unternehmens- und Verbandsrechts, vol. I, Grundlagen, Berlin 1980.