Omero
Il leggendario cantore
Dall’età classica, passando per il Medioevo e il Rinascimento e arrivando all’Età moderna e contemporanea, Omero è considerato il più grande poeta della cultura occidentale. Ma fu veramente Omero a scrivere l’Iliade e l’Odissea? I poemi, in realtà, non sono opera di un genio isolato, ma il punto finale di una lunga tradizione orale di poesia epica. Nell’Iliade, poema della guerra, è narrata una parte delle vicende di Achille nell’assedio di Troia; nell’Odissea, poema del viaggio, il ritorno di Odisseo nella patria Itaca e la sua vendetta sui nobili che insidiavano la moglie Penelope. Il mondo di Omero è complesso e vario, perché mescola elementi più antichi con altri del ‘medioevo ellenico’, quando i poemi furono composti
In Grecia, al tramonto di un giorno di moltissimi secoli fa, nella grande sala di un palazzo, i nobili sono riuniti a banchetto, intorno al focolare. Insieme a loro siedono amici e ospiti, ma anche un cantore: l’aedo. Accompagnandosi con la cetra, egli inizia a narrare le gesta di re e di eroi, le guerre e i viaggi. L’aedo, che è insieme cantore e poeta, sceglie le storie dal vastissimo repertorio di miti che la tradizione gli ha consegnato, tramandando di padre in figlio la memoria di un leggendario passato: nasce così l’epica.
A suggerirci questo quadro sono proprio i poemi omerici, l’Iliade, il poema della guerra, e l’Odissea, il poema del viaggio, che descrivono scene in cui gli aedi allietano con il loro canto le corti aristocratiche. L’epica, tuttavia, non vuole solo intrattenere i suoi ascoltatori: sottolineando i principi del mondo eroico, la lealtà, la virtù e l’astuzia, vuole indicare i valori a cui deve ispirarsi la società; attraverso la narrazione delle vicende mitiche vuole gettare un ponte ideale tra quegli antichissimi eroi e le potenti famiglie aristocratiche della Grecia arcaica; con la descrizione delle battaglie, delle imprese e delle peripezie dei suoi protagonisti vuole insegnare a tutti l’arte della guerra, ma anche come si costruisce una nave o come si prepara un sacrificio.
L’epica, insomma, riguarda tutto e tutti. Per questo motivo è stata definita una «enciclopedia tribale» o un «libro di cultura»: in questo senso i poemi omerici sono per i Greci antichi quello che la Bibbia è per il popolo ebraico. Per la successiva poesia greca e poi per gran parte della letteratura europea l’Iliade e l’Odissea saranno il modello sempre presente, il punto di riferimento per tutti, dal cittadino al sacerdote: tutto questo rappresentano i poemi omerici.
Se l’Iliade e l’Odissea sono così importanti per i Greci antichi e poi per noi, tanto più perché sono anche le più antiche testimonianze letterarie che la civiltà greca ci ha lasciato, il loro autore deve essere stato un personaggio straordinario. Omero, in effetti, è spesso considerato «divino» nell’antichità: avvolto dalla leggenda, è immaginato cieco e ispirato direttamente dalle Muse; in suo onore si erigono statue e si costruiscono santuari. Ma chi era veramente Omero?
Per secoli il problema dell’identità di Omero è stato legato a quello dell’unità dei due poemi, cioè alla cosiddetta questione omerica: Omero è esistito? Se è esistito ha scritto entrambi i poemi o solo uno dei due? E se non è esistito, chi ha scritto i poemi, e come?
Già gli antichi, che divisero ciascun poema in 24 libri, come le lettere dell’alfabeto greco, si interrogarono sul problema. Molti sostenevano che i due poemi fossero opera di un autore diverso; l’anonimo autore greco del trattato di retorica Sul sublime, invece, pensava che Omero avesse scritto entrambe le opere, in gioventù l’Iliade e in vecchiaia l’Odissea.
In età moderna, nel 18° secolo, il dibattito riprende più acceso. Uno scrittore francese, François Hédelin abate D’Aubignac, e il filosofo italiano Giambattista Vico, infatti, arrivano indipendentemente a formulare un’ipotesi radicale: per loro i due poemi sono il frutto del lungo lavoro di anonimi cantori greci, e non di un genio isolato. Omero, dunque, non è mai esistito.
Una serie di studiosi comincia, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, a mettere in luce differenze linguistiche tra le varie parti, incongruenze dal punto di vista degli usi e dei contenuti, contraddizioni nella narrazione dei fatti e attribuisce a più autori la paternità dei poemi. Omero, a questo punto, diviene solo l’ultimo o il più importante poeta che ha dato una sistemazione definitiva a materiale anche di altri. Non mancano tuttavia, ancora in questo periodo, studiosi che vedono in un reale Omero l’autore dei due poemi, sottolineando in essi corrispondenze interne e raffinate architetture compositive che possono essere soltanto il frutto di un lavoro letterario unitario.
Siamo nel 1928 quando un giovanissimo studioso americano, Milman Parry, inizia a compiere ricerche nella Penisola Balcanica, tra i cantori serbi e croati, scoprendo una serie straordinaria di analogie tra i testi omerici e i canti di quei popoli. Tali canti vengono tramandati a memoria da poeti itineranti che spesso non sanno neanche scrivere: in essi sono trattati temi e motivi di guerra e di avventura; si ripetono scene tipiche come il duello o il sacrificio agli dei, descritte spesso con le medesime parole dei poemi omerici; infine, elemento determinante, c’è l’impiego costante di espressioni fisse, soprattutto in fine di verso, per indicare personaggi e momenti tipici. Queste espressioni non sono funzionali al contesto (le navi sono sempre «veloci» anche quando sono ancorate nel porto) ma servono al poeta per concludere il verso in modo semplice, e soprattutto rappresentano un importantissimo aiuto per la memorizzazione dei canti: sono vere e proprie formule. L’ipotesi cui giunge Parry è dunque che i poemi omerici sono ciò che resta della tradizione della poesia orale greca, composta oralmente, appunto, e recitata a un pubblico di ascoltatori nelle corti delle aristocrazie arcaiche o nelle feste cittadine, proprio come nelle scene descritte nell’Iliade e nell’Odissea.
Questa teoria dell’oralità risolve dunque, in gran parte, la questione omerica così come era stata posta in precedenza. Omero non può più essere considerato l’autore dei due poemi, che costituiscono il punto di arrivo di una lunga e anonima tradizione orale di aedi, messa per iscritto solo a partire dal 6° secolo a.C. Rimane, tuttavia, il mistero e insieme il fascino di due opere straordinarie che sembrano così intimamente equilibrate da far pensare, a volte, davvero a una creazione ispirata.
L’ira di Achille. Nel poema sulla guerra di Troia – chiamata anche Ilio – sono narrate le imprese dei Greci che hanno mosso guerra ai Troiani per vendicare l’offesa subita da Menelao con il rapimento della moglie Elena da parte di Paride, figlio di Priamo re di Troia. La storia si snoda durante 50 giorni circa del decimo anno di guerra. Al centro del poema è la vicenda dell’ira di Achille, l’eroe più valoroso dei Greci: Agamennone, fratello di Menelao e capo della spedizione greca, per rifarsi della perdita della schiava Criseide, decide di togliere ad Achille la sua, la bellissima Briseide. Achille è furibondo e non vuole più scendere in campo: si ritira nella sua tenda sulla riva del mare, insieme al fedele compagno Patroclo (libro I). Agamennone mette alla prova l’intero esercito, ma l’umore dei soldati, stanchi e provati, non è rassicurante. Tersite, un umile soldato, descritto come deforme, si ribella ai capi ma viene umiliato da Odisseo (Ulisse). L’esercito è di nuovo risollevato e il poeta passa in rassegna tutte le forze in campo, greche e troiane (II). Si decide di affidare le sorti della guerra a un duello tra Menelao e Paride. Menelao sta per avere la meglio ma Afrodite (Venere) protegge Paride e lo salva dalla morte (III). Pandaro, un arciere troiano, colpisce allora Menelao con una freccia. Il capo greco è curato, ma la mischia si riaccende furibonda (IV). Si distingue in particolare Diomede, che ferisce addirittura Afrodite (V). Si prepara a scendere in campo Ettore, altro figlio di Priamo e grande eroe troiano: il suo colloquio d’addio con la moglie Andromaca, che tiene in braccio il figlioletto Astianatte, è uno dei passi più ricchi di sentimento del poema (VI). Ettore si scontra con Aiace Telamonio (VII), e i Troiani, favoriti da Zeus (Giove) che ha pesato sulla sua bilancia le sorti del conflitto, arrivano fino al muro costruito dai Greci per difendere le navi ormeggiate nel porto (VIII).
L’eroe invincibile ritorna in campo. Agamennone e i capi greci sono disperati: l’unica soluzione è cercare di convincere Achille a tornare in battaglia. L’ambasceria però fallisce (IX). Odisseo e Diomede, allora, compiono una sortita notturna nel campo troiano, seminando il terrore, facendo prigioniero Dolone e uccidendo Reso (X). Agamennone è protagonista di una serie di duelli vittoriosi (XI), ma i Troiani, guidati da Ettore, superano il muro greco (XII) e arrivano a incendiare alcune navi (XIII). Solo l’aiuto degli dei riesce a salvare i Greci (XIV), che finalmente contrattaccano (XV).
Patroclo chiede ad Achille il permesso di scendere in campo vestito con le sue armi: mette in fuga molti nemici ma alla fine viene affrontato e ucciso da Ettore (XVI). Il suo corpo è recuperato a fatica (XVII) e portato ad Achille, che piange a lungo l’amico. L’offesa di Agamennone non è stata ancora perdonata, ma il desiderio di vendicare Patroclo è troppo forte: Achille, pur sapendo di essere destinato alla morte, decide di tornare a combattere e ottiene dalla madre Teti nuove invincibili armi, tra cui uno splendido scudo istoriato (XVIII), di cui si riveste (XIX). Solo Apollo, all’inizio, salva Ettore dalla furia di Achille, che fa strage dei Troiani inseguendoli fin sotto le mura della città (XX): la battaglia coinvolge anche gli dei, che parteggiano chi per i Greci chi per i Troiani (XXI). Finalmente, però, Achille raggiunge Ettore: i due si affrontano nel duello più celebre della letteratura occidentale. L’eroe greco «dal piede veloce» insegue Ettore per tre volte intorno alle mura della città. Il troiano prova a difendersi, ma cade sotto la furia di Achille, che trascina l’eroe senza vita intorno alla città. Andromaca, affacciandosi dalle alte mura di Troia, scorge il corpo del marito e scoppia in un atroce lamento, così come Priamo e la moglie Ecuba (XXII).
Achille, vendicato Patroclo, vuole rendere onore all’amico: si svolgono così giochi atletici e sacrifici (XXIII). Ancora disperato, riceve di notte, nella tenda, la visita di Priamo, il quale lo supplica di restituirgli il corpo di Ettore, ricordandogli il destino crudele dei vecchi padri che vedono spegnersi i figli prima del tempo, destino comune anche a suo padre Peleo. Achille si commuove e rende a Priamo il corpo di Ettore, sul quale tutti i Troiani piangono, nei solenni funerali che chiudono il poema (XXIV).
Le peripezie del viaggio. Il poema di Odisseo (Ulisse) «dal multiforme ingegno, che molto ha viaggiato e sofferto, conoscendo genti e paesi», si apre senza il suo protagonista. A Itaca, il regno di Odisseo, tutti pensano ormai che l’eroe, assente da quasi venti anni, non farà più ritorno: numerosi nobili dell’isola avanzano pretese sulla moglie Penelope, a lui rimasta sempre fedele (libro I), ma il figlio Telemaco, ispirato da Atena (Minerva), tiene loro testa e parte per cercare notizie del padre (II). A Pilo incontra Nestore (III), a Sparta Menelao; a Itaca, intanto, i pretendenti tendono un agguato (IV). La scena si sposta a questo punto sull’Olimpo, dove gli dei, riuniti a consiglio, decidono che è giunto il momento di lasciare che Odisseo torni a casa. Ermes (Mercurio), allora, si reca nell’isola di Ogigia, dove l’eroe è trattenuto da sette anni dalla bellissima ninfa Calipso, e le rivela la volontà divina. Odisseo dà l’addio alla ninfa e costruisce una zattera.
Il dio del mare Posidone (Nettuno) che è stato offeso da Odisseo è irato per la decisione degli altri dei, e scatena perciò una tempesta: l’eroe naufraga sull’isola dei Feaci, popolo su cui regna Alcinoo (V). La principessa Nausicaa, proprio quella notte, ha ricevuto in sogno l’invito di Atena ad andare a lavare le vesti sulla riva del mare. Lì, con alcune compagne, mentre gioca a palla, incontra Odisseo.
La fanciulla pensa che l’uomo venuto dal mare sia lo sposo da lei tanto atteso, e lo conduce a palazzo (VI). Qui Odisseo si ristora e partecipa al banchetto reale (VII), dove ascolta l’aedo Demodoco che narra proprio le imprese di Troia. È Odisseo stesso, commosso, a chiedere all’aedo di narrare l’inganno del cavallo. Ma l’emozione è troppo forte: «Odisseo sono io…» esclama l’eroe, stupendo tutti i presenti. Nausicaa vede infranto il suo sogno, ma Odisseo le augura la massima felicità. A questo punto Alcinoo chiede all’ospite di narrare le sue avventure. Odisseo accetta e inizia un lunghissimo racconto (VIII): la partenza da Troia e la tempesta; l’arrivo sull’isola di Polifemo e l’accecamento del ciclope (IX); l’ospitalità di Eolo, dio dei venti, e il suo dono sprecato dalla curiosità dei compagni; l’avventura della maga Circe che trasforma gli uomini in porci (X); l’evocazione delle ombre dei morti per conoscere il futuro (XI); il fascinoso canto delle sirene, il passaggio tra i terribili mostri marini Scilla e Cariddi; l’offesa fatta agli dei cibandosi delle vacche del Sole (XII).
Il ritorno a casa. Terminato il racconto, Odisseo si congeda dai Feaci e arriva a Itaca (XIII). Non rivela la sua identità e, dicendosi un marinaio, si fa ospitare dal pastore Eumeo (XIV). Anche Telemaco giunge nella capanna di Eumeo: Odisseo, dopo essersi reso conto che il figlio e altri compagni gli sono fedeli (XV), si fa riconoscere, in una scena molto toccante (XVI). Padre e figlio preparano il ritorno di Odisseo a palazzo, e Telemaco lo precede.
Nella strada verso la reggia, solo il vecchio cane Argo riconosce il padrone. Odisseo, fingendosi uno straniero, entra a palazzo (XVII) e viene insultato dai pretendenti, perché vestito di stracci (XVIII). Salito al piano superiore per lavarsi, viene riconosciuto dalla vecchia nutrice Euriclea (XIX). Odisseo e Telemaco preparano un inganno per vendicarsi dei pretendenti: scelti solo i servi più fidati (XX), preparano una gara con l’arco, che solo Odisseo sa tendere. I pretendenti non riescono nell’impresa. Preso l’arco, Odisseo lo tende nello stupore generale (XXI). È arrivato il momento di svelare a tutti la propria identità, e di vendicare le offese subite in venti anni da Penelope e Telemaco: Odisseo uccide tutti i pretendenti e i servi infedeli (XXII). Penelope non vuole credere a quanto ha visto: mette nuovamente il marito alla prova, e finalmente può riabbracciarlo in lacrime (XXIII). Dopo un incontro con il padre Laerte, Odisseo si riconcilia con le famiglie dei pretendenti uccisi. Insieme a Penelope e Telemaco, regnerà felice sull’isola (XXIV).
Nei poemi omerici si sovrappongono le diverse realtà storiche nel corso delle quali essi sono stati elaborati. In particolare si individuano due mondi, spesso giustapposti: quello della civiltà micenea e quello del cosiddetto medioevo ellenico. Il primo costituisce lo sfondo eroico in cui si collocano storicamente le imprese della guerra di Troia e dei ‘ritorni’ dei Greci in patria (13°-12° secolo a.C.); il secondo è la fase più recente in cui i poemi assunsero la forma più o meno definitiva (9°-8° secolo a.C.). Di antichissima origine micenea sono, per esempio, l’uso di combattere col carro, l’impiego di armi di bronzo e di scudi o elmi particolari, il titolo di re assegnato agli eroi. Appartengono invece a un’età più recente la descrizione della maggior parte delle forme sociali e politiche – come assemblee o servitù di famiglia – e, soprattutto, tutte le scene contenute nelle similitudini, vero e proprio serbatoio di informazioni sull’età più arcaica e per noi oscura dei Greci. Anche le concezioni religiose e il carattere dei protagonisti risentono della lunga e differenziata elaborazione dei poemi. Gli dei sono rappresentati da una parte come sovrani assoluti dei destini umani, dall’altra come esseri litigiosi, pur sempre sottoposti a un fato superiore immodificabile. Non c’è soluzione al problema del rapporto tra dio e l’uomo, che è fatto di distanza e di lontananza, di amore e di invidia. Solo nell’Odissea l’individuo sembra poter incidere in modo più decisivo sul proprio futuro.
Il carattere dei personaggi principali è fissato dal mito, e non è delineato in modo particolare: non c’è intento di descrivere la psicologia o il mondo interiore degli eroi, che agiscono a volte per impulso, a volte per dovere, altre volte consapevoli di un proprio destino già segnato.
Nell’Iliade, poema della guerra, è quasi assente l’amore, e poche sono le figure femminili. Diversamente avviene nell’Odissea, dove la donna si muove in quell’ambito di affetti e sentimenti più marcati che è negato ai personaggi maschili.
Nessuna opera e nessun autore, nella civiltà occidentale, hanno avuto maggiore fortuna dei poemi omerici e di Omero. Tutti gli autori greci tennero sempre presente Omero, imitandolo, prendendone spunto, a volte anche contestandolo. Omero fu nell’antichità l’autore più letto, e da subito divenne quello più studiato nelle scuole. La letteratura latina comincia con una traduzione dell’Odissea, e Virgilio, nell’Eneide, rielaborò temi e motivi omerici. Nel Medioevo occidentale Dante e Petrarca rimpiansero di non poter leggere i poemi in greco. Furono gli umanisti, dal 15° secolo, a dare il via a una nuova stagione di immensa fortuna per Omero, studiato, tradotto e commentato dal barocco al romanticismo, e oltre. Anche nella nostra cultura Omero è notevolmente presente: nelle riprese letterarie di romanzi, nelle produzioni televisive e cinematografiche.
Ancora oggi, come un tempo, «Omero è al principio» dell’istruzione e del piacere della lettura.