leggi naturali
Le norme che ogni uomo trova dentro di sé, interrogando la propria ragione
Sulla nozione di diritto di natura e di leggi naturali si discute da secoli nella giurisprudenza, nella teoria politica, nella morale. L’idea che le leggi civili o positive siano modellate su principi naturali universali non è però condivisa da chi non crede nell’antica metafora della natura come ‘grande madre’. Il termine legge naturale, nato da una lunga riflessione sull’uomo, sulla natura e su Dio, ha influenzato anche il linguaggio scientifico, in cui il termine sta a indicare un’uniformità del corso della natura
Nelle mitologie primitive le divinità che popolano la natura impongono leggi ai fenomeni. Nelle religioni monoteiste i comandamenti divini riguardano sia la creazione del mondo sia i comportamenti dell’uomo: Dio crea il cielo e la Terra, e da lui Mosè riceve le Tavole della legge; Allah rivela a Maometto la legge coranica scritta in un libro segreto.
In senso umano la parola greca kòsmos, prima che un «mondo» ben ordinato secondo leggi, significò l’assetto delle truppe in battaglia; e nòmos («legge») stava a indicare ciò che viene assegnato a ciascuno, quindi ciò che è giusto, per esempio il codice prescritto alla città da un legislatore ispirato, come Licurgo a Sparta, le Dodici tavole o la riforma del re Numa a Roma. In tal senso le leggi dette naturali sono state definite proiezioni della mente umana sull’assetto del mondo circostante.
L’immaginazione dei poeti e la riflessione dei filosofi hanno spesso oscillato tra il divino e l’umano. I filosofi presocratici ricercavano il principio o il lògos delle cose: Eraclito (6°-5° secolo a.C.) definisce legge del divenire l’alternarsi di amore e odio. I materialisti Epicuro (4°-3° secolo a.C., v. Epicureismo) e Lucrezio (1° secolo a.C.) alludono ai «patti della natura» come alle leggi inviolabili degli incontri tra atomi, nate dal caos e dal caso, e immaginano una condizione primitiva dell’umanità dominata da violenza e guerra.
Contro questa visione deterministica (determinismo) gli antichi stoici (stoicismo) formularono il concetto astratto di una legge universale, un «nòmos sovrano di tutte le cose divine e umane che sovrasta le realtà buone e cattive, fissa i canoni del giusto e dell’ingiusto, e agli esseri che convivono per natura in società prescrive ciò che va fatto e vieta ciò che non va fatto», come dice un frammento di Crisippo (3° secolo a.C.). Nella concezione stoica il mondo è una grande città retta da una sola costituzione e da una sola legge.
I filosofi scettici negavano invece questa nozione e attribuivano l’origine delle leggi alle convenzioni umane. Cicerone nel 1° secolo a.C. rigettò l’idea del diritto come frutto di convenzioni, e divulgò nel De legibus l’idea stoica di legge divina come ratio summa insita in natura («somma razionalità presente nella natura»), coincidente con la recta ratio («retta ragione») e con la morale, che impone comandi e divieti con le pene relative. Il comportamento giusto e retto non si riduce dunque all’osservanza delle leggi civili votate da magistrati o assemblee, che possono essere erronee se non rispettano le massime universali del diritto naturale.
I sistematori della giurisprudenza romana dell’epoca di Giustiniano (6° secolo) invocarono le norme supreme dello ius naturae («diritto di natura») come, per esempio, «dare a ciascuno il suo», «non nuocere agli altri». Essi considerarono queste regole il fondamento delle leggi positive, del senso di giustizia e di equità nell’interpretazione del diritto.
Anche nella scolastica medievale le leggi divine, dalle quali dipende il destino soprannaturale dell’uomo, sono distinte dalle leggi umane, le quali sono valide soltanto se non violano la norma eterna iscritta da Dio nella natura. Tommaso d’Aquino nel 13° secolo teorizzò a sua volta il diritto naturale come una norma oggettiva impressa nell’animo umano, mentre coloro che seguivano l’impostazione teologica di sant’Agostino – da Guglielmo di Occam nel 14° secolo a Lutero e Calvino nel 16° – posero in primo piano la libera volontà di Dio, dalla cui scelta arbitraria dipende ogni atto creativo e ogni norma imposta alle cose.
In età feudale anche l’investitura dell’«unto del Signore», imperatore o sovrano, era concepita come un atto immediato di Dio. Quando si affermarono gli ordinamenti di Stati e repubbliche borghesi fondati sul consenso dei cittadini, s’impose anche la necessità di dare una legittimazione laica ai governi. Le antiche teorie dello ius naturale furono reinterpretate come modello delle leggi positive in paesi come l’Olanda e l’Inghilterra, che si ribellarono ai monarchi di diritto divino e si appellarono alla vox populi come nuova fonte del potere e delle leggi.
Si affermò così la concezione di uno stato di natura che avrebbe preceduto lo stato civile e nel quale erano già presenti e operanti i principi del diritto naturale. Si immaginò che il passaggio dallo stato di natura allo stato di civiltà fosse avvenuto per consenso esplicito degli uomini, in virtù di un patto o contratto sociale, attraverso il quale i singoli contraenti si fossero accordati nel trasferire in tutto o in parte a un potere sovrano i loro diritti naturali (come la libertà e la sovranità individuale), con i propri beni, ricevendo in cambio protezione e difesa.
Nel corso del 17° e del 18° secolo questi concetti furono definiti in vario modo da Ugo Grozio e Baruch Spinoza in Olanda, Samuel Pufendorf in Germania, Thomas Hobbes, Algernon Sydney, John Locke in Inghilterra, Giambattista Vico in Italia, Montesquieu in Francia, per citare solo i più originali. Nelle opere di questi autori le nozioni di stato di natura e di patto sociale sono connesse a quella di diritto naturale. L’idea stoica che lo stato di natura fosse uno stato di pace e di relativa libertà, nel quale i singoli erano già protetti dalle massime dello ius naturale, si scontrò con l’immagine epicurea e lucreziana di uno stato di natura senza legge, dove «l’uomo è lupo per l’uomo».
Il filosofo inglese Thomas Hobbes nel 17° secolo dette una veste logica rigorosa a una teoria materialista del diritto naturale: la natura ha dato tutto a tutti, nello stato di natura «è lecito a tutti avere e fare qualsiasi cosa», e da ciò nasce uno stato di guerra generalizzato. La prima massima del diritto naturale è dunque: «Si deve ricercare la pace quando si può averla, quando non si può bisogna cercare aiuti per la guerra». La società civile sorge dal timore reciproco, e il patto sociale comporta la rinuncia dei singoli alla propria libertà e autonomia, che viene trasferita al sovrano, ed è vincolante il dovere di «stare ai patti»; è questa la seconda legge di natura, seguita da molte altre, immutabili, coincidenti con la retta ragione, che fissano i diritti civili e le regole della morale. I trattati De cive e Leviatano di ;Hobbes, apparsi a metà del secolo tra la rivoluzione puritana e la dittatura di Oliver Cromwell, opponevano alla monarchia di diritto divino uno Stato assoluto fondato sul consenso.
Durante la seconda rivoluzione inglese (1688) John Locke teorizzò lo Stato liberale, anch’esso fondato sul consenso ma con poteri limitati e con la possibilità di destituire il sovrano che violasse la costituzione. Il patto associativo da cui nasce lo Stato protegge con la forza delle leggi alcuni diritti naturali preesistenti nello stato di natura, che è uno stato di pace. La proprietà e la libertà sono tra i diritti «naturali» che lo Stato riconosce e difende e, in questo senso, solo i proprietari sono cittadini di pieno diritto.
Il dibattito proseguì tra giuristi e teorici della politica: in pieno Illuminismo lo svizzero Jean-Jacques Rousseau interpretò lo stato di natura di Hobbes come la proiezione immaginaria della società civile stessa, dominata dall’egoismo e dalle leggi ingiuste, e contrappose a Locke la teoria di un patto sociale in cui sovrano è il popolo stesso, e le leggi di natura ‘ragionate’ sono direttamente espresse dall’assemblea popolare. Le Dichiarazioni dei diritti delle rivoluzioni americana e francese proclamarono i diritti naturali dell’uomo e del cittadino. Il filosofo tedesco Immanuel Kant, infine, nel 18° secolo interpretò criticamente il concetto di diritto naturale assunto come fondamento dello Stato e delle sue leggi.
Nei due ultimi secoli le teorie del diritto naturale sono state messe in discussione dalla scuola di pensiero che studia il diritto come frutto della storia, e dalla dot;trina ‘pura’ del diritto. Nel linguaggio peculiare delle scienze naturali il carattere necessario e universale delle leggi di natura, che era stato affermato dagli antichi e poi rinnovato dalla fisica classica, è ormai sostituito da una concezione probabilistica o fallibilista degli enunciati logico-empirici.