Abstract
La voce offre un quadro sintetico della disciplina del fenomeno culturale nell’ordinamento italiano, esaminandone soprattutto i profili costituzionali. Evidenzia inoltre, con una ricognizione del complesso quadro legislativo, gli aspetti più rilevanti della vigente disciplina di settore in relazione al ruolo di integrazione pluralistica che la cultura, intesa nelle sue molteplici espressioni, svolge nei regimi democratici.
La dimensione culturale costituisce uno dei fattori fondanti dello Stato costituzionale di diritto nella sua declinazione pluralista: sebbene un originario concetto di Kulturstaat fosse già delineato in area tedesca con connotazioni autoritarie e conformative, teorizzato da Fichte nei Discorsi alla nazione tedesca (1807-8) e fin dalla prima metà del secolo XIX in parte realizzato in Prussia (sul tema Huber, E.R., Zur Problematik des Kulturstaats, Tübingen, 1958; con diversa lettura Spagna Musso, E., Lo Stato di cultura nella Costituzione italiana, Napoli, 1961; più recentemente, Marini, F.S., Lo statuto costituzionale dei beni culturali, Milano, 2002, 184 ss.), già nella Costituzione di Weimar del 1919 si garantivano libertà di arte e scienza, protezione di monumenti, opere d’arte e paesaggio (artt.142, 150 e 158 WRV). In Italia, lo Stato liberale unitario ebbe verso le arti e la cultura un atteggiamento ambiguo, promuovendone da un lato lo sviluppo e controllandone dall’altro le espressioni; questo secondo aspetto fu poi ovviamente molto accentuato dal regime fascista, che sorvegliò in vario modo le manifestazioni culturali secondo una logica fortemente censoria, orientandole a fini di costruzione del consenso e di formazione ideologica (seppur con qualche sporadica apertura; sul punto Ainis, M.-Fiorillo, M., L’ordinamento della cultura. Manuale di legislazione dei beni culturali, III ed., Milano, 2015, 39 ss. e 65 ss.). Peraltro, lo stesso regime disciplinò con leggi importanti e longeve il settore in esame: le “leggi Bottai” (la l. 1.6.1939, n. 1089, sulle cose d’arte, e la l. 29.6.1939, n. 1439, sulle bellezze naturali), o la prima “legge del due per cento” (la l. 11.5.1942, n. 839, che destinava il 2% della spesa per ogni opera pubblica alla commissione di opere d’arte figurativa per gli edifici), ancorché dettate da fini politici contingenti, ebbero il merito di proteggere e promuovere in modo innovativo il patrimonio artistico e paesaggistico italiano, sopravvivendo poi a lungo anche nel periodo repubblicano.
Nelle Costituzioni del secondo dopoguerra, la cultura è tutelata e sostenuta in modo più compiuto e secondo criteri inclusivi: così, per esempio, l’art. 9, co.1, della Costituzione italiana del 1948 stabilisce che la Repubblica (intesa come Stato-ordinamento, in ogni sua articolazione territoriale) «promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica»; l’art. 5, co. 3, del Grundgesetz tedesco del 1949 garantisce libertà di arte, scienza, ricerca e insegnamento; l’art. 20, co.1, lett. b) della Costituzione spagnola del 1978 riconosce e tutela il diritto «alla produzione e creazione letteraria, artistica, scientifica e tecnica»; a tali disposizioni si connettono poi tutte quelle inerenti alla tutela del patrimonio culturale da un lato, e della libertà della scuola e dell’insegnamento dall’altro, nel quadro di una Kulturstaatlichkeit pluralista che ispira complessivamente le Carte costituzionali di quest’area geopolitica (sul tema, Häberle, P., Kulturstaatlichkeit und Kulturverfassungsrecht, Darmstadt, 1982; Id., Cultura dei diritti e diritti della cultura nello spazio costituzionale europeo. Saggi, Milano, 2003).
Sul piano del diritto dell’Unione europea, l’art. 3, par.3, del TUE impone a questa il rispetto della ricchezza della diversità culturale e linguistica dell’Unione stessa; l’art. 167, par. 1, del TFUE la obbliga a contribuire «al pieno sviluppo delle culture degli Stati membri nel rispetto delle loro diversità nazionali e regionali, evidenziando nel contempo il retaggio culturale comune»; il par. 2 dello stesso articolo le impone altresì di incoraggiare la cooperazione tra Stati membri, se necessario appoggiandola e integrandola, nell’ambito dei settori del miglioramento e della diffusione della cultura e della storia dei popoli europei, della conservazione e salvaguardia del patrimonio culturale di importanza europea, degli scambi culturali non commerciali, nonché della creazione artistica e letteraria, compreso il settore audiovisivo; l’art. 107, par. 3, lett. d) dello stesso TFUE considera infine compatibili con il mercato interno «gli aiuti destinati a promuovere la cultura e la conservazione del patrimonio, quando non alterino le condizioni degli scambi e della concorrenza nell’Unione in misura contraria all’interesse comune» (sul tema Degrassi, L., Cultural Services and Constitutional Purposes (Italy and EU), in European Review of Public Law, n. 2/2014, 657 ss.). Devono essere poi considerati l’art. 13 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (com’è noto, ora vincolante al pari dei Trattati), che garantisce la libertà delle arti e della ricerca scientifica, nonché il rispetto della libertà accademica, e l’art. 22 della stessa, ove è sancito il rispetto della diversità culturale, religiosa e linguistica.
Sul piano del diritto internazionale, sanciscono diritti in materia di istruzione e cultura gli artt.26 e 27 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo proclamata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10.12.1948; infine, garantisce un diritto all’istruzione l’art.2 del Protocollo addizionale (approvato il 20.3.1952) alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (approvata dal Consiglio d’Europa il 4.11.1950).
Già un rapido sguardo, dunque, consente di cogliere alcuni dei tratti salienti del fenomeno culturale in relazione all’assetto dello Stato contemporaneo di democrazia pluralista: la cultura è in sé da intendersi comunque in senso plurale, come sintesi della molteplicità delle espressioni che coesistono (e devono poter convivere armonicamente) entro un medesimo contesto, nazionale o sovranazionale, e dunque come paradigma di un’identità collettiva continuamente in divenire, frutto di un processo di integrazione che dalla dimensione lato sensu culturale si traduce in una politica e sociale. Peraltro, non dev’essere mai dimenticato che, secondo l’accezione antropologica, è espressione culturale di una singola civiltà ogni manifestazione inerente alla forma di vita della stessa, e non solo quelle destinate a trasmetterne le capacità creative.
In tale prospettiva, è palese lo stretto collegamento esistente tra culture, democrazia e pluralismo: la pluralità e la convivenza delle prime giustifica, e insieme legittima, il pluralismo istituzionale e politico, rendendo ragione dei meccanismi dell’integrazione democratica. Inoltre, la tutela e la trasmissione di una cultura plurale sostanzia il processo di formazione (Bildung) del cittadino, abituandolo al confronto e alle procedure discorsive, nonché al riconoscimento e al rispetto dell’alterità e della diversità: tutti presupposti, questi, necessari per un pacifico ed efficiente funzionamento dei regimi democratici in società sempre più composite.
Il fenomeno culturale si concretizza infatti certamente in primo luogo come patrimonio, cultural heritage, memoria e testimonianza acquisita del passato, ed è in questo senso fondamento dell’identità storica di un popolo; ma deve altresì essere, allo stesso tempo, esperienza del presente e genesi del futuro di una collettività: in tale prospettiva esso costituisce dunque il luogo di un’identità in continuo divenire, in sé intrinsecamente plurale (Häberle, P., Costituzione e identità culturale: tra Europa e Stati nazionali, Milano, 2006; Rimoli, F., La dimensione costituzionale del patrimonio culturale: spunti per una rilettura, in Riv. giur. edilizia, n. 5/2016, 505 ss.). L’obiettivo dev’essere dunque quello di raggiungere un equilibrio tra passato, presente e futuro: e ciò, rispetto al patrimonio esistente, fa intendere sempre la sua tutela, la sua valorizzazione e soprattutto la sua fruizione come funzioni della promozione di un’entità sempre in fieri, cioè di un insieme di beni, e soprattutto di attività che sono, o si tradurranno, in, un ulteriore arricchimento materiale e spirituale di quella collettività, e talora, nei casi più felici, dell’intera umanità. In tal senso, il patrimonio culturale è ricchezza presente, ma soprattutto ricchezza futura: la sua conoscenza non si esaurisce in un mero godimento estetico, ma incentiva e orienta alla creazione di nuova cultura, di nuova arte, e dunque di nuovo patrimonio, materiale e immateriale. Inoltre, il patrimonio culturale è “ricchezza” anche in senso strettamente economico, nonché potenziale fonte di entrate quale fattore di promozione turistica, e dunque dev’essere valorizzato e reso ampiamente fruibile, seppur con misura e senza mai derogare al fine primario della tutela; e altrettanta cura e cautela richiede quell’attività di valorizzazione che passa tramite scambi e prestiti di opere d’arte. Infine, il mercato dei beni culturali e delle cose d’arte muove interessi enormi. Dunque la sua disciplina normativa richiede estrema attenzione, specialmente per l’Italia, che è da sempre ai primi posti tra le cosiddette source nations del settore (sul punto Casini, L., Ereditare il futuro. Dilemmi sul patrimonio culturale, Bologna, 2016, 123 ss.).
Come già accennato, nella Carta repubblicana del 1948 è anzitutto l’art. 9 la disposizione destinata a tutelare e promuovere la cultura: al già citato primo comma, rivolto essenzialmente al futuro, se ne aggiunge un secondo, che impone alla Repubblica di tutelare “il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, preservando così il passato e lo straordinario tesoro presente nel nostro Paese (sull’art. 9, Marini, F.S., op. cit., 10 ss.; Chiarelli, R., Profili costituzionali del patrimonio culturale, Torino, 2010); all’articolo in questione devono però essere collegati almeno gli articoli 33 e 34, in cui sono garantite la libertà dell’arte e della scienza (di cui, al primo comma dell’art. 33, si dice che sono «libere e libero ne è l’insegnamento»), e si disciplina l’intero settore dell’istruzione, dalla scuola statale, di ogni ordine e grado (art. 33, co. 2, e art. 34), al diritto di enti e privati di istituire scuole e istituti di educazione «senza oneri per lo Stato» (art. 33, co. 3), fino alle «istituzioni di alta cultura, università e accademie», cui si conferisce «il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato» (art. 33, co.6).
L’intero plesso delle disposizioni inerenti all’istruzione, intesa a ogni livello, è peraltro di primaria importanza per la formazione dei singoli, sia nella loro dimensione di cittadini partecipi di un modello democratico, sia, per quanto qui interessa, di fruitori (ed eventualmente futuri autori) del patrimonio culturale complessivamente inteso; giacché la vera tutela di questo, in prospettiva, non può che passare anzitutto per un’adeguata educazione della sensibilità di ciascuno alla percezione del fattore estetico-culturale come valore in sé (sugli artt. 33 e 34 Cost., in sintesi, Fontana, G., Art. 33, in Bifulco, R.-Celotto, A.-Olivetti, M., a cura di, Commentario alla Costituzione, I, Torino, 2006, 675 ss.; Poggi, A.M., Art. 34, ivi, 699 ss.).
Con riguardo alla definizione della ripartizione di competenze tra Stato e Regioni nel settore in esame, nell’art. 117 Cost. si attribuiscono alla potestà legislativa esclusiva dello Stato le norme generali sull’istruzione (art. 117, co. 2, lett. n) e la tutela dei beni culturali (art. 117, co. 2, lett. s); alle Regioni spettano poi, quale oggetto di potestà legislativa concorrente, l’istruzione (salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione dell’istruzione e della formazione professionale), la ricerca scientifica e tecnologica, il sostegno all’innovazione per i settori produttivi, la valorizzazione dei beni culturali e ambientali e la promozione e organizzazione di attività culturali (art. 117, co. 3). La “Costituzione culturale” italiana si completa infine con l’art. 118, co. 3, che affida alla legge statale la disciplina di “forme di intesa e coordinamento” tra Stato e Regioni in materia di tutela dei beni culturali. Inoltre, deve essere ricordato che la Corte costituzionale, già a partire da alcune sentenze degli anni Ottanta (C. cost., 27.6.1986, nn. 151, 152, 153; più recenti le sentenze C. cost., 5.5.2006, nn. 182 e 183), ha fatto assurgere il valore estetico-culturale a “valore primario” dell’ordinamento italiano. Il quadro che ne consegue, anche al netto delle sovrapposizioni e imprecisioni generate dall’affrettata riforma del titolo V della seconda parte della Costituzione operata con la l. cost. 18.10.2001, n. 3, è dunque alquanto complesso.
Sul piano dell’organizzazione amministrativa, un ruolo eminente nel settore culturale è affidato anzitutto al Ministero, già denominato “per i beni e le attività culturali”, istituito con il d.lgs. 20.10.1998, n. 368 (al posto del precedente Ministero per i beni culturali e ambientali, creato nel 1974); a tale dicastero, incluso nell’elenco di cui all’art.2, co.1, del d.lgs. 30.7.1999, n.300, sono state poi affidate, con l’art. 10 del d.lgs. 30.7.1999, n. 303, competenze relative al diritto d’autore, alla proprietà letteraria e alla promozione delle attività culturali, nonché successivamente, con l’art. 1, co. 2, della l. 24.6.2013, n. 71, competenze in materia di turismo (sicché la sua denominazione, nel novellato art.2, co.1, del d.lgs. n.300/99, è era diventata quella di Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo). La sua struttura, frequentemente rimaneggiata, è dettata ora dal d.P.C.M. 29.8.2014, n. 171, come modificato dal d.P.C.M. 1.12.2017, n. 238, e dal d.m. 23.1.2016, n. 44 (emanato sulla base dell’art. 1, co. 327, della l. 28.12.2015, n. 208). Il recente d.l. 12.7.2018, n.86, convertito con modifiche nella legge 9.8.2018, n.97, sopprime però, a partire dal 1’ gennaio 2019, la direzione generale turismo presso il Ministero per i beni e le attività culturali (che torna dunque a tale vecchia denominazione, secondo l’ulteriore modifica apportata all’art.2, co.1, n.12 del d.lgs. n.300/99), e trasferisce, con scelta alquanto opinabile, al Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali tutte le competenze relative al turismo, con le relative risorse umane, strumentali e finanziarie, (sulla riforma del 2013, Casini, L. “Learning by experience”? La riforma del Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, in www.aedon.it, n.3/2017). L’art. 53 del d.lgs. 30.7.1999, n. 300, affida al Ministero, oltre alle funzioni di tutela, gestione e valorizzazione dei beni culturali e ambientali, la promozione delle attività culturali e dello spettacolo, nonché delle produzioni cinematografiche, audiovisive e multimediali, del libro, della cultura urbanistica e architettonica, tentando in tal modo di assicurare unità di indirizzo all’intero settore (in tema Casini, L., Ereditare il futuro, cit., 157 ss.; Ainis, M.–Fiorillo, M., op.cit., 282 ss.). Sul piano della ripartizione di competenze tra enti territoriali, peraltro, già con l’art. 49 del d.P.R. 24.7.1977, n. 616 si sono affidati alle Regioni e agli enti locali poteri di intervento nel settore dello spettacolo (prosa, musica, cinematografia), e ciò ha prodotto nel tempo, pur in coerenza con la nozione di “Repubblica” di cui all’art. 9 Cost., un’estensione dell’ambito materiale delle competenze degli enti minori, di fatto ampliando la loro funzione promozionale ad attività del più vario genere (folclore, gastronomia, artigianato locale), peraltro esercitate talora con esiti discutibili, sostenuti da un rilevante dispendio di risorse finanziarie. La riforma costituzionale del 2001, comunque, ha incluso tra le materie oggetto di potestà legislativa concorrente la «promozione e organizzazione di attività culturali» (ivi includendo lo spettacolo e la cinematografia, secondo le sentenze 21.7.2004, nn. 255 e 256 e 19.7.2005, n. 285 della Corte costituzionale, orientata all’affermazione di una forma di “concertazione forte” tra Stato e Regioni in questi settori), nel cui ambito dunque spetterebbe allo Stato porre solo norme di principio. Il che lascia peraltro sussistere qualche timore per la palese disomogeneità di strutture e finanziamenti nel settore in esame rispetto alle diverse realtà regionali, e ciò, anche in relazione al profilo della tutela dei livelli essenziali delle prestazioni civili e sociali di cui all’art. 117 co. 2, lett. m), Cost., richiederebbe un necessario intervento compensativo dello Stato (in tal senso Ainis, M.-Fiorillo, M., op.cit., 332).
Dal punto di vista normativo, oltre che da quello analitico, si distinguono agevolmente nel settore culturale due ambiti concettuali, talora peraltro sovrapponibili: quello dei beni e quello delle attività. In sede espositiva sembra più opportuno tuttavia muovere da queste ultime, logicamente preliminari in quanto fattore genetico essenziale dei beni, materiali e immateriali, che sostanziano in concreto il patrimonio storico-artistico di cui parla l’art. 9, co. 2, Cost., e in senso assai più lato, il patrimonio culturale del Paese (del quale, come bene immateriale, fa certamente parte anche la lingua italiana, che, in mancanza di più specifiche disposizioni costituzionali, può ben essere tutelata anche da una lettura comprensiva dell’art. 9 Cost., come ben affermato, di recente, dalla sentenza 24.2.2017, n. 42 della Corte costituzionale; sul punto Rimoli, F., Internazionalizzazione degli atenei e corsi in lingua straniera: la Corte accoglie l’inglese difendendo l’italiano, in Giur.cost., 2017, 392 ss.; si veda anche, della stessa Corte, la sentenza 22.11.2018, n.210).
Tralasciando il vasto e complesso settore dell’istruzione, esulante dall’oggetto di questa voce, il primo ambito da considerare è dunque quello delle attività culturali: sotto questo profilo, è evidente che, nell’ordinamento italiano, la prima norma da prendere in esame è quella posta nell’art. 21 Cost. in ordine alla libertà di manifestazione del pensiero, di cui la già citata disposizione contenuta nell’art. 33, co. 1, Cost., relativa alla libertà dell’arte e della scienza, costituisce specificazione (Cerri, A., Arte e scienza (libertà di), in Enc. giur. Treccani, I, Roma, 1988, 1 ss.; Id., Arte e scienza, postilla di aggiornamento, ivi, agg. XVI, Roma, 2008, 1 ss.; Rimoli, F., La libertà dell’arte nell’ordinamento italiano, Padova, 1992; Id., Le libertà culturali, in Nania, R.-Ridola, P., a cura di, I diritti costituzionali, III, II ed., Torino, 2006, 899 ss.; Id., L’arte, in S. Cassese, a cura di, Trattato di diritto amministrativo – Diritto amministrativo speciale, t. II, II ed., Milano, 2003, 1513 ss.). Secondo una risalente ma sempre attuale dottrina, l’attività artistica e quella scientifica rientrerebbero tuttavia tra quelle “materie privilegiate” per le quali non si applicherebbe il generale limite del buon costume previsto dall’art. 21, co. 6, Cost., per le manifestazioni di pensiero in generale (Fois, S., Principi costituzionali e libera manifestazione del pensiero, Milano, 1957, 48 ss.; si veda tuttavia Barile, P., Libertà di manifestazione del pensiero, in Enc. dir., XXIV, Milano, 1974, 429 ss.); con tale lettura risulta coerente anche il tuttora vigente (e peraltro anteriore alla Costituzione repubblicana) art. 529, co. 2, c.p., per il quale «non si considera oscena l’opera d’arte o l’opera di scienza, salvo che, per motivo diverso da quello di studio, sia offerta in vendita, venduta o comunque procurata a persona minore degli anni diciotto» (sul punto Rimoli, F., La libertà, cit., 285 ss.).
Quanto alla disciplina specifica, una prima formulazione era stata data dal d.lgs. 31.3.1998, n. 112, il cui art. 148, dettando disposizioni sul trasferimento di funzioni e compiti amministrativi dallo Stato alle Regioni, definiva come “attività culturali” quelle «rivolte a formare e diffondere espressioni della cultura e dell’arte»; lo stesso articolo definiva inoltre come funzione di “promozione” ogni attività «diretta a suscitare e sostenere le attività culturali». Abrogato l’art. 148 dal d.lgs. 20.1.2004 n. 20, allo stato attuale la principale disposizione cui riferirsi in materia di attività culturali è l’art. 156 del medesimo d.lgs. n.112/98, che elenca una serie di compiti affidati allo Stato in materia di spettacolo, e le sentenze della Corte costituzionale di cui si è detto. Vi sono poi alcune importanti normative di settore, come la l. 14.11.2016, n. 220, disciplinante il cinema e l’audiovisivo, il d.lgs. 29.6.1996, n. 367, disciplinante la trasformazione degli enti operanti nel settore musicale in fondazioni di diritto privato, nonché qualche vecchia (seppur ritoccata) legge di incentivazione, come la l. 29.7.1949, n. 717, più volte modificata, che riprende in sostanza la “legge del due per cento” (l. n. 839/1942) già citata; infine, la recente legge 22.11.2017, n. 175, contenente “Disposizioni in materia di spettacolo e deleghe al Governo per il riordino della materia”, che ridefinisce i princìpi dell’intero settore, conferisce al Governo un’articolata serie di deleghe per una revisione complessiva della normativa vigente (da effettuare peraltro senza maggiori oneri per la finanza pubblica), e istituisce altresì (art. 3) un Consiglio superiore dello spettacolo avente funzioni consultive, composto da 15 membri nominati dal Ministro (dei quali peraltro solo quattro su rose indicate dalle associazioni di categoria).
È evidente che, ricollegandosi alle norme costituzionali citate (cui si dovrebbe aggiungere in via generale l’art. 3, co. 2, ossia l’ivi sancito principio di eguaglianza sostanziale), e soprattutto alla dimensione pluralista del nostro ordinamento, il compito dei soggetti pubblici nel settore delle attività culturali dovrà essere inteso anzitutto come espressione di un ruolo compensativo e di garanzia, di “attiva neutralità” per quelle espressioni che, prive per loro natura di un riscontro commerciale immediato a causa della complessità dei linguaggi utilizzati o per una condizione di emarginazione dai circuiti mediatici, non siano in grado di emergere dinanzi al pubblico dei potenziali fruitori. In tal senso, la promozione dovrebbe essere rivolta anzitutto a consentire alle espressioni “deboli” di venire alla luce, secondo un criterio di inclusività ispirato a garantire un’eguaglianza di chances e a evitare ogni preclusione di tipo ideologico. Così, le diverse forme di promozione di natura pubblica (incentivi, sovvenzioni, premi, agevolazioni fiscali per i finanziatori privati che si traducono in tax expenditures) presenti nel nostro ordinamento (peraltro in misura sempre insufficiente, come accade per il Fondo Unico per lo Spettacolo creato dalla l. 30.4.1985, n. 163 e definito annualmente dal Ministero) dovrebbero essere indirizzate al sostegno di quelle espressioni che non siano già gratificate dal mercato. Resta peraltro il problema delicato della selezione dei beneficiari, che di fatto impone un necessario intervento valutativo degli esperti di settore, conformato secondo una discrezionalità tecnica che si traduce poi in limiti all’eventuale sindacato giurisdizionale sulla scelta operata (sul punto Rimoli, F., La libertà dell’arte, cit., 240 ss.; Marzuoli, C., Potere amministrativo e valutazioni tecniche, Milano, 1985; De Pretis, D., Valutazione amministrativa e discrezionalità tecnica, Padova, 1995).
Quanto ai beni, deve premettersi che, secondo l’accezione antropologica, è espressione culturale di una singola civiltà ogni manifestazione inerente alla forma di vita della stessa, e non solo quelle che si concretizzino in prodotti delle sue capacità creative dotati di un apprezzabile valore estetico-artistico. In tal senso, anche un semplice utensile, rinvenuto in uno scavo archeologico, può assumere un valore culturale affatto diverso dal suo originario valore d’uso, benché ovviamente il primo gli sia di fatto conferito dall’attività scientifica (ossia culturale) dello studioso che si serve di quel frammento per ricostruire la vita quotidiana di un’antica civiltà, e non sia dunque intrinseco dell’oggetto in sé. La disciplina dei beni culturali è attualmente posta dal già citato d.lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), il cui art. 2, co. 2, non dà una definizione di bene culturale, ma elenca come beni culturali le cose mobili e immobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11 dello stesso Codice, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico, nonché «le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà» (ossia, come detto, non solo i beni-cose esteticamente rilevanti, bensì quelli culturalmente apprezzabili in senso lato). Ritorna però, in tale disposizione, il requisito della materialità del bene, inteso come res, secondo un’accezione tradizionale già fatta propria dalla Convenzione Unesco del 1954 e dal rapporto della Commissione Franceschini nel 1964, che era stata invece opportunamente superata dall’abrogato art. 148 del d.lgs. n.112/98 (sul tema Tosco, C., I beni culturali. Storia, tutela e valorizzazione, Bologna, 2014): il che comporta, come si dirà un problema in ordine alla pur palese natura di bene culturale di taluni beni immateriali, tra i quali devono essere incluse anche alcune attività. Peraltro, per ognuna delle categorie elencate rimane, come detto, una soggettività di fondo inerente alla valutazione effettuata dagli esperti di settore circa la qualificazione stessa dell’interesse culturale (artistico, storico, archeologico etc.), e dunque sull’effettiva inclusione del singolo bene entro le medesime. Sul punto sovvengono tuttavia gli articolati elenchi di cui agli artt. 10 e 11 del Codice stesso (con la connessa verifica di cui all’art. 12 e la successiva dichiarazione di cui all’art.13), nonché eventuali ulteriori elenchi formulate da altre leggi (anche regionali, se orientati alla valorizzazione). Una funzione di primaria importanza rispetto ai beni, oltre a quella statale della tutela, è quella della valorizzazione, disciplinata dagli articoli 6 e 111 ss. del Codice in modo differenziato secondo la proprietà dei beni, alla luce di criteri (forse un po’ troppo ottimistici) di sussidiarietà verticale e orizzontale, ossia di collaborazione tra livelli di governo mediante accordi, nonché tra soggetti pubblici e privati (è però interessante qui la possibilità, prevista dall’art. 119, di collaborazione con il Ministero dell’università e della ricerca a fini di diffusione della conoscenza del patrimonio). Tale funzione (su cui Degrassi, L., Cultura e istituzioni. La valorizzazione dei beni culturali negli ordinamenti giuridici, Milano, 2008; Vaiano, D., La valorizzazione dei beni culturali, Torino, 2011) si connette tuttavia a una specifica declinazione della tutela, ossia a un’ulteriore attività di conservazione dei beni: qui la concorrenza di Stato, Regioni ed enti locali, già disposta dall’ancora vigente art. 149, co. 2, del d.lgs. n. 112/98 nel quadro della definizione delle funzioni statali di tutela, è recepita anche dal Codice. L’art. 1, co. 3, del medesimo impone a tutti gli enti territoriali il compito di conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale materiale, a fini di fruizione; gli artt. 4 e 5 definiscono poi i compiti di tutela statali, nonché i modi in cui il loro esercizio può essere conferito alle Regioni con intese e coordinamenti, nel quadro di una complessiva cooperazione tra Stato, Regioni ed enti locali (tutela, valorizzazione e fruizione si estrinsecano in modo esemplare nella gestione dei musei, la cui disciplina è dettata ora, per quelli statali, dal d.m. 23.12.2014, mod. dal d.m. 23.1.2016, n. 43 e poi dal d.m. 7.2.2018). Inoltre, un obbligo di conservazione dei beni culturali spetta anche ai privati che ne siano possessori (art. 30, co. 3, del Codice), e l’attività di valorizzazione a iniziativa privata, riconosciuta come socialmente utile, può altresì, previo accordo, beneficiare del sostegno di Stato, regioni ed enti pubblici territoriali in relazione a beni dei privati stessi (artt. 111, co. 4 e 113 del Codice).
Peraltro, legislatore, giurisprudenza costituzionale e dottrina si sono finora concentrati prevalentemente su un pluralismo di tipo istituzionale-territoriale, in cui gli equilibri sono perseguiti tramite un principio di sussidiarietà verticale (o di leale cooperazione) tra Stato, Regioni e autonomie locali, con un quadro di competenze variabile in cui, restando ferma (per ovvi motivi) la funzione di tutela dei beni in capo allo Stato, le altre (valorizzazione dei beni, promozione delle attività) si distribuiscono tra lo Stato stesso, le Regioni e gli enti locali (sul tema Marini, F.S., op.cit., 241 ss.). In misura minore, si è fatto ricorso a una sussidiarietà orizzontale, responsabilizzando i privati proprietari di beni culturali nella tutela, ma anche favorendo la partecipazione degli stessi alla valorizzazione (art. 6, co. 3, del Codice; sul punto Casini, L., op.cit., 105 ss.).
E tuttavia, il pluralismo della cultura non può esaurirsi nella distribuzione tra i livelli di governo, ove ciò che prevale sono soprattutto i profili politici (sovente localistici) delle scelte. L’aspetto territoriale della gestione della politica culturale dovrebbe essere affiancato da strumenti e luoghi di rappresentanza del maggior numero possibile di istanze culturali, anche al livello centrale, creati per i già descritti fini di sostegno e promozione delle culture più deboli (non solo locali), in un’attuazione del principio di eguaglianza sostanziale che deve tener conto di una realtà in cui le espressioni che siano in grado di ottenere maggiore popolarità, muovendo, direttamente o indirettamente, più interessi mercantili, inevitabilmente soffocano quelle più deboli, che come detto sono tali non solo quando siano il frutto di subculture locali, ma anche quando siano fondate su codici espressivi esoterici o troppo complessi per ottenere un gradimento diffuso (il cinema d’autore, il teatro d’avanguardia, certa arte contemporanea; sul punto Rimoli, F., La libertà, cit., 171 ss.). Per tale aspetto, né il Consiglio superiore “Beni culturali e paesaggistici” di cui all’art. 25 del d.P.C.M. n.171/14, né il neonato Consiglio superiore per lo spettacolo di cui all’art.3 della legge n.175/17 sembrano essere adeguatamente strutturati.
Questo profilo investe anche i meccanismi di sponsorizzazione e di agevolazione fiscale disciplinati dagli artt. 120 ss. del Codice e dalla legge 2.8.1982, n. 512, e quelli rivolti a incentivare il mecenatismo delle erogazioni liberali, come il d.l. 31.5.2014, n. 83 (c.d. “Art Bonus”, conv. con mod. nella l. 29.7.2014, n. 106, e ora esteso dall’art. 5 della nuova legge sullo spettacolo anche a tale settore: sul punto già Casini, L., op.cit., 97 ss.): questi, per la loro stessa struttura, attirano finanziamenti soprattutto per eventi (spettacoli, mostre e simili) o interventi (restauri, recuperi) che garantiscono un forte ritorno d’immagine. Inoltre, in quanto forme di tax expenditure, possono essere efficaci, ma allocano quote di fondi pubblici con scelte operate da privati, il che lascia sempre qualche perplessità (su questi temi, Starola, L., La sponsorizzazione dei beni culturali: opportunità fiscali, in www.aedon.it, n. 1/2010; Comporti, G.D., Sponsorizzazione ed erogazioni liberali, ivi, n. 2/2015). Sono strumenti utili, perché alleviano da attività necessarie ma costose le istituzioni pubbliche: ma per giustificarne la dinamica secondo il modello costituzionale, si dovrebbe poi imporre un obbligo a queste ultime di reinvestire i soldi così risparmiati nel sostegno a quei fenomeni che sono per loro natura “fuori mercato”, secondo la funzione di riequilibrio e il paradigma di “neutralità attiva” che si è detto dover essere propri dei pubblici poteri anche nel settore in esame.
Resta il problema, già accennato, dei beni immateriali, categoria individuata come tale già da una dottrina risalente agli anni Settanta (Cassese, S., I beni culturali tra Bottai e Spadolini [1975], in Id., L’amministrazione dello Stato, Milano, 1976, 152 ss.; Giannini, M.S., I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, 3 ss.; di recente Morbidelli, G., Il valore immateriale dei beni culturali, in www.aedon.it, 1/2014; Casini, L., “Noli me tangere”: i beni culturali tra materialità e immaterialità, ivi), nonché da qualche sentenza del giudice costituzionale (per esempio la sent. 9.3.1990, n.118, su cui Rimoli, F., L’attività come bene culturale al vaglio della Corte costituzionale, in Nomos, 1990, n. 2, 101 ss.), ora recepita e tutelata da una Convenzione Unesco del 17 ottobre 2003 (resa esecutiva in Italia dalla l. 27.9.2007, n. 167), ma inopportunamente esclusa dall’art. 2, co. 2 del Codice (con scelta ribadita dall’art. 7-bis, introdotto per limitare l’applicazione della Convenzione stessa alle sole “testimonianze materiali”). Esclusione tanto più improvvida, giacché l’idea di un bene-attività è intrinsecamente connessa al concetto di bene culturale quale suo sostrato ontologico: da un lato, perché è l’attività che produce beni (e in fondo le stesse attività di tutela, valorizzazione e promozione sono in sé attività culturali, ovvero beni esse stesse); dall’altro, perché la qualificazione di bene culturale attribuita alla singola res è in sé il frutto di un’attività – cioè di un giudizio estetico-storico-assiologico – operata dalla collettività (e dai suoi esperti) su quel bene entro una determinata cultura; infine, perché certe attività, pur in sé non dotate a priori di valore culturale, possono assumerlo ove diventino in sé testimonianza storica di una certa comunità (si pensi a certi locali di ritrovo nei centri storici, la cui destinazione d’uso diventa in sé patrimonio di cultura locale). Una dimensione di immaterialità inerisce quindi necessariamente al concetto di bene (e di patrimonio) culturale, estendendosi, in una sostanziale omogeneità cognitiva, a tutte le fasi del processo culturale, inteso come un continuum agìto in modi e fasi diverse, nonché da diversi soggetti, ma in sé unitario: creazione, tutela (conservazione), gestione (peraltro quasi scomparsa dalle norme), valorizzazione, promozione e – quale obiettivo finale – fruizione comune. Peraltro, la recente l. 8.3.2017, n. 44, modificando la precedente l. 20.2.2006, n. 77, ha incluso nella disciplina della tutela e della fruizione dei “siti” italiani inseriti dall’Unesco nella “Lista del patrimonio mondiale”, anche la tutela e la valorizzazione degli “elementi del patrimonio culturale immateriale”.
Emergono qui la notevole capacità espansiva e la forte intensione concettuale dell’art. 9 Cost., che consente di individuare una nozione di “patrimonio culturale” assai più ampia di quella indicata dalla sua formulazione letterale (includente peraltro anche la tutela della lingua italiana, come detto, o del paesaggio, inteso come bene posto tra natura e cultura, e come “forma del Paese”: così Predieri, A., Paesaggio, in Enc.dir., XXXI, Milano, 1981, 503 ss.; sul tema di recente Casini, L., Ereditare il futuro, cit., 141 ss.), comprensiva dei beni materiali e immateriali, delle attività (intese anche come beni) e di ogni espressione di quel valore estetico-culturale che, concepito in senso lato, assume valenza primaria nell’intero ordinamento. In tale prospettiva, l’intero complesso normativo della “Costituzione culturale” italiana, frutto tra i più felici della stagione costituente, permette – e impone – un’attuazione ben più ampia e pervasiva di quella fin qui raggiunta, in un Paese il cui patrimonio culturale, in ogni sua forma, ha sempre rappresentato un punto di riferimento mondiale.
Fonti normative
Artt. 9, 21, 33, 34, 117 e 118, Cost.; artt. 26 e 27, Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo; art. 2, Protocollo addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; art. 3 TUE; artt. 107 e 167 TFUE; artt. 13 e 22 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; d.lgs. 20.10.1998, n. 368; art. 2, co. 1, d.lgs. 30.7.1999, n. 300; art. 10, d.lgs. 30.7.1999, n. 303; art. 1, co. 2, l. 24.6.2013, n. 71; d.P.C.M. 29.8.2014, n. 171, modificato dal d.P.C.M. 1.12.2017, n. 238; d.m. 23.1.2016, n. 44; art. 49, d.P.R. 24.7.1977, n. 616; art. 529, co. 2, c.p.; l. 29.7.1949, n. 717; l. 2.8.1982, n. 512; l. 30.4.1985, n. 163; art. 156, d.lgs. 31.3.1998, n. 112; d.lgs. 29.6.1996, n. 367; l. 14.11.2016, n. 220; l. 22.11.2017, n.175; d.lgs. 22.1.2004, n.42 (Codice dei beni culturali); d.m. 23.12.2014, come mod. dal d.m. 23.1.2016, n. 43; l. 29.7.2014, n. 106; d.l. 12.7.2018, n. 86, convertito con modifiche nella legge 9.8.2018, n. 97.
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