Abstract
Viene esaminato il regime dei beni culturali, muovendo da una prospettiva storica. Sono esposte le nozioni giuridicamente rilevanti, la disciplina e l’organizzaione amministrativa preposta alla loro cura, segnalandosi le relative criticità.
Il nostro Paese vanta una tradizione di eccellenza nella disciplina legislativa volta alla tutela di quelle che, in via di prima approssimazione, possiamo definire cose d’arte (Emiliani, A., Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei beni culturali degli antichi stati italiani, 1571–1860, Bologna, 1978).
L’atto normativo più compiuto del periodo preunitario è l’editto emanato dal cardinale camerlengo Bartolomeo Pacca, sotto il pontificato di Pio VII, il 7 aprile 1820 (Volpe, G., Manuale di diritto dei beni culturali – Storia ed attualità, Padova, 2013, 48 ss). Si imponeva di denunciare alla «Commissione di belle arti» tutti gli oggetti d’antichità e d’arte che si trovassero nelle chiese o in qualunque stabilimento ecclesiastico o secolare, in modo da consentirne la catalogazione; si stabilivano, inoltre, una serie di vincoli e controlli volti alla conservazione, al restauro, alla vigilanza sulla circolazione degli stessi oggetti, distinguendo quelli «di singolare e famoso pregio per l’arte e per l’erudizione» (che potevano essere alienati solo all’interno dello Stato e previa licenza) da quelli non ritenuti «necessari o di sommo riguardo per il Governo» (dei quali comunque doveva essere comunicata l’alienazione, pena la confisca, e ne era vietata l’esportazione senza una licenza, con l’applicazione di una tassa); veniva, inoltre, definita una prima disciplina degli scavi ed era istituito l’«Ispettorato delle Antichità e Belle Arti» competente a far applicare queste regole. Nonostante analoghe, anche se a volte meno evolute, legislazioni fossero presenti negli altri Stati della Penisola, la loro applicazione non fu, tuttavia, in grado di impedire la grande depredazione degli oggetti d’arte che l’Italia subì tra il XVII e il XIX secolo (Haskell, F., La dispersione e la conservazione del patrimonio artistico, in Storia dell’Arte italiana, X, Torino 1985; Wescher, P., I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre (1974), trad. a cura di F. Cuniberto, Torino, 1988).
Queste legislazioni faticavano ad essere accettate, in quanto facevano emergere il rilievo non meramente privato di questi beni e conseguentemente istituivano l’esercizio di pervasivi controlli pubblici su beni anche in proprietà privata a tutela di interessi generali, a volte contrastanti con quelli del proprietario stesso.
E fu proprio il dibattito sulla misura in cui si potesse incidere sugli interessi dei privati proprietari a caratterizzare la prima legislazione dell’Italia unita in materia ed anzi a pregiudicare, per un certo periodo, un approccio più organico che si realizzò soltanto nel 1939.
Si pensi, ad esempio, alla sospensione degli articoli 24 e 25 del codice civile del 1865, che sancivano lo scioglimento dei fidecommessi (istituti che avevano limitato fino ad allora, la dispersione delle collezioni d’arte e delle biblioteche), decisa per venire incontro all’esigenza di evitare la dispersione di questi beni, ma al tempo stesso indice di un intervento occasionale e circoscritto, perchè avvertito in contrasto con la generale libertà di commercio dei beni privati sancita dal codice stesso come idem sentire della élite al potere. Sempre la difficoltà di affrontare il probelma di un organico intervento sulla materia fu alla base della l. 28.6.1871 che si limitò a mantenere in vigore le leggi e i regolamenti degli Stati preunitari sulla conservazione dei monumenti e delle cose d’arte, rinunciandosi così a dettare una uniforme disciplina per il Regno. Oltre alla indivisibilità delle collezioni e delle biblioteche, si stabilì poi che la loro alienazione poteva essere fatta in favore dello Stato, delle province o dei comuni o degli enti morali nazionali, i quali avevano l’obbligo di conservazione e destinazione in perpetuo ad uso pubblico (l. 8.7.1883, n. 1461). Si cominciava ad affermare nei testi legislativi che la proprietà pubblica dei beni in questione poteva costituire di per sè garanzia per la loro adeguata conservazione. Una concezione presente anche nella legislazione in vigore.
Tra il 1874 e il 1876 furono istituiti, presso il Ministero della Pubblica istruzione, la Direzione centrale degli scavi e dei musei, che poi divenne la Direzione generale delle antichità e belle arti, le Commissioni consultive conservatrici dei monumenti d’arte e d’antichità in ciascuna provincia e gli Ispettori nei comuni maggiori. L’inserimento dell’ufficio competente nel dicastero dedito alla pubblica istruzione segnala che le funzioni pubbliche di tutela delle cose d’arte erano intese come mezzi per il progresso degli studi storici e per la divulgazione della cultura. Il Ministero della Pubblica istruzione è rimasto competente sul settore sino alla istituzione nel 1974 del Ministero per i beni e la attività culturali.
L’Italia liberale produsse i suoi migliori interventi normativi prima con la l. 12.6.1902, n. 185, che però era caratterizzata da un approccio basato sulla pregiudiziale catalogazione dei beni affinché si potesse attivare la tutela, che ne limitava molto l’efficacicia, e poi, con la l. 20.6.1909, n. 364. Quest’ultima legge si segnala per la sua modernità. Erano sottoposte a tutela tutte le cose che avessero interesse storico, archeologico o artistico, tranne le opere di autori viventi o risalenti a meno di 50 anni; lo Stato aveva diritto di acquisto coattivo delle cose presentate per l’esportazione, la quale era, comunque, vietata quando avrebbe recato grave danno per la storia, l’archeologia o l’arte della nazione; si stabiliva l’inalienabilità delle cose caratterizzate dai predetti interessi, dello Stato e degli enti morali; quelle private, se riconosciute mediante un provvedimento di notifica «di importante interesse», erano soggette a diritto di prelazione da parte dello Stato, qualora il proprietario avesse inteso venderle; doveva essere autorizzato ogni intervento sulle cose stesse; si prevedeva la disciplina degli scavi archeologici; si consentiva addirittura l’espropriazione, anche delle cose mobili, nel caso in cui il proprietario non vi avesse prestato la dovuta cura.
L’assetto normativo, come anticipato, raggiunge un elevato grado di compiutezza con la l. 1.6.1939, n. 1089 e con la l. 29.6.1939, n. 1497. Con il primo atto si intedendeva perfezionare e rendere più organico il sistema di tuela e conservazione delle «cose mobili e immobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnografico». A tale scopo, venivano disciplinati i procedimenti volti alla individuazione dei beni e alla imposizione delle necessarie prescrizioni per la loro conservazione, anche quando i beni fossero in proprietà privata; si ribadì il principio che ogni intervento sulla cosa oggetto di tutela avrebbe dovuto essere autorizzato dalla competente amministrazione; si attribuirono all’amministrazione poteri di ispezione e di ordine, tendenti a verificare lo stato dei beni; si disciplinarono più puntualmente la prelazione artistica, l’acquisto all’esportazione e anche l’espropriazione per la miglior tutela dei beni stessi; si stabilì il principio della non indennizzabilità di questi vincoli, quando granvanti su proprietà private; si impose in alcuni casi l’obbligo, anche in capo ai privati proprietari, di permettere la fruizione del bene alla collettività; la destinazione alla fruizione collettiva di questi beni era, invece, normale se di proprietà pubblica, quando il bene stesso non fosse destinato ad altra pubblica funzione.
Con la seconda legge, si intese dare tutela organica alle cc.dd. «bellezze naturali» cioè alle cose immobili aventi cospicui caratteri di bellezza naturale o di singolarità geologica, ville, giardini parchi che si distinguono per la loro non comune bellezza, i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale, le bellezze naturali considerate quadri naturali e quei punti di vista o di belvedere accessibili al pubblico dai quali si goda lo spettacolo di queste. Anche in questo caso, il sistema di tutela si realizzava attraverso l’imposizione di vincoli alla proprietà anche privata volti a mantenere lo stato dei luoghi e a contenerne e a indirizzarne le modifiche attraverso i piani territoriali paesistici.
Le resistenze proprietarie dovettero, quindi, cedere il passo alla politica di conservazione di quello che sarà definito patrimonio artistico e paesaggistico nazionale.
Iniziava, quindi, a emergere la consapevolezza secondo la quale l’intervento sul territorio e la conservazione delle cose d’arte, come delle vestigia del passato costituiscono strumenti diversi, ma complementari di una politica volta a proteggere i beni in questione in modo coordinato e integrale.
La connessione forte tra le tutele di queste categorie di beni e l’affinità delle relative discipline normative hanno trovato un riconoscimento nell’art.9 della Costituzione repubblicana, ove appunto si impone alla Repubblica di tutelare il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione (Merusi, F., Articolo 9, in Commentario alla Costituzione, Principi fondamentali, a cura di G. Branca, Bologna, 1975). Ciò significa che lo Stato ordinamento, in tutte le possibili articolazioni organizzative, deve tutelare il patrimonio storico e artistico della Nazione considerato un «tutto unitario e indifferenziabile» (Merusi, F., Pubblico e privato e qualche dubbio di costituzionalità nello statuto dei beni culturali, in Dir. amm., 2007, 1 ss.); ogni soggetto di amministrazione, nell’ambito e nei limiti delle proprie funzioni, deve sempre tutelare i beni cultuarli ogni volta che si imbatta in essi.
A livello legislativo, il riconoscimento della stretta attinenza tra i due sistemi normativi si è avuto con il T.U. sui Beni cluturali (d.lgs. 29.10.1999, n. 490) che raccoglie e sistematizza entrambe i plessi normativi in un un’unica fonte e li integra anche con la disciplina degli archivi e dei documenti di notevole interesse storico, fino ad allora separata. L’impianto normativo unitario di queste materie è confermato nell’attuale Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 22.1.2004, n. 42, d’ora in avanti il Codice).
È stato rilevato che le problematiche poste da queste leggi, nonostante attengano a cose tra loro eterogenee – si va da immobili aventi valore artistico, a resti di antiche civiltà, da beni mobili come quadri, statue, a ornamenti, affreschi, a panorami, giardini e ville di non comune bellezza, a documenti di notevole interesse storico a libri – presentano una sostanziale unità di concetti di base, in quanto sarebbe immediatamente riscontrabile «un’identità di regimi giuridici per le cose di appartenenza pubblica da un lato e privata dall’altro... Si fece, quindi, rapidamente strada l’idea che tutte le cose previste dalla normativa tripartita [N.d.R quella relativa appunto alle cose d’arte; alle bellezze naturali e agli archivi che, all’epoca in cui scriveva l’autore citato, era ancora formalmente contenuta in tre testi distinti normativi] costituissero una realtà giuridica omogenea» (Giannini, M.S., I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, 1006).
Con l. 26.4.1964, n. 310 fu istituita una Commissione d’indagine per la tuela e per la valorizzazione delle cose di interesse storico archeologico, artistico e del paesaggio (Commissione Franceschini, la cui relazione finale e le cui dichiarazioni furono pubblicate nella Riv. trim. dir. pubbl., 1966, 19 ss.) che, pur non arrivando a definire un ulteriore sviluppo della normativa, aiutò a comprendere l’intima unitarietà di fondo delle discipline ricordate e dei beni in esse contemplati.
La Commissione elaborò una nozione omnicomprensiva di bene culturale, ancora al tempo non presente nelle fonti normative; oltre a stilare un elenco dei beni culturali tipici (quelli di interesse storico, archeologico, artistico, ambientale e paesistico, archivistico e librario) proponeva un enunciato di carattere generale per il quale è bene culturale «il bene che costituisca testimonianza materiale avente valore di civiltà».
La definizione riprendeva le dizioni circolate sui documenti preparatori dell’Unesco (United Nation Educational, Scientific and Cultural Organization istituita a Londra il 16 novembre 1945). Nell’ambito dell’Organizzazione venne poi adottata a Parigi il 16 novembre del 1972 la Convenzione per la protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale. In questo atto sono state definite le nozioni di patrimonio culturale e naturale mondiale (art. 1 e 2 della Convenzione). Significativamente, si ritengono beni appartenenti al patrimonio culturale mondiale le realizzazioni architettoniche, i lavori di scultura e pittura, le strutture archeologiche, l’insieme di edifici nel contesto panoramico nel quale sono inseriti, quando esprimano valori universali dal punto di vista della storia, dell’arte, dell’estetica, della scienza, dell’etnologia e dell’antropologia; si ritengono appartenere al patrimonio mondiale naturale singolarità naturali consistenti in formazioni biologiche o fisiche, che esprimono valori universali in termini estetici o scientifici, formazioni geologiche e aree che costituiscono habitat di specie floreali o faunistiche minacciate di estizione e che presentino un universale valore scientifico e per la conservazione; siti naturali che esprimano un valore universale dal punto di vista estetico e scientifico. La Convenzione definisce, inoltre, gli obblighi di tutela che sono posti in capo agli Stati (artt. 4, 5, 6 e 7). Attraverso la Convenzione si è inteso indurre gli Stati aderenti a proteggere le peculiari categorie di beni indicate, in quanto le stesse sono da considerare di importanza universale dal punto di vista della storia, dell’arte, della scienza. Sono espressioni della civilità umana e dell’ambiente che ha consentito lo sviluppo della civiltà stessa. Così vi sono manifestazioni delle varie civiltà e dei vari popoli che costituiscono beni di rilievo non solo per le civiltà ed i popoli che le hanno prodotte, che molto spesso non esistono più, ma per tutta l’umanità. E può trattarsi di manufatti dotati di un peculiare valore artistico, ma anche semplicemente di strumenti forgiati dalle varie popolazioni nel corso dei tempi e usati per la vita di tutti i giorni. Analogo ragionamento vale per alcune zone naturalistiche che non possono essere considerate oggetto di esclusiva sovranità della Nazione in cui si trovano, ma costituiscono porzioni del pianeta che reclamano di essere conservate nell’interesse del genere umano, sia per la loro valenza di fattori essenziali all’equilibrio ambientale del pianeta sia, semplicemente, perché esprimono un significato estetico universalmene percepito come positivo. Successivamente, la protezione internazionale è stata estesa non solo alle cose, ma anche alle attività: si pensi ad antiche manifestazioni di devozione popolari come le processioni; ai canti e i poemi tramandati oralmente; (si vedano a tal proposito le due ulteriori convenzioni UNESCO, adottate a Parigi il 17 ottobre 2003 e il 20 ottobre 2005, ratificate con l. 27.9.2007, n. 167 aventi ad oggetto la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e ogni forma di espressione culturale).
Una simile lata accezione della nozione di bene culturale e ambientale, funzionale agli scopi indicati, recepisce le moderne acquisizioni dell’antropologia, secondo le quali la cultura, intesa come elaborazione di conoscenze e realizzazione di opere materiali e immateriali da parte dell’essere umano, in ogni tempo e in ogni luogo, è sempre un prodotto di carattere sociale e che naturalmente tende a progredire grazie all’interazione tra i popoli contemporanei e tra le generazioni che, nel corso degli anni, si tramandano le nozioni, le conoscenze e le sensibilità acquisite e, sulla base di queste, ne elaborano sempre di nuove. Emerge, pertanto, anche un’immanente storicità della nozione: ciò che è bene culturale cambia nelle varie epoche.
Una nozione di bene culturale così ampia, che consente di riferirsi a un insieme vasto sia di beni che di attività, rischia però di essere una locuzione giuridicamente non accettabile, perché non in grado di denotare con sufficiente precisione l’ambito di applicazione della disciplina di tutela.
In ogni caso, la nozione di «bene culturale» è ormai entrata nel linguaggio legislativo fin dal T.U. del 1999 che la circoscrive però alle cose fisiche, senza ulteriormente specificarla; resta, dunque, il probelma di individuarne le condizioni d’uso nel campo giuridico.
Un dato da considerare acquisito è che il richiamo nella normativa al bene culturale, e non più alle cose d’arte o alle bellezze paesaggistiche, comporta un’estensione della tutela, perché non si dovrà tener conto soltanto delle ragioni di carattere estetico – centrali ed esclusive nell’impostazione della legislazione del 1939 – ma anche di valori di carattere antropolgico e storico.
Nel solco di autorevole dottrina, per bene culturale in senso giuridico si deve intendere qualsiasi entità del mondo esterno che sia testimonianza materiale avente valore di civiltà. In essa, dunque, si ricomprendono quelle che, nella legislazione del 1939, erano le cose d’arte e le bellezze naturali: in quest’ultimo, caso il valore di civiltà è insito nella circostanza che i beni naturali da tutelare, pur potendo non essere integralmente un prodotto dell’uomo, costituiscono comunque l’ambiente nel quale la vita umana si è potuta sviluppare e come tali sono intimamente ad essa legati.
Il bene culturale, in senso giuridico, ha sempre a supporto una cosa, ma non si indentifica in essa. La cosa è «supporto insieme di uno o più beni patrimoniali e di un altro bene che è il bene culturale. Come bene patrimoniale, la cosa (il quadro) è oggetto di diritti di proprietà e può esserlo di altri diritti (p. es. usufrutto, pegno); come bene culturale è oggetto di situazioni soggettive attive del potere pubblico» (Giannini, M.S., I beni culturali, cit., 1025). In questa elaborazione il bene culturale è, quindi, sempre immateriale; esso consiste nell’essere testimonianza avente valore di civiltà, che però inerisce a un’entità materiale, ma da essa è giuridicamente distinto.
Il bene culturale è, inoltre, ab origine un bene pubblico in quanto pubblici sono gli interessi che la legge impone di perseguire nella sua disciplina. La pubblicità cui ci si riferisce, però, non attiene all’appartenenza (il bene può essere in proprietà dell’amministrazione o di un privato), ma alla fruizione. Ciò deriva dal fatto che l’amministrazione dei beni culturali è dotata di una serie di competenze e di poteri il cui scopo è la preservazione del bene stesso al fine di renderne possibile la fruizione collettiva. Il bene culturale nasce, pertanto, come bene a fruizione collettiva; anzi come bene oggetto di dirtti collettivi di natura pubblicistica (secondo quanto dimostrato da Cerulli Irelli, V., Beni culturali e diritti collettivi, in Scritti in onore di Massimo Severo Giannini, Milano, 1988, I, 137-176).
I poteri amministrativi a ciò destinati conseguentemente limitano le facoltà di godimento del proprietario della cosa, sia esso un privato o un soggetto pubblico.
La distinzione tra bene culturale immateriale e sostrato fisico, giuridicamente rilevante nei termini detti, non impedisce che la disciplina del bene immateriale condizioni, a volte in modo incisivo, le facoltà e i poteri del proprietario sulla res che ne è il presupposto materiale.
Questa ricostruzione resta valida anche alla luce del Codice, nel quale la nozione di bene culturale continua a radicarsi sempre su una res e l’immaterialità della ricostruzione gianniniana, sopra illustrata, attiene a un bene diverso dalla cosa e ha valenza interpretativa dello statuto giuridico di queste categorie di beni.
Tuttavia, si discute anche sulla praticabilità di una nozione giuridica di beni culturali che siano privi di sostrato materiale nel senso detto. Si tratterebbe cioè di beni culturali immateriali in senso stretto (Cassese, S., I beni culturali da Bottai a Spadolini, in Id., L'Amministrazione dello Stato, Milano, 1976, 177 ss.: «la ricostruzione dei beni culturali è tutta svolta con l'occhio alle cose che siano beni culturali: al fondo della concezione, c'è sempre una ‘cosa’ oggetto di un diritto patrimoniale», e questo preconcetto lascia in ombra quei beni culturali i quali «consistono di elementi materiali o immateriali indifferenti per il diritto interprivato, di diritti di libertà, di mere attività»).
Ad esempio, sulla base delle Convenzioni Unesco ricordate, si sono fatti rientrare nella lista rappresentativa di beni immateriali culturali dell'umanità il canto dei pastori della Barbagia, il teatro delle marionette siciliane Opera dei Pupi e la dieta mediterranea. In merito a questi beni immateriali, in senso stretto, è da sottolineare che le forme di tutela non possono essere, in ogni caso, quelle pensate per i beni culturali che sono compenetrati in una res e che si sostanziano in divieti di alterazione, obblighi di conservazione e manutenzione della cosa (Gualdani, A., I beni culturali immateriali: ancora senza ali?, in Aedon - Rivista di arti e diritto on line, 2014, 1). Si tratterà, semmai, di promuovere attività di ricerca volte alla loro individuazione ed eventualmente alla loro documentazione o, anche, di sostenere finanziariamente la perpetuazione di certe tradizioni (sull’evoluzione del pensiero giuridico in materia di beni culturali si v. Casini, L., I beni culturali da Spadolini agli anni Duemila, in AA.VV., Le amministrazioni pubbliche tra conservazione e riforme. Omaggio degli allievi a Sabino Cassese, Milano, 2008, 423-447).
L’art. 7 bis del Codice conferma che le espressioni di identità culturale collettiva contemplate dalle Convenzioni UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali, adottate a Parigi, rispettivamente, il 3 novembre 2003 ed il 20 ottobre 2005, sono assoggettabili alle disposizioni del medesimo codice «qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l'applicabilità dell'articolo 10». Anche le Regioni possono dare riconoscimento a beni culturali immateriali, senza che ciò però possa comportare l’estensione dell’ambito di applicabilità delle tutele stabilite dal Codice (in questo senso si v. C. cost., 28.3.2003, n. 94).
Sono stati ascritti al novero dei beni culturali immateriali anche il valore positivo di cui può beneficiare lo sponsor (art. 120 del Codice) di iniziative pubbliche o private nel campo della tutela e della valorizzazione del patrimonio culturale; e, infine, si è fatto riferimento anche all’eventualità di sfruttamento commerciale dell’immagine dei beni culturali materiali. Da taluni si è proposta l’istituzione di una riserva di riproduzione dell’immagine in capo al proprietario del bene culturale riprodotto allo scopo di destinare i proventi dello sfruttamento commerciale concesso a terzi alla conservazione e alla valorizzazione del bene stesso (così Morbidelli, G., Il valore immateriale dei beni culturali, in I beni immateriali tra regole privatistiche e pubblicistiche - Atti Convegno Assisi (25-27 ottobre 2012), in Aedon - Rivista di arti e diritto on line, 2014, n. 1).
L’espressione «bene culturale» trova oggi esplicite definizioni normative (artt. 10 e 11 del Codice), assieme alla nozione di «patrimonio culturale» che è costituito dai «beni culturali» e dai «beni paesaggistici» (art. 2 e 134 del Codice). Queste definizioni hanno la funzione di delimitare l’ambito di applicazione oggettivo della peculiare disciplina amministrativa dei beni in questione dettata dal Codice e il riparto delle relative competenze tra Stato, Regioni e tra i vari uffici competenti. La tecnica definitoria utilizzata è composita: si usano sia clausole generali, sia elenchi che, pertanto, non hanno mai valenza tassativa (artt.10 e 11 del Codice). Sono, infatti, considerati beni culturali «le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà.3. Sono beni paesaggistici gli immobili e le aree indicati all’articolo 134, costituenti espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio, e gli altri beni individuati dalla legge o in base alla legge.4. I beni del patrimonio culturale di appartenenza pubblica sono destinati alla fruizione della collettività, compatibilmente con le esigenze di uso istituzionale e sempre che non vi ostino ragioni di tutela» (art. 2 del Codice). Taluno ha criticato questa tecnica normativa, in quanto sarebbe foriera di incertezze (Ainis, M., Beni culturali, in Treccani XXI Secolo, 2009, www.treccani.it).
L’art. 10 individua i beni culturali, distinguendo tra quelli di appartenenza pubblica e quelli di appartenenza privata, sia quanto a criterio generale, sia quanto a disciplina. I beni di appartenenza pubblica rientrano nella categoria sol che presentino un interesse – anche non rilevante – artistico, storico, archeologico o etnoantropologico e sono soggetti alla peculiare disciplina fintantoché non siano specificamente sottoposti al procedimento di verifica (art. 12 del Codice) che, in caso abbia esito negativo, determina la non applicabilità della disciplina stessa e, qualora abbia interessato beni demaniali, può comportare la sdemanializzazione degli stessi, salvo che non vi ostino altre ragioni di pubblico interesse. I beni di proprietà privata rientrano nell’ambito di applicazione della disciplina del codice quando interviene l’apposita dichiarazione (art. 13 del Codice) che avrà constatato l’interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico, che dovrà essere particolarmente importante.
L’atto con cui l’amministrazione verifica o dichiara l’esistenza dell’interesse culturale in relazione a un determinato bene costituisce un giudizio volto a riscontrare nel concreto quei caratteri previsti in via generale e astratta dalla legge e la cui sussistenza determina l’ingresso della cosa ab origine nella categoria dei beni culturali. Pur trattandosi di un giudizio tecnico, poichè però esso applica discipline connotate da un elevato grado di opinabilità, la giurisprudenza ha limitato il proprio sindacato all’accertamento della scorrettezza tecnica, che deve essere provata dall’interessato, il quale ha l’onere di dimostrare la violazione del c.d. principio di ragionevolezza tecnica (Cons. St., sez. VI, 21.10.2013, n. 5084, in Foro amm. – Cons. St., 2013, 2851).
L’accertamento che il bene rientra nell’ambito di applicazione del Codice ha anche una valenza costitutiva, perché determina l’applicabilità di un regime amministrativo che incide in modo rilevante sui poteri di disposizione e di godimento del proprietario del bene (pubblico o privato), e che è volto a garantirne la tutela (intesa come conservazione e, in caso di beni mobili, tendenziale permanenza nei luoghi d’origine) e la valorizzazione (intesa come migliore gestione ai fini della più ampia fruizione pubblica).
La Corte costituzionale ha escluso che le dette limitazioni alle facoltà di disposizione e di godimento del proprietario privato abbiano un contenuto ablatorio e che, perciò, esigano indennizzo, ai sensi dell’art. 42 della Costituzione (C. cost. 29.5.1968, n. 56, con riferimento alle bellezze paesaggistiche, 4.7.1974, n. 202 e 20.12.1976, n. 245 sulle cose di interesse artistico e storico; si v. anche Cass. civ., sez. I, 20.11.2012, n. 20383; sul punto si v. Marini, F.S., Lo statuto costituzionale dei beni culturali, Milano, 2002).
Il regime di tutela, che spetta al Ministero per i beni e le attività culturali applicare, si realizza attraverso l’esercizio di una serie di poteri amministrativi strumentali a garantire la conservazione fisica del bene. La disciplina si basa sul principio che «i beni culturali non possono essere distrutti, danneggiati o adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione» (art. 20 del Codice), mentre ogni altro intervento sulla cosa è soggetto ad autorizzazione. A tale scopo sono disciplinate misure cautelari e di prevenzione; misure volte a imporre il restauro; la custodia coattiva; prescrizioni indirette su altri beni allo scopo di tutelare la statica, l’accessibilità e la luce dei beni culturali immobili. É prevista un’apposita autorizzazione anche per l’allestimento di mostre che abbiano ad oggetto beni sia pubblici che privati.
È poi disciplinata la circolazione dei beni mobili all’interno e all’esterno dello Stato; ogni atto che comporta il trasferimento del bene deve essere comunicato al Ministero, che può esercitare il diritto di prelazione; è vietata la fuoriuscita definitiva (art. 65 del Codice) di determinati beni dal territorio dello Stato, mentre per gli altri deve, comunque, essere autorizzata; è disciplinato l’acquisto coattivo del bene presentato per l’esportazione.
I beni culturali di proprietà dello Stato, delle Regioni, delle Province e dei Comuni appartengono al demanio ai sensi dell’art. 822 c.c. o al patrimonio indisponibile ai sensi dell’art. 826, co. 2, c.c. Alcuni di questi beni sono assolutamente inalienabili (si v. l’art. 54 del Codice ove, fra l’altro, gli immobili e le aree d’interesse archeologico; i monumenti nazionali, le raccolte di musei, le pinacoteche, le gallerie, le biblioteche e gli archivi; gli immobili dichiarati di interesse particolarmente importante per la storia militare e politica del Paese), gli altri, ancorché appartenenti al demanio culturale, possono essere alienati a privati, previa autorizzazione (e sdemanializzazione) che stabilisce anche le cautele (prescrizioni e condizioni dell’autorizzazione) da osservare per la conservazione: se l’avente causa si rivela inadempiente, l’acquisto può essere risolto di diritto e la proprietà torma in capo al soggetto pubblico, salve ulteriori sanzioni.
Nell’ambito della disciplina generale del cd. federalismo demaniale (d.lgs. 28.5.2010, n. 85), tendente a devolvere parte dei beni dello Stato alle Regioni e alle autonomie locali, è riservato un trattamento normativo differenziato ai beni culturali (art. 5, d.lgs. n. 85/2010) che possono essere trasferiti dallo Stato agli enti locali solo a seguito di specifici accordi di valorizzazione.
È disciplinata l’espropriazione per causa di pubblica utilità, quando risponda a un importante interesse a migliorare le condizioni di tutela ai fini della fruizione pubblica dei beni medesimi (art. 95 del Codice); possono, inoltre, essere espropriati edifici e aree, quando ciò sia necessario per isolare o restaurare monumenti, assicurarne la luce o la prospettiva, garantirne o accrescerne il decoro o il godimento da parte del pubblico, facilitarne l’accesso (art. 96 del Codice); il Ministero può procedere, inoltre, all’espropriazione di immobili al fine di eseguire interventi di interesse archeologico o ricerche per il ritrovamento delle cose indicate nell’articolo 10 (art. 97 del Codice).
È disciplinata, infine, in attuazione delle convenzioni internazionali e delle regole europee, la procedura di restituzione dei beni illecitamente usciti dal territorio dello Stato.
Quanto all’attività di valorizzazione essa è stata giuridicamente e artificiosamente scissa dalla tutela e la relativa disciplina è stata affidata alla competenza legislativa concorrente delle Regioni (art. 117, co. 3, Cost.), determinandosi non poche occasioni di conflitto, con conseguente confusione dell’assetto normativo e quindi ostacolo alle azioni di promozione.
In base all’art. 6 del Codice, la valorizzazione consiste nella promozione della conoscenza del patrimonio culturale e nella realizzazione delle migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso, al fine di promuovere lo sviluppo della cultura. Essa comprende anche la promozione e il sostegno degli interventi di conservazione del patrimonio culturale. In riferimento ai beni paesaggistici, la valorizzazione comprende altresì la riqualificazione degli immobili e delle aree sottoposti a tutela compromessi o degradati, ovvero la realizzazione di nuovi valori paesaggistici coerenti ed integrati.
Si tratti di attività che non può che essere realizzata a condizione di rispettare le regole dettate per la tutela. Il principio è affermato dalla Corte costituzionale che ha fissato una gerarchia di valori secondo cui la tutela prevale e condiziona ogni forma di governo del territorio (sent. 7.11.2007, n. 367).
L’attività di valorizzazione dei beni di appartenenza pubblica, che sono la maggior parte, può essere realizzata direttamente dai vari soggetti pubblici per mezzo di strutture organizzative interne alle amministrazioni, dotate di adeguata autonomia scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile, e provviste di idoneo personale tecnico. Le amministrazioni medesime possono attuare la gestione diretta anche in forma consortile pubblica. La gestione indiretta è attuata tramite concessione a terzi delle attività di valorizzazione, anche in forma congiunta e integrata, da parte delle amministrazioni cui i beni appartengono o dei consorzi di amministrazioni pubbliche, qualora siano conferitarie dei beni, mediante procedure di evidenza pubblica, sulla base della valutazione comparativa di specifici progetti (art. 115 del Codice).
Il Codice circonda di molte cautele la gestione indiretta che può essere decisa dalle amministrazioni competenti solo al fine di assicurare un miglior livello di valorizzazione dei beni culturali. La scelta tra le due forme di gestione è attuata a seguito di una valutazione comparativa in termini di sostenibilità economico-finanziaria e di efficacia, sulla base di obiettivi previamente definiti.
L’attività dei privati in questo settore è ammessa, ma è sempre sottoposta a intenso controllo pubblicistico. L’insieme della normativa, pur aprendosi all’apporto dei privati – si pensi alla già citata disciplina della sponsorizzazione (art. 120 del Codice) e alla disciplina della finanza di progetto resa applicabile alla materia di beni culturali dall’art. 197, co. 3, d.lgs. 12.4.2006, n. 163 Codice degli appalti – appare però tutt’ora intricata e caratterizzata da approcci contraddittori che generano un elevato contezioso.
Vi è una radicale incertezza di fondo del quadro regolatorio che non chiarisce i limiti entro cui la sinergia pubblico-privato può realizzarsi e ciò determina un forte disincentivo nelle stesse imprese private a investire nel settore: attività che, invece, sarebbe oltremodo opportuna, attesa la strutturale crisi della finanza pubblica che impedisce ai soggetti pubblici, che pure la legge inidvidua ancora come i protagonisti del settore, di adempiere ai propri compiti.
Va sottolineato che in gioco non è soltanto la valorizzazione del bene culturale, ma la sua stessa conservazione, come testimoniano i recenti crolli nell’area archeologica di Pompei.
In sintesi, la disciplina del Codice si inserisce nel solco della tradizione legislativa risalente che tende ad attribuire al settore pubblico un ruolo preponderante sia per quanto concerne le funzioni di tutela, sia per quanto concerne le funzioni di valorizzazione. Emerge dagli istituti della prelazione artistica, dell’acquisto coattivo e dell’esproriazione una ratio di fondo che privilegia la proprità pubblica come lo strumento principale di tutela dei beni in questione. Così anche in sostanza per quanto concerne la disciplina della valorizzazione.
Questa normativa appare però non adeguata a raccogliere le sfide che la realtà degli ultimi decenni sta ponendo alle stesse esigenze di tutela e di fruizione pubblica dei beni culturali.
Inoltre, la tutela è essenzialmente centrata su funzioni amministartive di controllo, divieto, autorizzazione, più che su attività volte a favorire restauri tecnicamente adeguati.
Si pone la questione di un ripensamento e di una razionalizzazione sia dei regimi normativi che riguardano le possibili, e si direbbe, inevitabili sinergie pubblico-privato ai fini della stessa conservazione dei beni, prima ancora che della loro valorizzazione; sia della struttura ministeriale stessa.
A tale proposito si può ricordare che fin dalla sua istituzione, autorevoli voci si sono sollevate per manifestare forti perplessità sulla scelta di una struttura ministeriale ad hoc. Attese, infatti, le funzioni peculiari che avrebbe dovuto svolgere, attinenti appunto non solo all’adozione di atti e provvedimenti amministrativi, ma anche e soprattutto allo svolgimento di attività di studio, di catalogazione, di intervento conservativo e di gestione dei beni al fine di garantirne la pubblica fruizione, si sarebbe dovuto prevedere una struttura più agile come per esempio un’agenzia (così Giannini, M.S., Ristrutturiamo il Ministero dei beni culturali, Relazione al convegno su La tutela attiva dei Beni Culturali tra intervento pubblico e iniziativa privata, Roma, 10 maggio 1986, in Il sole 24 Ore - Domenica, ora in Id., Scritti, VIII, Milano, 2006, 539-544, il quale riteneva che l’agenzia, potendo avvalersi del diritto privato, avrebbe avuto quella necessaria duttilità che la struttura ministeriale non aveva).
I tentativi di riforma del dicatero non sono mancati: anzi, si sono registrati interventi nel 1998 e nel 2004, quando si è passati dalla struttura articolata su direzioni generali a quella basata su dipartimenti, nel 2007, quando si è realizzata l’operazione inversa, nel 2009 e, infine, nel 2014, sotto la spinta delle discipline di "spending review" (d.l. 6 luglio 2012 n. 95, conv. in l. 7.8.2012, n. 135 e del d.l. 24.4.2014, n. 66, conv. in l. 23.6.2014, n. 89). Ciò conferma la problematicità della scelta originaria che si è tradotta un novero cospicuo di problemi organizzativi, rimasti irrisolti da molto tempo. A titolo di esempio, si possono citare: le numerose sovrapposizioni di competenze (tra direzioni centrali e direzioni regionali e tra queste ultime e gli uffici tecnici periferici (Soprintendenze, Archivi, Biblioteche); le molte e non coordinate linee di comando; la scarsa valorizzazione dell’autonomia tecnico scientifica delle Soprintendenze; la scarsa attrezzatura tecnico-informatica; l’inadeguata preparazione e il mancato aggiornamento del personale sui profili gestionali e amministrativi; la non razionale ripartizione delle risorse con il sacrificio di alcuni beni come gli archivi e le biblioteche; la non razionale ripartizione del personale e delle risorse strumentali tra i vari Istituti; l’inadeguata distribuzione del personale nelle diverse realtà locali; la distinzione problematica tra attività di tutela e attività di valorizzazione che ostacola l’esercizio delle competenze; la cronica insufficienza di risorse finanziare e umane (su tali aspetti si v. la Relazione finale adottata dalla Commissione per il rilancio dei beni culturali e del turismo e per la riforma del Ministero in base alla disciplina sulla revisione della spesa, adottata il 31 ottobre 2013, reperibile sul sito www.beniculturali.it).
Attualmente il Ministero, che nel 2013 ha acquisito anche le competenze in materia di turismo, si articola a livello centrale in un Segretariato generale e in 12 direzioni generali; al livello periferico in Segretariati regionali, con competenze di coordinamento amministrativo delle articolazioni locali del ministero stesso; in Soprintendenze archeologiche, delle belle arti e del paesaggio, di cui è stata valorizzata l’autonomia scientifica; in 17 Poli museali regionali, Musei, Archivi di Stato, Biblioteche, di cui si è da ultimo iniziato a valorizzare l’autonomia gestionale e organizzativa.
Se con l’ultima riorganizzazione si sono avviate a soluzione alcune delle criticità indicate, restano irrisolti a tutt’oggi i nodi organizzativi di fondo, pur autorevolemente segnalati. In particolare, non si è riusciti a realizzare la tutela del bene culturale secondo una logica di intervento programmato e attenta non solo ai singoli beni in quanto tali, ma al contesto ambientale nel quale sono inseriti, contesto che spesso richiede interventi di protezione e di consolidamento, che però risultano di competenza di altri plessi di amministrazione, senza che siano state ancora attuate modalità di raccordo efficienti tra i diversi – e forse spesso troppi – soggetti pubblici competenti sia a livello statale sia a livello locale. L’idea di «Conservazione programmata» che sul finire degli anni Ottanta del secolo scorso Giovanni Urbani proneva (si v. Urbani, G., Proposte per la riforma della legge e degli organi di tutela, in Urbani, G., Intorno al restauro, a cura di B. Zanardi, Milano, 2000, 145-151) non si è riuscita ad affermare. É ancora poco sviluppata una regia degli interventi sul territorio che sia attenta non solo ai valori culturali, ma anche ambientali e di consolidamento geologico, nonostante i miglioramenti che si sono avuti con l’istituzione della valutazione di impatto ambientale e la valutazione di impatto strategica (sul punto si v. Cavalieri, E., La tutela dei beni culturali. Una proposta di Giovanni Urbani, in Riv. trim. dir. pubbl., 2011, 2, 475 ss.); fatica ancora ad affermarsi un’idea di protezione dei beni culturali basata su un approccio attivo e tecnico-scientifico adeguato alle diverse categorie di beni oggetto di protezione (si v. Zanardi, B., La crisi del patrimonio artistico in Italia, in Covatta, L., a cura di, I beni culturali, tra tutela, mercato e territorio, Firenze, 2012, 81 ss).
Art. 9 Cost.; d.lgs. 22.1.2004, n. 42, Codice dei beni culturali e dell’ambiente.
Oltre i testi citati si v.: Ainis, M.-Fiorillo, M., I beni culturali, in Tratt. Cassese, II. ed., Milano, Giuffrè, 2003, pt. spec., II, 1449 ss.; Alibrandi, T.-Ferri, P., I beni culturali ed ambientali, Milano, 1985; Assini, N.-Cordini, G., I beni culturali e paesaggistici, Padova, 2006; Barbati, C.-Cammelli, M.-Sciullo, G., Diritto e gestione dei beni culturali, Bologna, 2011; Cammelli, M., a cura di, Il codice dei beni culturali e del paesaggio: commento al d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, Bologna, 2007; Caputi Jambrenghi, V.-Angiuli, A., a cura di, Commentario al codice dei beni culturali e del paesaggio, Torino, 2005; Casini, L., Beni culturali, in Diz. Dir. pubbl. Cassese, Milano, 2006, 679 ss.; Catalani, A.-Cattaneo, S., I beni e le attività culturali, in Tratt. Santaniello, XXXIV, Padova, 2002; Chiti, M.P., a cura di, Beni culturali e Comunità Europea, Milano, 1994.