Nascite, controllo delle
Nelle tendenze della fecondità europea a partire dalla seconda metà dell'Ottocento si possono individuare due scenari cronologicamente distinguibili. Il primo si inserisce nella trasformazione demografica delle società europee, la transizione demografica, è di lunga durata e inquadrabile in una profonda modificazione economica e culturale che ha termine con la metà degli anni sessanta del nostro secolo, quando inizia a delinearsi un secondo scenario, caratterizzato da mutamenti dei comportamenti familiari e riproduttivi così profondi e repentini da meritarsi l'appellativo di seconda transizione demografica. La transizione demografica corrisponde al passaggio da regimi caratterizzati da alta natalità e alta mortalità a regimi con bassa natalità e bassa mortalità, attraverso una fase intermedia nella quale a una mortalità già decrescente si affianca una natalità ancora elevata, che via via diminuisce con la diffusione del controllo delle nascite. In effetti, fin oltre la metà del XIX secolo la fecondità appare pressoché stazionaria su livelli che possiamo definire naturali, anche se non sono rare le eccezioni, sia in termini di realtà territoriali (la Francia rappresenta il caso più rilevante), che di particolari gruppi sociali o etnici (le aristocrazie, alcune minoranze religiose). Nel corso della transizione demografica la fecondità passa da 4-5 a circa 2 figli per donna, con un decremento realizzato per la maggior parte prima della diffusione delle moderne tecniche contraccettive, attraverso l'utilizzo di metodi tradizionali.
Le componenti del processo che ha determinato il declino della fecondità e la diffusione della contraccezione sono rappresentate dalla cadenza (il tempo) con cui si è manifestato il primo e decisivo segno di una vera e propria regolazione volontaria delle nascite, dal modo (velocità, pause, ritmi) in cui le nuove abitudini procreative sono entrate a far parte del sistema culturale e normativo (per esempio attraverso la diffusione da una classe sociale all'altra) e dai metodi, costituiti dagli strumenti utilizzati. L'interpretazione delle conseguenti differenze fra paesi e gruppi sociali rappresenta il nucleo delle teorie della transizione demografica. Coale (v., 1973) individua tre requisiti necessari al declino della fecondità: 1) il comportamento riproduttivo deve derivare da un processo di scelta cosciente; 2) devono essere percepiti i vantaggi della riduzione della fecondità; 3) devono essere note e disponibili tecniche efficaci di riduzione della fecondità. La maggiore o minore presenza di una di queste tre condizioni può rendere conto delle diverse caratteristiche con cui si è sviluppato il processo del passaggio dalla fecondità naturale alla fecondità controllata nelle società storiche e le linee di tendenza seguite attualmente dai paesi in via di sviluppo. Secondo la definizione di Henry (v., 1961) il controllo volontario della natalità è "caratterizzato dal fatto che il comportamento della coppia varia a seconda del numero di figli già avuti, sotto l'influenza di una serie di variabili demografiche, sociali ed economico-culturali". Non bisogna con questo pensare che esista un unico livello di fecondità naturale né, ovviamente, un unico livello di fecondità controllata, perché in realtà esistono tanti livelli diversificati, dipendenti dalla forza con cui interagiscono i particolari fattori socioeconomici e culturali. Sono le relazioni fra questi fattori e le variabili demografiche intermedie - quali la nuzialità, l'infecondità post partum (in gran parte determinata dall'allattamento), l'abortività e la contraccezione - a condurre a modelli e intensità diversificati di fecondità (v. Davis e Blake, 1956; v. Bongaarts e Potter, 1983; v. Easterlin e Crimmins, 1985). Soltanto le due ultime variabili rientrano nel controllo volontario delle nascite. La nuzialità e l'infecondità post partum possono anche essere molto influenti, ma agiscono indipendentemente dalla parità raggiunta. I fattori legati al contesto economico (l'industrializzazione), sociale (l'urbanizzazione, la diffusione dell'istruzione, l'emancipazione femminile), sanitario (la diminuzione della mortalità, infantile e adulta) e culturale (il processo di secolarizzazione), indissolubilmente legati gli uni agli altri, hanno dominato la trasformazione demografica delle società europee degli ultimi due secoli.Il ricorso alle pratiche contraccettive, che nell'antichità costituiva un comportamento eccezionale e limitato a particolari gruppi di popolazione, è diventato nei paesi industrializzati un comportamento normale in tutte le classi sociali. Dopo la diffusione massiccia delle tecniche tradizionali che ha caratterizzato la transizione demografica, si è verificata la seconda rivoluzione contraccettiva, agevolata soprattutto dalla scoperta e dalla veloce diffusione dei metodi ormonali, con l'approvazione della classe medica e una legislazione che, a partire dagli anni sessanta, ha rimosso qualsiasi ostacolo alla loro propaganda e vendita. Grazie alla pillola e alla spirale, la donna è oggi normalmente non fertile, e per avere un figlio deve decidere di ripristinare la condizione di fertilità. Nella fase precedente accadeva l'opposto: la donna era normalmente fertile e per non avere figli doveva adottare una strategia antifecondativa o ricorrere all'aborto (v. Westoff e Ryder, 1977; v. Leridon, 1987; v. Dalla Zuanna, 1996).
Nelle società di antica transizione demografica si è quindi assistito a una trasformazione in due fasi che ha caratterizzato il passaggio dalla fecondità naturale a quella controllata. La prima si è realizzata essenzialmente con metodi tradizionali e non completamente efficienti, soprattutto attraverso il coito interrotto e l'astinenza (v. Himes, 1936; Santow, 1995). Accanto alle motivazioni strettamente legate al costo e al valore dei figli, la spinta all'individualismo, l'importanza di un nuovo rapporto di coppia paritario, l'affermazione di valori legati al processo di affrancamento dai rigidi precetti religiosi, in particolare nelle regioni cattoliche, hanno permesso la trasformazione del comportamento sessuale e riproduttivo. Nella seconda fase della trasformazione, molte nazioni europee si trovano a vivere tutta una serie di modificazioni della struttura e delle scelte familiari e coniugali che, accompagnate da un sempre più efficiente sistema di regolazione delle nascite, suscitano i timori, forse mai sopiti, del declino demografico e del progressivo invecchiamento della popolazione (v. Teitelbaum e Winter, 1987; v. Golini, Le tendenze..., 1994). Si è parlato a questo proposito di una seconda transizione demografica, in cui l'individualismo e il cambiamento del ruolo della donna, sempre più liberata dalla maternità involontaria, si sono avvantaggiati della seconda rivoluzione contraccettiva. Il risultato è evidente quando si pensa che molte nazioni europee presentano oggi tassi di fecondità totale ben al di sotto del livello minimo di sostituzione generazionale, cioè due figli per donna. Questa graduatoria è guidata dall'Italia, che presenta un tasso di fecondità totale pari a 1,3, con le regioni meridionali che presentano valori più elevati e vicini al livello di rimpiazzo (1,9 nel 1989) e quelle centrosettentrionali con valori molto più bassi (1,1) (v. Santini, 1995).
Il passaggio alla fecondità controllata è ancora in atto presso la maggior parte delle popolazioni del Terzo Mondo, dove appare anche più evidente la distinzione dei tre requisiti necessari alla transizione: l'utilizzo di metodi efficaci di contraccezione viene agevolato dall'esistenza di programmi di pianificazione familiare, tendenti ad abbassare i costi economici e psicologici della regolazione delle nascite attraverso la diffusione dell'informazione e dei servizi sul territorio. La crescente istruzione femminile e la modernizzazione economica portano alla diminuzione del numero desiderato di figli, facendo percepire i vantaggi di una dimensione familiare minore e spingendo all'utilizzo della contraccezione. Il mutamento del ruolo della donna nella famiglia e nella società costituisce un elemento fondamentale di questo processo, che trova tuttavia grossi ostacoli nelle disuguaglianze socioeconomiche e nelle differenze culturali, religiose ed etnico-politiche.
Abbiamo appena ricordato che la transizione della fecondità in Occidente si è realizzata sostanzialmente a partire dalla seconda metà dell'Ottocento (v. Knodel e Van de Walle, 1986) attraverso l'utilizzo di metodi scarsamente efficienti, ma con ritmi di diffusione che seguivano le modificazioni della mentalità e delle norme dominanti. I metodi utilizzati consistevano essenzialmente nel coito interrotto e nell'astinenza, mentre i profilattici, che solo verso la metà dell'Ottocento iniziarono a essere in lattice di gomma, ancora nei primi decenni del nostro secolo risentivano dei pregiudizi che li associavano alla prevenzione delle malattie veneree in contesti di rapporti a rischio, al di fuori quindi dall'ambito coniugale. Anche il diaframma ebbe scarsa diffusione perché esigeva l'intervento del medico e solo le donne delle classi sociali medio-alte, indipendenti economicamente e culturalmente, non esitavano a ricorrervi, quasi a sottolineare, con un comportamento di militanza femminista, un approccio ideologico alle scelte contraccettive (v. Mc Laren, 1990).
Negli anni tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento si modifica quindi in maniera sostanziale il comportamento riproduttivo delle coppie e si diffonde la pratica contraccettiva che era sempre stata presente, ma fino allora aveva caratterizzato solo piccoli e selezionati gruppi di popolazione. Come sostiene Himes (v., 1936) nella sua opera pionieristica, "il desiderio di controllo [delle nascite] non ha confini, né di tempo né di spazio": fonti mediche e letterarie attestano l'esistenza di pratiche abortive e antifecondative già nel mondo antico, come risulta dagli scritti di Sorano di Efeso - medico greco della prima metà del II secolo d.C., che secondo Himes fa la più brillante e originale descrizione delle tecniche contraccettive scritta prima del XIX secolo - e di Ezio di Amida, scrittore greco di medicina, vissuto nella prima metà del VI secolo.
Dai trattati medici antichi, e in pratica fino a tutto il XVIII secolo, non paiono emergere accenni alle motivazioni della contraccezione collegate ad aspirazioni di benessere economico e sociale e, soprattutto, nessun tentativo di pubblicizzazione (ibid.). Il movimento del controllo delle nascite è perciò fatto risalire alla Francia della fine del XVIII secolo, quando le pratiche per la limitazione della fecondità furono per la prima volta pubblicizzate e difese. L'Essay on population di Malthus, del 1798, ebbe grande influenza nell'attrarre l'attenzione sull'impatto sociale della fecondità e della sua diminuzione. La dottrina politica occidentale era stata fino allora favorevole all'incremento demografico, nella convinzione che una popolazione più numerosa conducesse a una maggiore prosperità. Malthus avanzò la tesi radicalmente nuova che ciò non fosse vero. Egli, come è noto, non accettava i mezzi di limitazione delle nascite, ma auspicava solo la continenza, e tuttavia fu proprio il suo lavoro che puntualizzò la necessità di considerare il 'problema demografico': in seguito le sue teorie (e tutte quelle che ebbero origine dal suo pensiero, raggruppate sotto la comune e semplificatrice etichetta di neomalthusianesimo) dalla Gran Bretagna si diffusero, con ampiezza e ritmi diversi, nell'intera Europa. Il risultato era già appariscente negli ultimi decenni del secolo, quando i contraccettivi venivano pubblicizzati nei giornali e nelle riviste, venduti dai barbieri, nelle farmacie e in altri negozi, e portati ai villaggi dai venditori ambulanti e ai quartieri operai dai venditori porta a porta. Malgrado tutti questi segnali, la diffusione era ancora limitata - si calcola che solo il 16% delle coppie inglesi sposate prima del 1910 usasse contraccettivi meccanici (v. Mc Laren, 1990). L'improvviso declino della fecondità fu senza alcun dubbio aiutato dalla rivoluzione tecnologica contraccettiva, ma chiaramente non ne dipese. I costi finanziari e psicologici dei metodi strumentali (profilattici, diaframma) erano alti, la loro scorta limitata e l'ostilità verso il loro uso diffusa. I principali mezzi di controllo delle nascite degli europei del XIX secolo rimasero la continenza coniugale (raccomandata dalle autorità religiose e, sul finire del secolo, dalle femministe) e il coito interrotto. Il fallimento contraccettivo poteva determinare il ricorso all'aborto, e infatti le due strategie erano tradizionalmente confuse, sebbene già nel XIX secolo i medici e i neomalthusiani cercassero di chiarirne le differenze alla pubblica opinione. Ciononostante l'aborto rimase per molte donne un metodo di controllo della fecondità, necessario quando tutti i metodi di contraccezione erano falliti. Era chiaramente una forma femminile di controllo e offriva la prova di quanto fossero determinate le donne nel controllare la fecondità, anche senza l'appoggio del partner. L'aumento di aborti del mondo occidentale, a partire dalla metà del XIX secolo, fu considerato proprio un segno di questa determinazione: una stima effettuata per la Francia, alla fine del secolo, riporta dai 100 ai 500.000 aborti l'anno. La maggior parte dei paesi occidentali approvò nuove leggi contro l'interruzione di gravidanza e la Chiesa cattolica appoggiò i medici che assumevano una posizione dura contro l'aborto. Ci fosse o meno il movimento del feto, l'aborto era, dichiarò papa Pio IX nel 1869, oggetto di scomunica. L'aumento degli aborti era prevedibile in quei paesi che stavano attraversando la fase di transizione della fecondità, nei quali cioè il desiderio di limitare le nascite non poteva essere del tutto soddisfatto con la contraccezione. Se poi tutti i metodi fallivano, c'era ancora la possibilità di ricorrere all'abbandono e all'infanticidio (v. Corsini, 1994).
Furono anni di profondi mutamenti culturali e anche le posizioni dei diversi gruppi sociali cambiarono, presentando numerose contraddizioni. Le autorità religiose si arroccarono in genere sull'intransigenza, mentre il femminismo della prima ora venne a patti con se stesso. Pur sostenendo la maternità volontaria, infatti, le femministe inizialmente non accettavano l'idea della contraccezione, e solo in un secondo momento i dibattiti sulla difesa della propria persona posero le basi per la finale approvazione del controllo delle nascite. C'era consenso sui fini; venivano via via decisi i mezzi per raggiungerli.L'alta borghesia portava un rispetto formale agli insegnamenti ufficiali pro-natalisti della Chiesa e della medicina, ma nella pratica aveva accettato, nella seconda metà del secolo, la tesi dei sostenitori del birth control secondo cui solo la limitazione delle nascite avrebbe assicurato la sicurezza economica e una vita familiare ideale. Le nuove classi impiegatizie in rapida espansione negli ultimi decenni del secolo, che avevano le pretese delle classi borghesi senza averne la prosperità, trovarono ancora più ragioni per diminuire la propria fecondità al fine di ottenere un'approssimazione di quel benessere economico e di quel ruolo nella società che contraddistinguevano l'alta borghesia e cui esse ambivano.
L'accettazione e la diffusione del controllo delle nascite fra gli operai furono successive a quelle delle classi sociali più agiate: i lavoratori iniziarono a limitare la fecondità non tanto allo scopo di imitare il comportamento delle classi elevate, quanto per motivi di opportunità economica. I salari dei bambini, che nella nascente società industriale spesso costituivano oltre la metà del reddito familiare, diminuirono sempre più in seguito alle modifiche strutturali della società. In questo processo le famiglie numerose persero la loro ragione economica di essere: i bambini, invece di portare redditi nella famiglia, divennero consumatori di risorse. L'educazione obbligatoria accentuò le differenze fra le generazioni e infantilizzò i bambini, rendendoli meno autonomi, mentre i lavoratori a poco a poco accettarono l'idea che i genitori dovevano lavorare per i propri figli, e non il contrario. La diffusione dell'istruzione, in particolare di quella femminile, determinò la grande svolta perché fornì alle donne un importante strumento di dialogo, e il controllo delle nascite aveva presumibilmente maggiore successo in quelle famiglie dove il rapporto fra coniugi era più paritario. Nacque inoltre la solidarietà femminile, per cui l'informazione contraccettiva si diffuse anche attraverso tutta una serie di reti femminili. Le nuove norme culturali associate alla famiglia di piccole dimensioni vennero rapidamente interiorizzate, e il fatto che il declino della fecondità sia stato in effetti notevole e sia avvenuto in assenza di miglioramenti sostanziali delle tecniche contraccettive e nonostante l'ostilità pubblica della professione medica, delle Chiese e dello Stato testimonia la grande motivazione delle masse, pur a fronte dell'inadeguatezza dei mezzi.
Quanto ai fattori di fondo che hanno condizionato la diffusione della contraccezione e la transizione della fecondità nelle società europee, si è spesso dibattuto sulla relativa importanza dei fattori culturali e dei fattori economici (v. Salvini, 1995). La relazione tra modelli economici e riproduttivi è un soggetto vasto e complesso e un'analisi soddisfacente richiederebbe considerazioni sull'intero regime demografico (v. Livi Bacci, 1995). I diversi studi hanno in sintesi dimostrato che la fecondità mostra una relazione talvolta scarsa e sempre sfumata con le caratteristiche socioeconomiche. Ad esempio, dallo studio condotto nel quadro dell'European fertility project (v. Coale e Cotts Watkins, 1986) emerge la presenza, alla fine del secolo scorso, di aree a fecondità elevata (parti della Baviera, le Fiandre, la parte meridionale dei Paesi Bassi e le vicine regioni tedesche) economicamente molto simili alle aree confinanti, caratterizzate invece da una fecondità molto più contenuta e presumibilmente legata a una maggiore diffusione del controllo. Nel contempo si osservano regioni con livelli di fecondità omogenei, come l'Inghilterra pretransizionale, al loro interno economicamente diversificate (v. Knodel e Van de Walle, 1986). Gran parte delle province europee vide diminuire in maniera sostanziale e irreversibile il livello di fecondità quasi contemporaneamente: il 59% delle province tra il 1890 e il 1920 e il 71% tra il 1880 e il 1930, segno della diffusione rapida della contraccezione in un contesto di profonde diversità economiche - sia per i livelli che per le tendenze - che andava dalle società rurali dominate dall'agricoltura di sussistenza alle aree urbane e industriali. Gli studi condotti sottolineano l'importanza, nella spiegazione delle differenze relative alla diffusione della contraccezione, di altri fattori da affiancare a quelli socioeconomici, in particolare il contesto culturale.In breve, l'esperienza europea mostra chiaramente che le differenze in termini di lingua, religione, costumi o valori, possono inibire o facilitare l'adozione della limitazione familiare o altre forme nuove di comportamento, nonché la loro persistenza nel tempo. Ad esempio, in Italia esiste una stretta correlazione tra il modello regionale della variazione della fecondità durante i primi decenni di questo secolo e le attuali variazioni regionali degli atteggiamenti verso problemi quali il divorzio e l'aborto. Osservazioni simili sono state fatte per vari paesi. Per quanto le caratteristiche sociali, economiche e demografiche di una regione possano mutare profondamente, certi aspetti culturali di fondo rimangono stabili e sarebbe quindi davvero sorprendente se non avessero conseguenze sui valori morali relativi alla sessualità o alla procreazione. Si può concludere che nell'Europa storica, così come negli attuali paesi in via di sviluppo, la cultura delle sub-popolazioni sembra esercitare, sulla cadenza dell'adozione della contraccezione, un'influenza maggiore di quella dovuta ai livelli di sviluppo economico e di istruzione (v. Cleland e Wilson, 1987).
All'inizio del XX secolo una gran parte delle società europee si trovava in piena transizione demografica: a prescindere dagli autorevoli pareri della Chiesa e dei governi (in linea di massima sfavorevoli a qualsiasi forma di contraccezione) e delle femministe più radicali (divenute favorevoli a metodi di tipo strumentale), le coppie praticavano in misura sempre maggiore il controllo della fecondità utilizzando in prevalenza il coito interrotto, l'astinenza periodica e l'aborto. Con queste modalità si realizza la prima rivoluzione contraccettiva e si apre la strada al riconoscimento, da parte dei governi e della società cosiddetta benpensante, di un processo che, pur disapprovato formalmente, viene realizzato autonomamente dalla popolazione comune. Gli autori di trattati medico-sociali sulla contraccezione furono spesso perseguitati e i loro pamphlets tolti dalla circolazione, ma i numerosi processi istruiti contro di loro li portarono a raggiungere una notorietà senza precedenti. Gli effetti sociali di questi processi sull'opinione pubblica furono veramente notevoli. In particolare il famoso processo contro Bradlaugh-Besant (del 1877-1879) riuscì a rendere legale la generale e libera divulgazione della conoscenza contraccettiva e creò in Inghilterra una situazione di maggiore apertura rispetto ad altri paesi (v. Himes, 1936). La notorietà che seguì a queste battaglie legali aprì la strada all'attività di alcuni grandi personaggi del Novecento. È diventata un simbolo la figura di Margaret Sanger che, svolgendo il lavoro di infermiera a New York, prese coscienza della situazione delle donne più povere, rese ancora più misere dalle gravidanze indesiderate. Fu la Sanger a usare il termine controllo delle nascite per rimpiazzare la vecchia etichetta di stampo economicista di neomalthusianesimo (v. Mc Laren, 1990). La Sanger, che descriveva i benefici dell'uso degli antifecondativi per le coppie della classe proletaria, fu inizialmente osteggiata dal governo federale che, tuttavia, in seguito alla notorietà degli avvenimenti, ritornò sulle proprie decisioni. Passando dalla propaganda all'azione operativa, la Sanger fondò l'American birth control league e iniziò una campagna per la riforma legislativa che consentisse l'apertura di cliniche per i poveri.
Marie Stopes fu un'altra figura di grande rilievo del birth control. Il suo libro sul comportamento sessuale apparve nel 1918 e fu un immediato successo, con sette ristampe e la vendita di più di un milione di copie. Pioniera della rivoluzione sessuale, la sua tesi principale era che la donna sposata aveva tanto diritto al piacere sessuale quanto il marito. La Stopes si occupò solo di passaggio del problema del controllo delle nascite, ma dall'enorme numero di lettere da lei ricevute apprese che l'impossibilità di limitare la fecondità era spesso all'origine dell'infelicità coniugale. Come risposta scrisse un altro libro, in cui affrontava direttamente il problema del controllo delle nascite descrivendo una serie di contraccettivi. In seguito si rese conto, come era già accaduto alla Sanger, che occorreva mettere a disposizione delle donne, oltre alla conoscenza degli strumenti, gli strumenti stessi, e nel marzo del 1921 aprì la sua Mothers' clinic a Londra (ibid.).
La Stopes e la Sanger credevano fermamente che la limitazione della dimensione della famiglia non fosse soltanto economicamente necessaria, ma anche moralmente accettabile, in particolare per le classi povere. A questo proposito si trovavano d'accordo con gli eugenisti, che si preoccupavano moltissimo del fatto che la diffusione della contraccezione, riguardando in pratica le sole classi agiate, potesse avere conseguenze genetiche negative sul futuro della popolazione. Fu in un simile contesto che la Sanger e la Stopes portarono avanti l'azione di propaganda della contraccezione presso le donne della classe lavoratrice, nella convinzione che solo regolando la fecondità esse potessero aumentare il proprio benessere psicofisico e costruire famiglie felici, andando incontro nel contempo anche alle esigenze della società. I contraccettivi propagandati non potevano quindi essere quelli che impedivano la gratificazione sessuale femminile (come il coito interrotto), ma quelli il cui uso dipendeva dalla volontà della donna, ad esempio il diaframma, che richiedeva però l'intervento medico. Questa posizione ne ha forse ritardato in parte il processo di diffusione e di fatto un'ampia maggioranza della popolazione continuò a basarsi sui metodi tradizionali e sull'aborto. In Germania il numero di aborti salì da 300.000 prima della guerra a un milione negli anni venti, con la conseguente drammatica cifra di 5-8.000 decessi all'anno. Marie Stopes nel 1931 rivelò sul "Times" di aver ricevuto 200.000 richieste di aborto in tre mesi. Le successive ricerche di Kinsey misero in luce che negli Stati Uniti una donna coniugata su cinque aveva avuto un aborto. Tutte queste tematiche, e i dibattiti che ne seguirono, provocarono a poco a poco una sorta di assuefazione all'idea del controllo delle nascite. Anche il clero protestante iniziò ad accettare la tesi che la contraccezione avrebbe risparmiato molti problemi alla società. La Chiesa anglicana e l'Associazione medica britannica ammisero che il controllo delle nascite era lecito se un'ulteriore gravidanza risultava pericolosa per la salute della madre. Invece l'atteggiamento della Chiesa cattolica rimase rigidamente contrario a ogni accenno alla sessualità e alla pratica contraccettiva. Questa posizione culminò nel 1930 con l'enciclica di Pio XI, Casti connubi, che ribadiva l'opposizione alla regolazione artificiale della fecondità, ma allo stesso tempo accettava il nuovo metodo del ritmo, elaborato da Ogino e Knaus nel 1929-1930. Il divieto da parte della Chiesa fu poi riaffermato nella Humanae vitae del 1968, di Paolo VI, e in seguito la contraccezione è stata condannata ancora una volta, con l'esclusione dei metodi naturali, nell'enciclica Evangelium vitae emanata da Giovanni Paolo II nel 1994.
In Inghilterra la percentuale delle coppie borghesi che utilizzava i metodi di controllo delle nascite crebbe dal 9 al 40% tra il 1910 e il 1930, mentre nella classe proletaria la crescita fu solo dall'1 al 28%. Negli anni trenta i metodi più popolari in Gran Bretagna erano, nell'ordine, il coito interrotto, il profilattico, l'astinenza periodica e il diaframma. La ricerca di nuovi metodi di controllo andava avanti, dall'inizio del secolo, ma senza un esito soddisfacente e la sterilizzazione, possibile già alla fine del secolo scorso, veniva di solito utilizzata solo per ragioni genetiche.Tra le due guerre il movimento per il controllo delle nascite vide la sua azione arrestarsi. Stalin limitò l'accesso all'aborto nell'Unione Sovietica e i regimi fascisti osteggiarono fortemente contraccezione e aborto. Mussolini, per quanto difensore del neomalthusianesimo nel 1913, varò leggi repressive contro il controllo delle nascite. La fecondità aumentò in tutti i paesi (eccetto la Francia) ma non tanto a causa delle politiche pronataliste dei regimi autoritari, responsabili caso mai solo di un rallentamento del processo di transizione, quanto a causa della ripresa che seguì la grande depressione economica del 1929. Alla fine del secondo conflitto mondiale le democrazie del dopoguerra, per quanto preoccupate dalla necessità di una politica demografica ed essenzialmente pronataliste, non vollero essere assimilate ai regimi fascisti e di conseguenza o si astennero dal prendere qualsiasi posizione (è il caso dell'Italia e del Giappone) oppure, come nel caso della Gran Bretagna, appoggiarono la pianificazione familiare in quanto parte del servizio sanitario nazionale. Si andava tuttavia verso la ripresa congiunturale della fecondità, e l'aumento dei tassi di nuzialità e di natalità fu reso possibile dai miglioramenti salariali nei decenni di prosperità del dopoguerra. I governi, timorosi per le conseguenze sociali dell'instabilità familiare causata dalla guerra, lodarono il ritorno ai valori tradizionali mentre le donne, chiamate durante il conflitto a lavorare nelle fabbriche al posto degli uomini, si accorgevano che, passata l'emergenza bellica, non c'erano più né il lavoro né le strutture di assistenza per l'infanzia. Bersagliate nel contempo dalla propaganda pronatalista, per mancanza di altre opzioni esse parvero rinunciare a rivendicazioni femministe.Il baby boom fu il benvenuto per i governi occidentali. Non così la rapida crescita demografica dei paesi in via di sviluppo - che venne considerata una minaccia all'ordine sociale globale: l'Asia, l'Africa e il Sudamerica, impoveriti dalla sovrappopolazione, potevano aderire a ideologie lontane dalle democrazie di tipo occidentale. Negli anni cinquanta riemergono le preoccupazioni degli eugenisti, e non in relazione alle differenze di fecondità delle classi all'interno di una stessa struttura sociale, bensì a proposito del basso ritmo di accrescimento demografico delle nazioni bianche rispetto alle altre razze a fecondità molto più elevata.Sotto la spinta delle femministe (ancora una volta guidate dalla Sanger), divenne sempre più intenso lo sforzo di ricerca di metodi contraccettivi alternativi, sicuri e indipendenti dall'atto sessuale. Le ricerche ormonali iniziarono in Austria e proseguirono in particolare negli Stati Uniti dalla fine degli anni trenta con Gregory Pincus che, nel 1951, provò che il progesterone inibisce l'ovulazione e iniziò la ricerca di un ormone sintetico. Rock, un ginecologo di Harvard, cattolico devoto, che si era prima opposto alla contraccezione ma che adesso era allarmato dalla minaccia della sovrappopolazione, dichiarò che la pillola era un contraccettivo naturale, che anche i cattolici potevano utilizzare in coscienza. Nel 1960 la Food and drug administration accettò un antiovulatorio sintetico come farmaco contraccettivo orale e altre compagnie farmaceutiche produssero presto prodotti analoghi. Quando, nel 1969, la Chiesa condannò categoricamente la pillola, i cattolici, rassicurati da Rock e ormai abituati al suo uso, continuarono in gran parte a usarla.
Non disponendo di informazioni circa la lenta propagazione delle pratiche contraccettive, la storia della diffusione del controllo delle nascite nei paesi occidentali si basa sulla valutazione del declino della fecondità, analizzato mediante modelli di stima dell'allontanamento dalla fecondità naturale (v. Coale e Trussell, 1974; v. Guinnane e altri, 1994; v. Anderson e Silver, 1992). Quanto invece alla diffusione della pratica contraccettiva nei paesi in via di sviluppo, il progresso dei metodi di indagine demografica ha reso possibile uno studio diretto, affidabile e dettagliato. Nel contempo il crescente impegno verso i programmi di pianificazione familiare ha stimolato la domanda di indagini per misurare le variazioni della pratica contraccettiva e l'impatto delle politiche demografiche. Di conseguenza la prevalenza contraccettiva, cioè la proporzione di donne in età feconda che utilizza metodi di controllo, risulta essere la variabile demografica meglio misurata nei paesi in via di sviluppo, anche con maggiori dettagli e tempestività che nei paesi industrializzati. Ricordiamo che a tutt'oggi le informazioni dettagliate sulla contraccezione in Italia risalgono al 1979, in occasione della prima indagine sulla fecondità inquadrata nel progetto mondiale World fertility surveys. Un dato meno dettagliato deriva da un'indagine svolta nel 1984, dalla quale si evidenzia che solo il 17% delle donne italiane in età compresa fra i 15 e i 44 anni utilizzava correttamente pillola o IUD (Intra Uterine Device, la cosiddetta spirale), contro il 18% che si affidava sostanzialmente al profilattico (v. Livi Bacci e Delgado Perez, 1992). Dopo questa data abbiamo solo alcune informazioni saltuarie e riferibili a zone particolari, ma niente di rappresentativo a livello nazionale.
I dati derivanti dalle più recenti indagini condotte nel quadro del progetto Demographic and health surveys (iniziate intorno alla metà degli anni ottanta) evidenziano che nei paesi in via di sviluppo il livello di fecondità (misurato dal tasso di fecondità totale) è fortemente correlato alla prevalenza contraccettiva, anche se alcuni paesi hanno tassi considerevolmente più alti o più bassi rispetto ad altri con analoghi livelli di prevalenza. Sebbene in alcuni casi ci sia la possibilità di errori di rilevazione, gli scostamenti rispetto all'andamento lineare denunciano l'esistenza di un modello regionale caratterizzato da fattori culturali che agiscono sulle altre determinanti intermedie (matrimonio e allattamento). La maggior parte dei paesi caraibici ha una fecondità inferiore a quella attesa sulla base della relazione lineare con i livelli di prevalenza contraccettiva, fenomeno che è probabilmente correlato ai modelli nuziali che includono una proporzione elevata di unioni informali relativamente instabili. Al contrario, la maggior parte dei paesi dell'Asia occidentale ha una fecondità superiore a quella attesa, a causa della presenza di matrimoni precoci e di periodi relativamente brevi di allattamento. Tuttavia si deve notare che, anche se le altre determinanti intermedie della fecondità sono importanti e variamente condizionate dai contesti socioculturali, nessun paese ha raggiunto una fecondità pari al livello di sostituzione senza che almeno il 50% delle coppie feconde facesse uso di contraccettivi e, d'altra parte, nessun paese con una percentuale inferiore al 10% presenta un tasso di fecondità totale inferiore a 5,5 figli per donna (v. Weinberger, 1995). In complesso si stima che il 57% delle coppie nel mondo usi la contraccezione (v. tab. I). I metodi principali sono: la sterilizzazione, impiegata dal 22% delle coppie (17% sterilizzazione femminile e 5% maschile); lo IUD, impiegato dal 12% delle coppie; la pillola, dall'8% delle coppie. Profilattici, ritmo e coito interrotto sono utilizzati ognuno dal 4-5% delle coppie, mentre i metodi restanti riguardano una minoranza. Sebbene le regioni più sviluppate abbiano un livello generale maggiore dell'uso contraccettivo, per alcuni metodi il livello d'uso è più elevato nei paesi in via di sviluppo e questo è vero per la sterilizzazione femminile (25% delle coppie nei paesi in via di sviluppo rispetto al 12% nel mondo sviluppato) e per lo IUD (14% rispetto al 6%).
Nella maggior parte dei paesi del continente africano la prevalenza contraccettiva è ancora bassa e la fecondità molto elevata. Solo per poco più del 10% dei paesi dell'Africa subsahariana il livello d'uso contraccettivo appare moderato (20-40%), contro il 30% dell'Africa settentrionale, in cui i valori tradizionali dell'Islam entrano in costante conflitto con i messaggi di modernizzazione che provengono dall'Occidente, soprattutto dai paesi vicini della riva settentrionale del Mediterraneo (v. Livi Bacci e Martuzzi Veronesi, 1990). Gran parte dell'Africa meridionale ha raggiunto livelli di prevalenza moderati; in Botswana, Namibia, Sudafrica, Swaziland e Zimbabwe la prevalenza varia dal 20 al 50%, e i metodi efficaci rappresentano più dell'80% della pratica contraccettiva.
Fra i paesi in via di sviluppo l'Asia orientale (i dati si riferiscono a Cina, Hong Kong e Repubblica di Corea) ha di gran lunga il maggior livello di uso contraccettivo, il 79%, un valore anche più elevato di quello delle regioni più sviluppate (72%). Si deve sottolineare che la Cina ha una situazione del tutto particolare: tra i paesi asiatici a basso reddito la Cina costituisce un esempio per l'efficienza dimostrata nell'organizzare le politiche di pianificazione familiare. Il risultato di questa efficienza è il brusco declino della fecondità: la Cina è passata dai 6 figli per donna della metà degli anni sessanta ai 2 di oggi. Ma questa efficienza appare spesso come il frutto di politiche molto rigide e repressive della volontà individuale, ad esempio la cosiddetta politica del figlio unico (v. Farina, 1996). Nel resto dell'Asia la prevalenza media è del 42%, con un ampio campo di variazione, poiché le proporzioni variano dal 10% dell'Afghanistan, del Pakistan e dello Yemen, paesi con profonde tradizioni islamiche e pesanti discriminazioni sessuali, a proporzioni comprese tra il 60 e il 75% in Singapore, Thailandia, Sri Lanka e Turchia.
In America Latina la prevalenza media è stimata attorno al 58%. La maggior parte dei paesi di questa regione ha raggiunto livelli discreti di uso contraccettivo, con alcune eccezioni, quali Haiti e Guatemala, caratterizzati da una scarsa diffusione. La prevalenza è invece superiore alla media in Brasile, Colombia, Costa Rica, Cuba, Panama e Porto Rico.Si possono intuire i legami esistenti fra contraccezione, fecondità desiderata e fecondità realizzata dai dati delle indagini Demographic and health surveys (v. tab. II).
Una dimensione familiare elevata rappresenta ancora un ideale per la maggior parte dei paesi della regione subsahariana, dove soltanto in Kenya e in Botswana le donne desiderano un numero di figli inferiore a 4. Se un eccessivo incremento demografico rappresenta un ostacolo allo sviluppo, è soprattutto nei paesi subsahariani che appare necessaria una politica tesa non soltanto alla diffusione dei servizi di pianificazione familiare, ma anche all'abbassamento della fecondità desiderata. Il ruolo della responsabilizzazione delle donne in questo ambito appare fondamentale, in particolare attraverso l'istruzione (v. UNPFA, 1995).Anche il modello di contraccezione secondo i metodi utilizzati presenta una considerevole variabilità. La sterilizzazione femminile è il metodo più diffuso nel mondo (rappresenta il 30% dell'uso contraccettivo totale e il 37% nei paesi in via di sviluppo). Questo metodo è di particolare importanza in Asia e in America Latina, ma rappresenta anche più del 10% dell'uso totale nell'Africa subsahariana. In Asia risulta abbastanza diffusa anche la sterilizzazione maschile, scarsamente usata nella maggior parte dei paesi africani e latino-americani.
La pillola è un metodo importante per molti paesi, e rappresenta circa il 20% della pratica contraccettiva nei paesi sviluppati, il 28% in America Latina e nell'Africa subsahariana e la metà della contraccezione totale nell'Africa settentrionale. Il suo ruolo nel controllo della fecondità appare però di secondo piano nei due paesi più popolosi, Cina e India. I metodi iniettabili, essenzialmente il Norplant, per quanto costituiscano una piccola percentuale di tutta la pratica contraccettiva nei paesi in via di sviluppo, rappresentano una quota abbastanza importante per gran parte dell'Africa subsahariana.
Quanto allo IUD la sua diffusione è alta in Cina, dove, nonostante una diminuzione recente a favore della sterilizzazione, rappresenta ancora circa il 40% della pratica contraccettiva. In America Latina e nell'Africa subsahariana, il 10-11% delle utenti utilizza lo IUD e così il 25% delle utenti nordafricane. I profilattici sono più usati nei paesi sviluppati che nei paesi in via di sviluppo (13% e 3% rispettivamente), ma è ragionevole ipotizzare un forte incremento nel futuro per prevenire l'AIDS. Il metodo tradizionalmente utilizzato nelle società europee in transizione, il coito interrotto, resta importante in alcune parti dell'Europa orientale e meridionale (in Italia, ad esempio, stanti le ultime indagini, ormai datate, del 1979 e del 1984). In molti paesi in via di sviluppo, l'astinenza periodica (soprattutto il ritmo) viene praticata più diffusamente del coito interrotto. Assieme, ritmo e astinenza rappresentano nel complesso meno del 10% dell'uso contraccettivo delle regioni meno sviluppate e la loro diffusione è più elevata nelle regioni cattoliche dell'America Latina.
Il ricorso alla contraccezione è aumentato in quasi tutti i paesi in via di sviluppo per i quali sono disponibili i dati tendenziali. Durante il decennio che va dalla fine degli anni settanta alla fine degli ottanta la prevalenza contraccettiva è aumentata di almeno un punto percentuale annuo nel 64% dei paesi, ed è cresciuta di almeno due punti percentuali in oltre il 20% dei paesi. L'entità della variazione osservata durante questo periodo è correlata al livello iniziale, e infatti gli incrementi annui di almeno un punto percentuale si sono verificati per oltre l'80% dei paesi nei quali la prevalenza era inizialmente moderata, per circa la metà dei paesi con prevalenza iniziale molto bassa, e solo per il 20% dei paesi con una prevalenza già superiore al 50%. Nei paesi subsahariani la diffusione è aumentata solo leggermente in Ghana e Nigeria, in modo molto più marcato in Botswana, Kenya, Senegal e Zimbabwe. L'entità della variazione dipende anche dall'impegno con cui questi paesi hanno intrapreso una incisiva politica demografica nel momento in cui sperimentavano un certo sviluppo sociale ed economico. Sono questi i casi in cui è più facile disporre di dati tendenziali, a dimostrazione di una maggiore sensibilità dei governi per i problemi sociodemografici. È ragionevole supporre una maggiore inerzia nei paesi per cui si hanno minori informazioni (v. Weinberger, 1995).
Negli ultimi dieci anni circa, l'insieme dei metodi contraccettivi è sostanzialmente cambiato. In generale la sterilizzazione femminile è il metodo che mostra il maggior incremento, soprattutto in Cina, in India, nella Repubblica Dominicana, a Panama e a Porto Rico, dove è cresciuta anche più del livello generale dell'uso contraccettivo. La maggior parte dei paesi in cui l'uso della sterilizzazione è rapidamente cresciuto sono paesi popolosi, asiatici e latinoamericani, dove di converso la prevalenza della pillola è diminuita dal 12 al 9%. È evidente che il quadro delle recenti tendenze della contraccezione nel complesso dei paesi in via di sviluppo è dominato dalle traiettorie seguite dalla Cina e dall'India. Altri metodi clinici sono leggermente aumentati o sono rimasti pressappoco uguali durante il periodo considerato. L'uso dello IUD è aumentato in molti paesi ma, poiché è diminuito in Cina passando dal 35% del 1982 al 30% nel 1988, le stime complessive non suggeriscono alcun cambiamento generale della percentuale di coppie che fanno uso dello IUD. In generale, i metodi naturali e quelli tradizionali mostrano una scarsa variazione di prevalenza tra le coppie, e il loro contributo percentuale alla prevalenza totale è diminuito.
Secondo le ultime stime, in alcuni casi la diffusione della contraccezione ha subito un arresto del ritmo di incremento, in particolare quando (come in Colombia e in Thailandia) il livello d'uso si è avvicinato a quello tipico dei paesi industrializzati. Ci sono anche alcuni paesi dove la diffusione, ancora bassa, pare ristagnare: è il caso di numerosi paesi di religione islamica, paesi poveri e paesi ad alto reddito pro capite. Le cause di questi comportamenti demografici sono da ricercarsi in ragioni politico-culturali, che ostacolano sia l'inserimento della donna nella famiglia e nella società sia l'impegno in termini di pianificazione familiare (v. Salvini, 1996).
Fino a oggi, solo alcuni paesi in via di sviluppo hanno raggiunto livelli contraccettivi simili a quelli dei paesi industrializzati. Nell'Asia orientale e meridionale, Cina, Hong Kong, Repubblica di Corea, Singapore e Thailandia hanno raggiunto livelli che vanno dal 68 all'81%; questi paesi hanno anche una fecondità bassa, con un tasso di fecondità totale che varia da 1,4 a 2,6 (1985-1990). In America Latina e nei Caraibi i soli paesi che hanno raggiunto un livello di prevalenza di almeno il 65% sono Brasile, Colombia, Costa Rica, Cuba e Porto Rico, e soltanto questi ultimi hanno tassi di fecondità totale inferiori a 2,5.È importante comunque sottolineare che esiste una notevolissima variabilità fra le regioni e tra i gruppi sociali, sia in funzione di fattori di tipo etnico, sia sulla base del diverso grado di sviluppo socioeconomico raggiunto o, come in genere si verifica, sulla base dell'interazione fra questi due ordini di determinanti. In queste circostanze un'analisi aggregata può livellare caratteristiche di marcata diversità. Per alcuni grandi e popolosi paesi che presentano al loro interno grandi differenze etniche, religiose e sociali, è ragionevole attendersi comportamenti demografici eterogenei, soprattutto nel caso in cui anche lo status femminile sia molto diverso, da una regione all'altra o da un gruppo sociale all'altro. Sono, ad esempio, i casi del Brasile e dell'India (v. Acero, 1994; v. Repetto, 1995). Il processo di modernizzazione economica e culturale appare fondamentale per spiegare le differenze. L'urbanizzazione e la diffusione dell'istruzione femminile assumono un ruolo primario: nelle aree urbane si ha una prevalenza contraccettiva superiore di 20 punti percentuali rispetto a quella delle aree rurali, e differenze ancora più elevate (attorno ai 30 punti) si riscontrano fra le donne con nessuna istruzione e quelle con una istruzione superiore. Nel processo di cambiamento legato alla trasformazione sociodemografica le differenze sociali tendono inizialmente ad accentuarsi, dal momento che generalmente sono le coppie istruite che vivono in contesto urbano ad adottare per prime la contraccezione, e queste differenze possono permanere a lungo. In molti paesi ci sono state scarse variazioni nelle differenze secondo il tipo di residenza e il livello di istruzione durante il decennio che ha separato le indagini condotte nell'ambito del progetto World fertility surveys (della metà degli anni settanta) da quelle condotte nell'ambito del progetto Demographic and health surveys (della metà degli anni ottanta): la diffusione dei metodi di controllo delle nascite è cresciuta in tutti i gruppi sociali e i divari rimangono. Soltanto quando il processo di transizione giunge alle fasi finali, i comportamenti nei confronti della regolazione della fecondità tendono a uniformarsi. Ampie differenze di fecondità possono perciò persistere a lungo, anche se gli interventi in termini di programmi di pianificazione familiare, diretti a gruppi selezionati, possono correggere gli andamenti tendenziali.
Tra le differenze fondamentali che distinguono la transizione della fecondità dei paesi in via di sviluppo da quella delle società europee del secolo scorso le principali sono la velocità del declino, l'importazione di modelli culturali in parte estranei al tessuto sociale originario (ciò che in breve viene chiamato processo di occidentalizzazione) e l'esistenza di programmi di pianificazione familiare. Le famiglie di piccole dimensioni, abbiamo visto, stanno diventando via via più comuni nel mondo in via di sviluppo. Se la causa di fondo risiede nella modificazione della domanda di figli (v. Pritchett, 1994), i programmi di pianificazione familiare hanno aiutato milioni di coppie a realizzare almeno in parte i loro desideri. Secondo stime affidabili, durante gli scorsi trent'anni questi programmi hanno permesso alle donne che vivono nei paesi in via di sviluppo di evitare oltre 400 milioni di nascite, e senza di essi il tasso di fecondità totale del periodo 1980-1985 sarebbe stato di 5,2 invece di 4,2 figli per donna (v. Robey e altri, 1994). I programmi di pianificazione familiare e lo sviluppo socioeconomico hanno entrambi avuto un ruolo importante nel declino della fecondità recente, i primi mettendo a disposizione conoscenze e strumenti contraccettivi, il secondo facilitando le modifiche delle norme culturali che condizionano la formazione della discendenza (v. Lapham e Mauldin, 1985; v. Mauldin e Ross, 1991). Nel corso della transizione i fattori che favoriscono l'alta fecondità tendono a perdere di importanza. Il venir meno del ruolo dell'economia familiare e la crescita dell'autonomia e delle opportunità femminili inducono le famiglie a ridurre il numero dei figli. Questo processo si è avvantaggiato, nel corso degli anni sessanta e settanta, delle politiche di pianificazione familiare rese operative dalle istituzioni governative di molti paesi in via di sviluppo, che all'inizio si sono appoggiate a organizzazioni non governative - che costituivano reti private di informazione e di servizi sociali già esistenti - sulle quali si sono innestati i programmi e i servizi di pianificazione familiare. Negli anni ottanta si è assistito poi a una forte crescita di impegno, supportato anche dalle organizzazioni internazionali.
Accanto all'opportunità di collocare i problemi della popolazione nell'ambito più ampio dello sviluppo sociale ed economico, emerge anche la necessità di istituire precisi ordini di priorità tra gli interventi programmati (v. Demeny, 1993). L'esperienza dei successi ma anche dei molti fallimenti ha insegnato che, affinché programmi non coercitivi possano raggiungere lo scopo dell'abbassamento della fecondità e della diffusione dei metodi contraccettivi, devono sussistere numerose condizioni. In particolare i programmi devono andare incontro ai bisogni della gente, cioè i servizi devono far seguito a una domanda esistente di contraccettivi (soltanto eccezionalmente possono anticiparla) ed essere resi noti e accessibili. I metodi proposti devono essere diversificati: uno dei motivi del parziale fallimento delle politiche demografiche messe in atto dal governo indiano risiede infatti nell'aver promosso quasi esclusivamente la sterilizzazione.
A tutt'oggi si riscontra fra i paesi una grande variabilità dello sforzo programmatico, che risulta condizionato da atteggiamenti politici e culturali. In linea generale tutti i paesi in via di sviluppo concordano sull'esigenza di delineare e rendere operative le politiche di promozione sociale che agiscono indirettamente sulla diffusione della contraccezione e sul tasso di incremento demografico. Atteggiamenti diversificati invece si riscontrano nei confronti dell'intervento diretto sulle tendenze della fecondità, a favore della limitazione delle nascite. Fattori politici e religiosi guidano essenzialmente queste scelte.
Il documento sottoposto alla discussione e all'approvazione della I Conferenza generale della popolazione delle Nazioni Unite tenuta a Bucarest nel 1974 sottolineava, con un approccio prioritariamente demografico, la necessità di prevedere e rendere operative politiche demografiche mirate essenzialmente all'abbassamento della crescita della popolazione, ma i lavori della Conferenza spostarono l'accento sulla necessità di dare priorità allo sviluppo socioeconomico. Il Piano d'azione derivò così da una serie di compromessi fra posizioni politico-ideologiche molto forti, che rispecchiavano da un lato la contrapposizione fra paesi socialisti e paesi dove risultava predominante l'influenza degli Stati Uniti, dall'altro quella fra paesi ricchi e paesi poveri. Nell'ambito di un documento molto articolato, dunque, il Piano d'azione mondiale si fondava su tre punti chiave: la priorità da dare allo sviluppo socioeconomico per favorire il rallentamento della crescita demografica; il diritto di ogni Stato di darsi propri obiettivi demografici senza subire alcuna ingerenza e tenendo conto delle proprie specificità culturali; l'affermazione dei diritti individuali riguardo alle decisioni riproduttive. Nella bozza del documento presentato a Città del Messico dieci anni dopo, l'approccio era ancora a priorità demografica e l'obiettivo chiave consisteva nell'intrapresa di politiche di pianificazione familiare tese al rallentamento della crescita attraverso l'abbassamento dei tassi di fecondità: nei lavori preparatori fu precisato, da parte statunitense, che se lo sviluppo socioeconomico era determinante per il raggiungimento dell'obiettivo solo nel lungo periodo, nel breve si doveva puntare sulla pianificazione familiare. Ancora una volta si assistette a uno scontro, forse ancora più irruento, fondato su questioni politiche molto generali (con forti contrasti sul ruolo dei finanziamenti per armamenti e dei finanziamenti per politiche sociali, sull'indebitamento dei paesi in via di sviluppo che ostacolava lo sviluppo economico, ecc.) e in questo contesto i temi demografici passarono in secondo piano. Il documento che risultò poi approvato per consenso - con il solo dissenso del Vaticano - sottolineava ancora una volta la necessità di uno sviluppo autonomo quale reale fattore di abbassamento della fecondità. Anche a Città del Messico furono riprese sia la problematica ambientale che quella della condizione femminile, già presenti a Bucarest, entrambe però senza il dovuto rilievo (v. Golini, Verso il Cairo..., 1994).
Alla Conferenza del Cairo del 1994, al di là del problema dell'aborto che ha occupato ampio spazio sui giornali, il dibattito e il definitivo Piano d'azione hanno fornito importanti basi teoriche e operativo-finanziarie per i futuri interventi e un approccio analitico più sofisticato alla considerazione dei problemi correlati alla popolazione. Come indica lo stesso preambolo, "la Conferenza del 1994 ha avuto esplicitamente un mandato più ampio sui problemi dello sviluppo rispetto alle precedenti conferenze demografiche, riflettendo la crescente consapevolezza che popolazione, povertà, modelli di produzione e consumo e altre minacce all'ambiente sono così strettamente correlate che nessuna di esse può essere considerata isolata" (v. Cohen e Richards, 1994; v. United Nations, 1995). Di conseguenza, il Piano d'azione sottolinea lo sviluppo sostenibile e gli obiettivi umanitari anziché quelli demografici. In nessun caso esso richiede la stabilizzazione della popolazione fine a se stessa; al contrario, spinge i governi a offrire "accesso universale ad un'intera serie di metodi di pianificazione familiare sicuri e affidabili e ai correlati servizi sanitari" entro il 2015. Il documento riflette inoltre un globale mutamento di atteggiamento a favore della promozione della pianificazione familiare nel contesto di una più completa assistenza alla salute riproduttiva, definita in modo da includere la salute sessuale, un altro argomento controverso e fino allora mai affrontato apertamente in una dichiarazione delle Nazioni Unite.
La Conferenza del 1994 del Cairo è soprattutto da ricordare per la sua forte enfasi sullo status femminile. Il Piano d'azione contiene un intero capitolo su "uguaglianza tra genders, parità e potenziamento [empowerment] delle donne" - il più completo su tale soggetto emerso da una conferenza delle Nazioni Unite. La piena parità della donna a tutti gli stadi della vita è ritenuta vitale non solo per moderare la crescita demografica ma per attuare, in tutto il mondo, uno sviluppo sostenibile con una particolare attenzione all'ambiente (v. Kishor, 1995). L'accento sul potenziamento delle donne è continuato nel corso della IV Conferenza internazionale delle donne (Pechino, settembre 1995). È stata questa un'occasione importante, un primo punto di arrivo di un percorso iniziato venti anni fa alla I Conferenza internazionale delle donne. Fra i molti temi affrontati in quella sede vengono ripresi sia quello dell'empowerment femminile (tradotto alternativamente sulla stampa italiana come 'potenziamento dello stato femminile' oppure come 'riconoscimento dell'autorità della donna', due concetti profondamente diversi) sia la revisione delle politiche di controllo delle nascite, con l'affermazione del diritto della donna alla salute sessuale e riproduttiva ottenuta attraverso la diffusione di una gamma diversificata e poco costosa di strumenti contraccettivi. Per le donne dei paesi in via di sviluppo la liberazione dalle maternità non desiderate e la presa di coscienza dell'esistenza di opportunità alternative a una dimensione familiare elevata, sono tutti elementi fondamentali di sviluppo. Dopo il Cairo e dopo Pechino l'empowerment femminile appare quindi come uno dei concetti chiave nelle politiche di sviluppo sociale. (V. anche Aborto; Fecondità; Natalità; Popolazione; Sviluppo economico).
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