Popolazione
1. Definizioni
'Popolazione' è un insieme di individui collegati tra loro in unioni generalmente stabili e finalizzate alla riproduzione. È questa la definizione più semplice di un concetto complesso che si presenta con numerose varianti. È chiaro che non sempre un insieme di individui costituisce una popolazione: perché lo siano, occorre che vi sia una continuità temporale la quale è assicurata solamente dal succedersi delle generazioni per mezzo della riproduzione. Individui occasionalmente o temporaneamente aggregati (in un esercito, in un campo profughi, in una istituzione) non costituiscono una popolazione, anche se i fenomeni da essi prodotti possono essere studiati sotto il profilo demografico (la mortalità dei soldati, la mobilità dei profughi, la nuzialità in una istituzione). È, dunque, l'esistenza di meccanismi riproduttivi che assicurano la durata e la continuità temporale, la condizione principale per l'esistenza di una popolazione.
Questa definizione coincide con quella che darebbero un genetista o un biologo. Sarebbe difficile considerare come appartenenti a una stessa popolazione individui che non hanno alcuna probabilità di incontrarsi, unirsi e riprodursi. Le definizioni del demografo, del biologo e del genetista pertanto coincidono quando si tratta di studiare un piccolo aggregato - si pensi alla popolazione di una piccola isola, oppure a un gruppo di cacciatori e raccoglitori, o a un clan, a un'aristocrazia, chiusi ad apporti esterni.
La definizione sopra data va però temperata: con l'accrescersi numerico dei gruppi umani, con la diffusione del popolamento e con il formarsi di comunità politicamente definite e strettamente collegate con un ambito territoriale preciso, il concetto di popolazione si è evoluto facendosi, nel contempo, meno preciso. L'identificazione di una popolazione non può farsi esclusivamente con riferimento ai meccanismi di unione e di riproduzione, perché entrano in gioco altri fattori che condizionano l'evoluzione numerica e strutturale del gruppo umano. Tra questi elementi possiamo porre: a) i processi di mobilità e di migrazione; b) il contesto territoriale-ambientale; c) le istituzioni politiche, economiche, religiose, ecc. I processi di mobilità e migrazione permettono ai gruppi di integrare la riproduzione biologica con la riproduzione sociale: in altri termini, qualsiasi gruppo che accetta (per immigrazione, cooptazione, scelta) individui che non gli appartengono per nascita e che ne cede al contempo altri, è soggetto a una riproduzione 'sociale' che modifica le sue caratteristiche (accrescimento, struttura, composizione). L'appartenenza a un contesto territoriale-ambientale influisce fortemente sui processi di mortalità e unifica le condizioni di vita e di sopravvivenza di gruppi anche separati sotto il profilo unione-riproduzione. Infine, le istituzioni pongono popolazioni diverse sotto vincoli comuni che ne influenzano tanto i comportamenti quanto la dinamica.
Nel tempo è andato prevalendo il criterio politico-territoriale nella definizione di popolazione, anche se dal punto di vista concettuale questo può apparire poco soddisfacente. La comunanza di territorio può non essere sufficiente a identificare una popolazione: infatti, gli abitanti di una stessa area territoriale possono non avere occasione di incontro e unione (sono separati da barriere naturali o da grandi distanze), oppure possono non avere titolo giuridico (appartenendo a caste diverse, a razze diverse, a religioni diverse) a unirsi e riprodursi. In questo caso altri aspetti definitori sono importanti: la religione, il gruppo o clan di appartenenza, lo status giuridico dei gruppi e via dicendo. A rigore non ha molto senso, ad esempio, parlare di una popolazione di Israele o dell'India, quando gli appartenenti a religioni o caste diverse non possono contrarre matrimonio; situazioni di separatezza di gruppi etnici sono comuni nella storia passata e purtroppo di fatto non sconosciuti in quella attuale. In senso opposto gioca la coesione delle diaspore: vi sono gruppi che mantengono la coesione nonostante la dispersione in territori diversi e la cui identità culturale è più forte dei fattori di separazione. La diaspora dei cinesi o quella degli ebrei - per esempio - ha in genere prodotto legami demografici assai più forti tra i gruppi dispersi che non tra ciascun gruppo e la popolazione autoctona del territorio o nazione di arrivo.
Nonostante questi limiti concettuali, è andata prevalendo una identificazione territoriale-politica di popolazione; i confini degli Stati nazionali e, all'interno di questi, i confini delle aree amministrative sono, nell'epoca contemporanea, i criteri definitori prevalenti di una popolazione. Va però riconosciuto che l'influenza dell'ordinamento statuale - che tra l'altro preleva e gestisce oltre la metà delle risorse prodotte dalle collettività moderne - sui comportamenti individuali rilevanti per la dinamica della popolazione è oggi molto forte e giustifica l'adozione di un criterio territoriale. Lo Stato detta le regole dell'immigrazione, pone regole e vincoli alle unioni, manipola la mobilità interna, influenza le condizioni di sopravvivenza. Pone dunque regole, argini, binari allo sviluppo della popolazione e vi è quindi una ragione sostanziale, e non puramente formale, pur con i limiti sopra delineati, per aderire alla definizione territoriale politica, a integrazione di quella basata sulla diade unione-riproduzione indicata all'inizio.
2. Aspetti formali del rinnovo e della variazione di una popolazione
I meccanismi che determinano la variazione numerica di una popolazione possono essere analizzati - in una prima fase - mediante semplici strumenti matematici.Supponiamo che la popolazione sia chiusa, cioè senza movimenti migratori. In ogni anno il suo ammontare totale è, ovviamente, pari alla somma degli individui di tutte le classi di età; l'ammontare di ciascuna classe è dato dal numero dei nati decurtato di quello dei decessi avvenuti tra la nascita e l'età considerata. Possiamo così dire che sia l'ammontare che la distribuzione per età della popolazione in un determinato anno sono funzione della storia passata (relativa, per semplificare, agli ultimi 100 anni, considerando una popolazione formata da 100 generazioni annuali) combinata della fecondità (che produce le nascite) e della mortalità (che determina i decessi).
In un caso assai semplificato, se si suppone che nascite e morti siano in stabile equilibrio (N=M), si usa definire la popolazione (P) stazionaria, con tasso d'incremento pari a zero. La popolazione stazionaria ha natalità n=N/P, e mortalità m=M/P, e poiché M=N, anche n=m. Si dimostra anche che natalità e mortalità hanno valore pari all'inverso della speranza di vita (v. demografia, § 6c) alla nascita: n=m=1/e₀. Questa proprietà - nota a Halley ed Eulero - è fondamentale perché permette di trarre due conclusioni.
1. L'equilibrio numerico di una popolazione può realizzarsi a vari livelli di natalità e mortalità: se queste sono molto alte (come in gran parte della storia dell'umanità), la speranza di vita deve essere forzatamente bassa: per esempio, con n e m pari al 40‰, la speranza di vita deve essere di 25 anni; se n e m sono basse e pari al 10‰, la stessa deve essere pari a 100.
2. La struttura per età della popolazione stazionaria risente dei livelli di natalità e mortalità: dove queste sono molto alte, come nel primo degli esempi (con speranza di vita bassa) la struttura è giovane, nel senso che il peso delle classi giovani sul totale è alto e quello degli anziani - decurtati da un'alta mortalità - è basso; la struttura è più anziana se invece natalità e mortalità sono basse (v. tab. I).
In pratica una popolazione stazionaria può essere rappresentata come un bacino rinnovato e drenato da due identici flussi, dove l'acqua resta costante. Si suppongano due bacini di uguale capacità e si supponga che l'acqua vi resti allo stesso livello, ma nel primo bacino i flussi di immissione ed emissione siano molto forti: il ricambio dell'acqua avviene velocemente e ciascuna particella permane poco tempo nel bacino (speranza di vita bassa). Nel secondo bacino l'equilibrio è ottenuto con getti di immissione ed emissione deboli, il rinnovo avviene lentamente e ciascuna particella permane a lungo.
Il modello stazionario è utile per intendere le relazioni tra flussi di rinnovo (nascite, morti) e struttura di una popolazione, ma ha scarsa rispondenza nella realtà, per il vincolo posto da un tasso d'incremento pari a zero: un'eventualità che difficilmente si verifica su lunghi periodi. Un caso assai più generale e frequente è quello di una popolazione che varia a tasso costante, con un tasso d'incremento diverso da zero. Benché ogni popolazione reale, nel corso della storia, sia sottoposta a fluttuazioni violente e a cicli, anche vigorosi, di crescita, ristagno, diminuzione e ripresa - è anche vero che nel lungo periodo queste alternanze tendono a compensarsi in un percorso di crescita (assai più raramente di diminuzione) relativamente uniforme.
Un tasso di crescita (approssimativamente) costante è la conseguenza dell'azione di leggi di fecondità e di sopravvivenza anch'esse (approssimativamente) costanti. Ciò è storicamente frequente, perché le condizioni di sopravvivenza sono rimaste per lunghi periodi approssimativamente inalterate e la fecondità - anteriormente alla diffusione del controllo delle nascite - è rimasta guidata da fattori naturali scarsamente modificati nel tempo. Alfred Lotka (v., 1907 e 1922) ha dimostrato - ma Euler (v., 1760) ne aveva già posto i fondamenti - che una popolazione sottoposta a funzioni di sopravvivenza (in pratica: la curva che indica l'estinzione per mortalità di una generazione età per età, dalla nascita alla morte dell'ultimo componente) e di fecondità costanti assume una distribuzione anch'essa costante nel tempo; inoltre la sua struttura per età è unicamente determinata dall'azione di dette funzioni.
A funzioni di fecondità e sopravvivenza diverse corrispondono anche strutture per età diverse (v. fig. 1) e questa relazione è matematicamente determinabile. Il tasso di variazione di questa popolazione - detta stabile - è anch'esso invariante (tasso r della popolazione stabile, o tasso intrinseco, o tasso di Lotka). Lotka ha anche mostrato come, in una popolazione stabile, le funzioni di fecondità e sopravvivenza sono legate al tasso d'incremento mediante l'equazione fondamentale:
R₀=erT.
In questa equazione R₀ (detto anche tasso netto di riproduzione) è il rapporto tra il numero delle figlie e il numero delle componenti la generazione cui appartengono le loro madri; T è la distanza media che intercorre tra madri e figlie (approssimato dall'età media al parto), r è il tasso della popolazione stabile. Il valore di R₀ incorpora sia la funzione di fecondità (è infatti la somma delle nascite avvenute durante il periodo riproduttivo da una generazione di donne) sia quella di sopravvivenza (la generazione delle madri si assottiglia per morte con l'età e quindi non può che esprimere in parte il proprio potenziale riproduttivo). Dall'equazione sopra riportata ne segue che:
r=logR₀/T.
Si esprime così una relazione inversa tra durata di una generazione T (cioè il fatto che le donne si riproducano in età più o meno giovane) e tasso d'incremento r dato uno stesso livello di R₀. Quando, all'inizio degli anni settanta, la Cina ha imposto un matrimonio più tardivo (spostando in avanti l'età media alla riproduzione, cioè aumentando T) ha, in pratica, preso un provvedimento che ha rallentato la crescita demografica (r) pur in presenza di fecondità e sopravvivenza invarianti.
Centrali alla dinamica di una popolazione sono pertanto l'intensità e la cadenza dei suoi processi di rinnovo - le nascite e le morti che avvengono nel tempo e che sono il risultato delle funzioni di sopravvivenza e fecondità. Queste determinano non solo l'accrescimento ma anche la distribuzione per età, l'intervallo tra generazioni, i rapporti numerici tra queste, il rapporto tra i sessi - grandezze fondamentali dei processi demografici. Nelle popolazioni reali le condizioni sono naturalmente assai più complesse di quelle assunte sopra: queste popolazioni non sono chiuse, sono sottoposte a processi migratori di entrata e uscita, e fecondità e sopravvivenza non sono costanti ma mutano nel tempo. Tuttavia i meccanismi di base sono gli stessi: in ciascun istante struttura e ammontare della popolazione sono determinabili dalla storia passata di fecondità, sopravvivenza e migratorietà; in ciascun intervallo di tempo la struttura per età, combinata ai tre processi sopra indicati, determina l'incremento. Naturalmente queste popolazioni reali difficilmente possono essere riprodotte da semplici algoritmi, ma questo fatto ha scarsa importanza teorica. Tutti questi elementi possono poi ricondursi al concetto di riproduttività - che poi è analogo al concetto di fitness dei biologi e dei genetisti, definita come "la capacità dell'individuo o del gruppo di contribuire alla discendenza delle generazioni future" (v. Cavalli-Sforza e Bodmer, 1971, p. 290).
In pratica, riproduttività e fitness sono concetti sovrapponibili e rispondono alla domanda: un individuo (o un gruppo di individui), quanti altri individui riesce a portare all'età riproduttiva? La semplice riproduttività biologica può essere integrata dalla riproduttività sociale, e cioè dalla capacità dell'individuo o del gruppo di reclutare (o perdere) componenti non solo per via biologica, ma anche per via sociale (immigrazione, emigrazione).
3. Minimo, massimo e ottimo di popolazione
I concetti di minimo, massimo e ottimo di popolazione sono - nonostante le apparenze e l'inclusione in uno stesso capitolo - di natura diversa. Il primo ha, essenzialmente, un interesse bio-demografico; il problema è comprendere quali siano le dimensioni minime di una popolazione necessarie per assicurarne la continuità e - quindi - necessarie per sottrarla al rischio di estinzione. Il secondo, il concetto di massimo, ha una natura principalmente economico-ambientale: quali sono le dimensioni massime di una popolazione sostenibili da un ambiente finito? Esso è analogo - meglio, coincide - col concetto di 'portanza' o carrying capacity di un territorio; evoca, comunque, il tema dell'esistenza di un 'limite' superiore al popolamento e degli eventuali costi nel superarlo. Il terzo concetto - quello di ottimo - è prevalentemente culturale e in genere trattato sotto il profilo strettamente economico.
Abbiamo posto al centro dei meccanismi dinamici di una popolazione il concetto di riproduttività, che assicura - quando sufficiente - il rinnovo di una popolazione e la sua continuità nel tempo. Ma tale rinnovo può non esserci e la popolazione andare incontro all'estinzione - per esempio a motivo di una mortalità eccezionale. Una popolazione isolata e costituita da un numero di unità troppo esiguo è vulnerabile rispetto ai rischi connessi con le fluttuazioni della mortalità, che possono ridurre fortemente la popolazione in età feconda o alterare la composizione per sesso, compromettendo la successione delle generazioni; le fluttuazioni nel rapporto dei sessi alla nascita, dovute al caso, quando il numero delle nascite è esiguo possono provocare alterazioni nella struttura del mercato matrimoniale e ridurre eccessivamente le possibilità di scelta del coniuge. In genere, le ridotte dimensioni compromettono le possibilità di scelta del partner, riducono le possibilità di divisione del lavoro e di specializzazione delle funzioni sociali ed economiche.
Questi fattori, meramente bio-demografici alcuni, principalmente culturali altri, fanno sì che gruppi isolati di ridotte dimensioni siano più vulnerabili e corrano maggiori rischi di estinzione. Secondo Livio Livi le osservazioni non "danno nessun caso di gruppo demografico avente una certa autonomia sociale composto di meno di 100 persone e ci dicono che quelli composti da meno di 500 anime appaiono generalmente in una fase transitoria di declino o di rapida affermazione" (v. Livi, 1941, p. 196). Le prove storiche, etnografiche e antropologiche dell'insostenibilità di gruppi isolati e costretti all'endogamia sono molteplici: si va dalla constatazione degli insuccessi del popolamento di isole del Mediterraneo con piccoli aggregati, all'estinzione di gruppi autoctoni come gli abitanti della Tasmania nel secolo scorso, alla precarietà della sopravvivenza di gruppi iperfrazionati e dispersi. Per vie diverse, sulla base di microsimulazioni di popolazioni in cui vige il tabù dell'incesto, altri studiosi sono pervenuti ad analoghi risultati: per impedire rischi di declino la popolazione deve essere costituita da diverse centinaia di unità (v. Hammel, McDaniel e Wachter, 1979).
Risultati non dissimili vengono raggiunti anche dai genetisti, interessati al calcolo del minimo di popolazione necessario per mantenere una determinata varianza genetica (v. Ewens, 1990, p. 311).
Il concetto di minimo di popolazione è importante anche perché condiziona le forme di popolamento e di dispersione sul territorio. In società elementari, con impossibilità o difficoltà di comunicazione, il tessuto del popolamento, se a forma dispersa, deve essere costituito da unità relativamente numerose e autonome. Le dimensioni di questi gruppi possono essere via via più piccole man mano che i contatti divengono più facili e il grado di endogamia si abbassa.
Qual è il livello massimo di popolazione sostenibile da un determinato territorio? È questo un argomento che ha da sempre appassionato gli studiosi; al concetto di 'massimo' - analogo a quello di 'portanza' o carrying capacity (capacità di sostentamento) - si sono rifatti implicitamente tutti coloro che ritengono la Terra sovrappopolata o a rischio di sovrappopolamento. È fin troppo ovvio che sul massimo influiscono fattori naturali, tecnologici e sociali, e che quindi solo quando questi fattori vengono specificati è lecito avanzare valutazioni riferibili solo a quelle 'particolari condizioni' di disponibilità di risorse, capacità tecnologica, regole imposte dalla collettività e dalla società. I metodi utilizzati per calcolare il massimo di popolazione tengono conto per lo più solo delle limitazioni poste dalla capacità nutritiva della Terra; daremo qui un cenno di alcune valutazioni compiute nell'ultimo secolo con riferimento alla popolazione del mondo (v. Cohen, 1995). Alla fine del secolo scorso E.G. Ravenstein (v., 1891) calcolò la disponibilità di terre nei vari continenti, suddividendole in 'fertili', 'steppe' e 'deserti', e la loro possibile densità di popolamento, arrivando a una cifra di 5.994 milioni (per inciso, un ammontare che si dovrebbe effettivamente raggiungere prima del 2000).
Diverso è il procedimento utilizzato da Penck (v. Cohen, 1995) che, per stimare il massimo assoluto di 15,9 miliardi (ridotto più realisticamente da lui stesso a 8-9 miliardi), ha calcolato la produzione totale di alimenti moltiplicando la produzione possibile per unità di superficie (per le varie aree climatiche) per l'area totale; il numero massimo di abitanti si ottiene dividendo la produzione totale per le necessità nutritive medie di un'individuo. De Witt (v., 1967) utilizzò una metodologia simile a quella di Penck e si chiese quale sarebbe il massimo numero di abitanti della Terra se esso fosse condizionato solo dai processi di fotosintesi (che determinano la produzione vegetale) senza limiti di minerali e acqua: la sorprendente risposta è un milione di miliardi, per fotosintesi sola; ma siccome ogni abitante dovrebbe disporre di una spazio minimo per le sue attività (oltre quelle produttive alimentari, De Witt assume 1.500 m² a persona) la cifra si riduce a 79 miliardi, che vanno ridotti di un'altra decina di miliardi se non si vuol vivere di sola dieta vegetariana (ma di dieta mista con 200 g di carne al giorno).
Il messaggio di De Witt è interessante: i limiti al popolamento non sono connessi alla produzione di cibo, ma allo spazio di cui ogni persona necessita per vivere confortevolmente, per cui sarebbe possibile raggiungere una situazione di sovrappopolazione anche con un'adeguata produzione di alimenti. Con varianti e articolazioni, ma sostanzialmente con tecniche simili a quelle di Penck, Roger Revelle (v., 1976) giunge a una capacità massima di sostentamento di 40 miliardi di persone con una dieta vegetariana (o di 10 miliardi con una ricca dieta animale); Colin Clark (v., 1977²) giunge a valori pari a 48 miliardi con dieta ricca e 157 con dieta di mera sussistenza. Secondo V. Smil, infine, si potrebbe facilmente arrivare a sostentare 10 miliardi di persone mediante diminuzioni degli sprechi, migliori diete, una maggiore efficienza nelle tecniche produttive esistenti e una realistica mobilitazione delle risorse (v. Smil, 1994).
Il tentativo di stimare un massimo, anche supponendo che sia condizionato solo dalla disponibilità di alimenti, conduce a risultati molto lontani tra loro, solo in parte giustificabili dalle ipotesi assunte, dall'epoca in cui i tentativi sono stati fatti e dalle tecniche produttive allora disponibili. Se poi si prendono in conto altre variabili che sicuramente dovrebbero - almeno teoricamente - entrare nelle stime, allora la soluzione del problema diventa ancora più complicata. Da un lato esiste l'influenza limitativa di fattori e risorse naturali come lo spazio fisico (e la sua qualità), la disponibilità di acqua, la qualità dell'aria e la necessità che le attività umane di una popolazione crescente non le deteriorino. Dall'altro si pongono i vincoli dettati dalla cultura e legati a una qualità di vita della quale è una importante componente la densità del popolamento, sempre che le persone non desiderino vivere "folte e stivate come l'aringhe morte e disseccate nei loro barili" (v. Ortes, 1790).
Si supponga che esista, e sia calcolabile, un massimo di popolazione; una popolazione che cresce tenderà ad approssimare questo massimo, ma con una velocità diversa in funzione della distanza dal massimo stesso. Malthus (v. § 5a) osservò che la tendenza naturale delle popolazioni è di crescere con una forza costante, e che quindi il loro sviluppo è esponenziale (espresso dall'equazione P=ert, dove P è la popolazione, e è la base dei logaritmi naturali, r il tasso d'incremento, t il tempo). Tuttavia questa forza è moderata dallo stock di sussistenze; Adolphe Quételet tradusse il pensiero di Malthus immaginando che la resistenza o somma degli ostacoli opposta all'aumento illimitato della popolazione aumenta in proporzione del quadrato della velocità con cui la popolazione tende a crescere (v. Dupâquier e Dupâquier, 1985); Verhulst dette veste matematica all'idea di Malthus/Quételet scrivendo la seguente funzione che venne chiamata logistica (v. Verhulst, 1838):
tP=K/1+Ce-ht,
dove K rappresenta il massimo di popolamento raggiungibile, C è una costante, h il tasso d'incremento e t il tempo; al crescere di t il denominatore tende a 1 e la popolazione tende a K ma con incrementi via via decrescenti. La curva ha forma di una S allungata (v. fig. 2) e andamento simmetrico, col primo ramo convesso e il secondo ramo concavo verso il basso, con un punto di 'flesso' (quando gli incrementi assoluti in ogni unità di tempo cominciano a decrescere) quando la popolazione raggiunge la metà del massimo (K/2). La funzione logistica si adatta bene allo sviluppo di microrganismi in ambienti limitati (ad esempio la popolazione del moscerino della fermentazione, Drosophila melanogaster): il popolamento è veloce all'inizio, quando non vi sono limiti ambientali - di sussistenza, spazio, ecc. - allo sviluppo; man mano che questi limiti si manifestano, la velocità di accrescimento rallenta fin quando tende a stabilirsi un equilibrio tra ambiente e popolazione. Per la popolazione di umani le cose sono assai più complesse, per l'esistenza di fattori tecnici e culturali che mutano i limiti e pertanto il valore di K; tuttavia il principio teorico è un'utile guida interpretativa.
Un altro concetto dibattuto, fin da quando ci si è occupati di popolazione e delle sue relazioni con il benessere e la prosperità, è quello di 'ottimo' di popolazione: potremmo definirlo come quel livello di popolamento - beninteso con riferimento a un determinato territorio - nel quale il benessere individuale è massimo e verrebbe diminuito frazionalmente sia dall'aggiunta che dalla sottrazione di un individuo. La nozione di benessere è assai sfuggente e non si presta a definizioni oggettive; possiamo pertanto limitarci a considerare il benessere economico: in questo caso è ottima quella popolazione che massimizza il prodotto pro capite. Il concetto di ottimo è statico ed è quindi di limitata applicabilità (anche solamente teorica) a popolazioni che sono, essenzialmente, dinamiche. Poiché modi di organizzazione, conoscenze, tecnologie cambiano nel tempo è anche presumibile che - per una qualsiasi popolazione - l'optimum di oggi non coincida con quello di ieri o con quello di domani.
La determinazione dell'ottimo è forse impossibile e probabilmente inutile. Ma si immagini un determinato territorio - Alfred Sauvy (v., 1956², p. 59) fa il caso dell'Inghilterra - con certe risorse naturali e capitali: se i suoi abitanti sono pochi (supponiamo 100.000) il loro livello di vita sarà basso, perché non sapranno sfruttare convenientemente le risorse disponibili, né combinarle nella maniera più adeguata, né provvedersi delle infrastrutture che rendono più facile e conveniente vivere. Ma se sono troppi (supponiamo 1.000 milioni), anche in questo caso il livello di vita sarà basso, perché le risorse saranno insufficienti, si dovranno coltivare terre povere, lo spazio sarà carente, l'ambiente saturato. "Tra questi due estremi - dice Sauvy - debbono trovarsi posizioni intermedie più favorevoli; la più favorevole di tutte è chiamata ottima". Supponendo che i vari fattori rimangano costanti (risorse, tecniche, conoscenze), si può pensare che tra i due estremi la situazione prima migliori e poi declini per effetto di fenomeni (probabilmente sfasati) influenzati dalla numerosità della popolazione. Questi possono essere vari: i rendimenti della terra (decrescenti oltre certi limiti); le dimensioni del mercato, che esercitano effetti positivi sullo sviluppo economico fino a che ulteriori aumenti risultano ininfluenti; la divisione del lavoro, che migliora al crescere della popolazione; l'utilità che si ricava dalla vicinanza del prossimo, in aumento quando si è pochi e in diminuzione quando si è tanti; la qualità dell'ambiente, in diminuzione oltre certi limiti di popolamento.
Tutti questi elementi del benessere individuale (e altri ancora qui non esaminati) variano in maniera non coincidente in funzione della crescita della popolazione: deve esistere l'ottima combinazione di questi a un livello dato di popolamento.
La fig. 3 schematizza le relazioni tra dimensione della popolazione (in ascissa) e prodotto totale (PT), prodotto pro capite (indicatore del livello di vita, curva b) e produttività marginale (curva pt, derivata di PT o accrescimento della produzione grazie all'apporto di una persona aggiuntiva). Ebbene, la produttività marginale raggiunge il suo massimo nel punto m calando in seguito, e la sua intersezione con la curva b (prodotto pro capite) nel punto n corrisponde alla situazione di ottimo come è stata prima definita. La produzione totale PT continua invece ad aumentare fin che pt non divenga, eventualmente, negativa.
4. Le condizioni della crescita
Conviene adesso dare uno sguardo ad alcuni aspetti della crescita numerica della popolazione mondiale. Naturalmente gran parte delle stime riportate nella tab. II sono congetturali, o basate su indicatori reali ma frammentari o incompleti. È solo dal secolo scorso che si comincia ad avere un quadro statistico moderno e relativamente completo, pur con significative zone d'ombra. Supponendo che anteriormente al maturare delle culture del Paleolitico (30-35.000 a.C.) la popolazione non superasse qualche centinaio di migliaia di individui, la crescita nei 30.000 anni precedenti il Neolitico si sarebbe aggirata, in media, attorno a meno di 0,1 ogni 1.000 abitanti all'anno, una crescita quasi insensibile, con un tempo di raddoppio di 8-9.000 anni. Nei 10.000 avanti la nostra era, con il sorgere e il diffondersi delle culture del Neolitico del Medio Oriente e dell'Alto Egitto, il passo si accelera; l'incremento è pari a 0,4 ogni 1.000 abitanti (che implica un raddoppio in meno di 2.000 anni) e porta la popolazione da pochi milioni a 1/4 di miliardo all'inizio della nostra epoca. Questo ritmo d'incremento si consolida nei successivi 17 secoli e mezzo d.C.; la popolazione si triplica a 3/4 di miliardo alla vigilia della rivoluzione industriale, con un tasso d'incremento dello 0,6‰. Ma è la rivoluzione industriale che dà il via a un'accelerazione decisiva (il tasso d'incremento si moltiplica per 10) nei due secoli successivi (incremento del 6‰ e raddoppio ogni 116 anni), conseguenza di un rapido accumulo delle risorse, del controllo dell'ambiente, dei regressi della mortalità.
Questo processo culmina nella seconda metà del nostro secolo; nei quattro decenni successivi al 1950 la popolazione si raddoppia di nuovo (incremento del 18‰). La popolazione è lanciata a un tale ritmo che nonostante i segni di rallentamento dell'incremento, si raggiungeranno gli 8 miliardi verso il 2020.
Nella rappresentazione che se ne è data - basata, ripetiamo, su elementi largamente induttivi e congetturali - si rilevano due fasi di 'discontinuità' nella crescita caratterizzate da potenti accelerazioni. La prima si ha col passaggio dalle culture di caccia e raccolta a quelle agricolo-pastorali. Le ragioni di una possibile accelerazione sono controverse; alcuni (v. Childe, 1951) vi vedono il risultato di più stabili condizioni di vita e quindi di minor mortalità; altri ritengono (v. Armelagos e Cohen, 1983) che l'accelerazione sia dovuta a una maggiore fecondità legata alla stanzialità della donna non costretta agli spostamenti tipici della caccia e raccolta, mentre la mortalità avrebbe, semmai, avuto un peggioramento (alimentazione più povera e monotona, patologie infettive accresciute in insediamenti stabili con domesticazione di animali). Tuttavia un'altra possibilità è che la sopravvivenza dei gruppi di cacciatori e raccoglitori, generalmente isolati e di ridotte dimensioni, fosse a maggior rischio (v. § 3b) e che il successo (sopravvivenza) di alcuni gruppi fosse bilanciato dall'insuccesso (estinzione, dispersione) di altri, dando luogo a un tasso d'incremento aggregato debole. Col passaggio a culture agricolo-pastorali, il rischio d'insuccesso degli insediamenti sarebbe diminuito, determinando un'accelerazione delle dimensioni del popolamento.
La seconda fase di accelerazione si ha, come detto, in corrispondenza della rivoluzione industriale: i limiti della crescita delle economie rurali erano legati alla rigidità delle risorse naturali e alla limitata disponibilità di terra e di energia, prevalentemente di origine muscolare. Questi limiti vengono spezzati nella seconda metà del Settecento con l'invenzione di macchine efficienti per la conversione di materia inanimata in energia; la produzione si svincola dal fattore limitativo terra, la tecnologia applicata controlla l'ambiente, le malattie, moltiplica la produttività, accresce le risorse in genere. È presumibile che la popolazione del mondo contemporaneo debba fare i conti con un fattore limitativo di assai diversa natura: la compatibilità ambientale posta in pericolo sia dalla crescita del numero degli abitanti sia (soprattutto) dall'impatto della loro attività.
Quanto detto finora indica che la crescita della popolazione ha proceduto, per gran parte del suo percorso dalla transizione del Neolitico alla rivoluzione industriale, su un sentiero abbastanza stretto, con una natalità mediamente assai vicina alla mortalità; se si suppone che la seconda fosse - nei primi 17 secoli della nostra era - attorno al 40‰ annuo, allora la natalità deve essere stata del 40,6‰, cioè solo frazionalmente più elevata. Ma differenze anche piccole, sul lungo periodo, determinano grandi divari (lo 0,6‰ di crescita implica pur sempre un raddoppio della popolazione in 12 secoli); se applicate a popolazioni diverse creano il 'successo' di una e, eventualmente, il 'declino' di un'altra. È perciò importante capire le ragioni delle variazioni. Queste si comprendono meglio se si concepisce la variazione della popolazione come un continuo, faticoso processo di aggiustamento tra questa e le costrizioni del mondo in cui essa si sviluppa, mediate dalla capacità di 'autoregolazione' degli individui e delle collettività.
La fig. 4 riporta tre curve che sono anche tre modi di rappresentare l'evoluzione storica della popolazione mondiale. La prima rappresenta l'evoluzione della popolazione negli ultimi 10.000 anni su scala aritmetica: la crescita moderna appare improvvisa e insostenibile. La seconda riporta l'andamento dei tassi d'incremento nell'ultimo quarto di millennio ed evidenzia l'accelerazione avvenuta nel XX secolo ma anche la moderazione della crescita, forse irreversibile, nell'ultimo quarto di secolo. La terza esprime l'andamento schematizzato - su doppia scala logaritmica - della popolazione umana dalle sue origini, ed evidenzia le tre fasi del popolamento interrotte dalla rivoluzione del Neolitico e dalla rivoluzione industriale. Le ultime due curve moderano l'impressione di crescita ineluttabilmente catastrofica prodotta dalla prima.
Sono forze di costrizione clima, patologie, terra, energia, spazio, modi di insediamento. Queste forze hanno gradi variabili di interdipendenza, ma sono accomunate sotto due profili: il primo è costituito dalla loro rilevanza per il cambiamento demografico, il secondo dalla loro lenta modificabilità. Del primo aspetto - rilevanza sulla dinamica demografica - sono intuitivi, oltreché ampiamente dimostrati, i meccanismi. Lo spazio influenza i modi di insediamento umano (la loro densità, mobilità, ecc.) e da esso dipende la disponibilità di terra. Dalla terra derivano alimenti, materie prime e fonti di energia che condizionano il quadro di sopravvivenza di una popolazione. Il clima condiziona la fruibilità della terra, pone vincoli all'insediamento umano ed è correlato al sistema delle patologie. Queste ultime, collegate anche al sistema alimentare, hanno diretta rilevanza su sopravvivenza e riproduzione. Spazio e modi di insediamento sono collegati alla densità della popolazione e alla trasmissibilità delle patologie, crescente all'aumentare della densità.
Già da questi accenni si intuisce la complessità delle relazioni che legano tra di loro le grandi categorie delle forze di costrizione dello sviluppo demografico.Il secondo aspetto che accomuna le forze di costrizione è la loro non modificabilità (spazio, clima) o lenta modificabilità (terra, energia, alimenti, patologie, insediamenti) nell'arco di tempo rilevante per i comportamenti demografici, cioè la durata di una generazione o la durata della vita umana.
Queste forze sono dunque relativamente fisse, e i loro effetti possono essere modificati dall'azione dell'uomo solo molto lentamente. È evidente che le risorse alimentari ed energetiche possono essere accresciute con la messa a coltura di nuove terre e la modifica di tecniche e tecnologie; che gli effetti del clima possono essere attenuati da vestiario, alloggi e disponibilità di energia adeguati; che dall'aggressione di malattie ed epidemie ci si può difendere ostacolandone la diffusione e la trasmissione. Ma la messa a coltura di nuove terre, l'elaborazione e diffusione di tecniche e tecnologie, la diffusione di alloggi più efficienti per difendersi dalle intemperie, i modi di controllo delle patologie non si attuano dall'oggi al domani, ma necessitano di tempi lunghi. Nel breve e nel medio periodo (ma spesso anche nel lungo) la popolazione deve adattarsi a convivere con i fattori costrittivi.
Le popolazioni umane hanno capacità di scelta e di adattamento; la loro crescita è regolabile a fronte dell'azione dei fattori di costrizione. Del resto, i due periodi di accelerazione della crescita della storia dell'umanità (v. fig. 4c) indicano che all'allentarsi di alcune costrizioni le popolazioni hanno esercitato un'opzione di espansione.Possono considerarsi, in senso lato, fattori di scelta quei comportamenti, formati a livello sia individuale sia collettivo, che permettono di modulare la crescita demografica e che quindi determinano variazioni nei flussi di entrata - nascite, immigrati - e di uscita - morti, emigrati - di una popolazione. Tra i fattori di scelta i più evidenti sono quelli che influenzano il flusso delle nascite e che sono della più varia natura: lunghezza dell'allattamento, norme di comportamento sessuale, abortività, controllo delle unioni (matrimoni) attraverso la modulazione dell'età alle nozze o l'esclusione dalle stesse (nubilato, celibato), regolazione dei matrimoni successivi al primo, sistemi poligamici, ecc. In epoche storiche, anteriormente al diffondersi del controllo volontario delle nascite, le diverse combinazioni degli elementi sopra ricordati potevano far variare la natalità dal 25-30 al 45-50‰.
Mortalità e sopravvivenza sembra, invece, che siano deterministicamente comandate dal sistema stesso delle costrizioni (patologie, ambiente, alimentazione) e assai poco da comportamenti nel senso proprio del termine. Così è solo in parte: la decisione di investire nel benessere dei figli ha una rilevanza notevole sulla loro sopravvivenza e, quindi, sulla mortalità generale.
Aspetti estremi dell'assenza di investimenti parentali sono l'abbandono dei figli o le varie forme di infanticidio da trascuratezza; differenze della mortalità infantile secondo l'ordine di nascita e secondo il sesso mostrano anche l'esistenza di una 'graduazione' degli investimenti parentali che ha riflessi sulla mortalità. Infine la capacità di spostarsi, di insediarsi in altri territori, di confluire in altri gruppi è un altro fattore rilevante che ha condizionato in ogni tempo la variazione dei gruppi umani. La capacità di esercitare le 'opzioni' sopra esemplificate determina l'intensità di uso dei fattori di scelta che hanno permesso, in passato, di adattare la crescita ai fattori di costrizione. Questa capacità si è grandemente ampliata, negli ultimi due secoli, attraverso la diffusione del controllo volontario delle nascite e la possibilità di entrare in un'unione riproduttiva stabile modulando il numero dei figli.
Una estrema semplificazione del sentiero di crescita lungo il quale le popolazioni si sono sviluppate nel tempo si può trovare nella fig. 5. Con una certa semplificazione si può rappresentare il potenziale di crescita di una popolazione in funzione di due parametri: una misura della fecondità (numero medio di figli per donna: v. demografia, § 6c) e una misura della mortalità (speranza di vita alla nascita). Le curve tracciate, dette di isocrescita, rappresentano le diverse combinazioni possibili delle due misure che danno luogo a uno stesso tasso d'incremento (0, 1, 2%).
Nel grafico sono rappresentate schematicamente popolazioni storiche e popolazioni contemporanee. Le prime sono raggruppate in uno 'spazio' di crescita limitato, per lo più compreso tra lo 0 e l'1%. Ebbene, è all'interno di questo stretto sentiero che le popolazioni hanno esercitato le loro capacità di adattamento per gran parte della storia dell'umanità. La possibilità di modulare la crescita non è, naturalmente, assoluta e non si può dare per acquisita dalle popolazioni del passato un'innata capacità di autoregolazione o omeostatica, come spesso imprudentemente si dice. Quelle popolazioni, però, che hanno sviluppato migliori capacità di adattamento alle costrizioni esterne e al loro lento mutare - grazie all'esercizio di scelte - sono anche quelle che hanno subito costi minori.
Le popolazioni contemporanee hanno, invece, uno spazio e un sentiero di crescita molto più ampi di quelle storiche, compresi tra valori negativi e incrementi potenziali del 4% (un incremento che, se sostenuto, porta al raddoppio della popolazione in poco più di 17 anni). Ciò è dovuto da un lato al controllo della mortalità e dall'altro alla coesistenza di situazioni di assenza di controllo delle nascite (tipica, fino a qualche decina di anni fa, di tutti i paesi poveri) con situazioni di piena e diffusa capacità di limitarle. Tanto più alta la potenzialità di crescita, oggi determinata dall'abbassamento della mortalità, tanto più forte deve essere la capacità di scelta e di regolazione affidata, in epoca moderna, al controllo delle nascite.
5. Popolazione e risorse: modelli interpretativi
Nel 1798 T.R. Malthus espresse in forma compiuta (v. Malthus, 1798 e 1830) ciò che numerosi pensatori prima di lui avevano intuito: esiste una implicita contraddizione tra la forza di crescita di una popolazione - espressa da una funzione geometrica - e l'accrescimento delle risorse destinate a sostenerne i bisogni. Queste risorse - alimenti per nutrirsi, fibre per vestirsi, legno per costruire e produrre energia - sono tutte legate alla terra, e la terra esiste in quantità fissa; la loro espansione può avvenire solamente in progressione aritmetica ma è ostacolata dalla legge dei rendimenti decrescenti: per sfamare una popolazione in espansione, viene messa a coltura terra via via meno fertile il cui rendimento è progressivamente minore.
La forza generativa dell'umanità - che là dove la terra è abbondante, la proprietà libera e le condizioni di vita favorevoli, come nel Nordamerica, porta a un raddoppio ogni 25 anni della popolazione - finisce per scontrarsi con la scarsezza delle risorse la cui espansione è ostacolata dai rendimenti decrescenti e dalla mancanza di terra. Debbono pertanto inevitabilmente intervenire dei freni alla crescita che Malthus chiama 'repressivi' (positive in inglese): carestie, malattie o guerra riducono la popolazione (com'era avvenuto durante il grande ciclo della peste medievale o durante la guerra dei Trent'anni) e ristabiliscono l'equilibrio con le risorse. Ma questo equilibrio viene presto rotto dall'insorgere di un altro ciclo di crescita e di brusco arresto, a meno che la popolazione non trovi qualche altro modo di frenare la propria crescita. Ciò può avvenire mediante i freni 'preventivi', e virtuosi, che Malthus ravvisava nel celibato e nel ritardo del matrimonio. Queste pratiche riducono la riproduttività, e quindi la crescita, delle sagge popolazioni che se ne avvalgono. Il destino della popolazione, pertanto, dipende dall'esito della scelta tra freni repressivi e freni preventivi, tra condotta disordinata e comportamento responsabile, tra l'essere vittime della costrizione e della necessità o l'essere attori di una scelta attiva.Il modello malthusiano, nelle successive revisioni che ne fecero lo stesso Malthus o i suoi seguaci antichi e moderni, contiene quattro principî cardine che si possono così sintetizzare.
1. La risorsa primaria è il cibo, la sua scarsità è provocata dall'aumento della popolazione, attraverso una diminuzione dei salari reali e del livello di vita; la scarsità determina un aumento della mortalità, il rallentamento o l'inversione della crescita e il ritorno all'equilibrio.
2. La legge dei rendimenti decrescenti è ferrea. La messa a coltura di nuova terra e l'intensificazione del lavoro in risposta alla crescita demografica aggiungono progressivamente incrementi più piccoli per ciascuna unità aggiuntiva di terra e di lavoro.
3. Gli aumenti di produzione o di produttività determinati da innovazioni o invenzioni danno solo un sollievo temporaneo, poiché ogni guadagno viene riassorbito dalla crescita della popolazione.
4. La conoscenza del circolo perverso crescita-freni repressivi può indurre la popolazione a mettere in atto i freni preventivi per limitare la riproduttività e la crescita.La storia europea fornisce numerose prove della validità dello schema malthusiano. Il benessere delle popolazioni era strettamente legato alla produzione agricola, le cui oscillazioni spesso violente (per cause meteorologiche o sociali) determinavano altrettanto violente oscillazioni dei prezzi, carestia, fame e l'insorgere di forme epidemiche con alta mortalità. Così, nelle popolazioni europee era frequente l'insorgere di carestie al ritmo di 3, 4 o più per secolo con forti punte di mortalità: la ricorrente eliminazione di 'eccedenti' demografici per mezzo delle crisi di mortalità è una delle prove su cui si appoggia la teoria malthusiana (v. Livi Bacci, 1993²). C'è anche qualche prova che in aree più povere le carestie avessero frequenza e gravità maggiori, a sostegno ulteriore dello schema malthusiano.
Una prova più convincente della validità di quest'ultimo proviene dalle tendenze di lungo periodo dei prezzi alimentari (generalmente il grano o altri cereali da cui provenivano tra i due terzi e i tre quarti del fabbisogno calorico) che, nella storia europea, sono correlati nelle grandi tendenze cicliche all'andamento della popolazione (v. fig. 6). Ciò significa che nei periodi di crescita demografica aumentava la domanda di alimenti, ma la scarsità di terra ne faceva aumentare il prezzo, determinando un deterioramento delle condizioni di vita; il contrario avveniva nei periodi di ristagno o caduta demografica: riducendosi la domanda e i prezzi, si determinava un miglioramento del sistema di vita. È esattamente ciò che ci si attende dal modello malthusiano. Questo legame popolazione-prezzi si spezza con l'affermarsi della rivoluzione industriale, la forte crescita di produttività che ne segue, l'accrescimento delle importazioni a basso prezzo dall'Est europeo e dal Nordamerica.
Radici lontane ha l'opinione speculare a quella di Malthus, secondo la quale è l'aumento della popolazione la molla dello sviluppo. Gli economisti del XVII e XVIII secolo, spaventati dalle conseguenze economiche negative legate allo spopolamento di alcuni paesi (particolarmente Germania e Spagna) e convinti che la povertà di molti altri paesi, pur ricchi di possibilità, fosse connessa con lo scarso popolamento, erano favorevoli alla crescita demografica (v. Schumpeter, 1954). In popolazioni esigue o sparsamente insediate lo sviluppo può essere lento perché le scarse dimensioni demografiche non permettono né divisione del lavoro, né specializzazione delle funzioni, né nascita di un mercato efficiente, né sorgere di infrastrutture. Meno facile è capire i meccanismi che determinano, anche al di sopra di soglie minime, un'associazione positiva tra crescita demografica e sviluppo e per quali ragioni una crescente pressione demografica sulle risorse possa porre le premesse dello sviluppo, in antitesi al pensiero malthusiano.
Ester Boserup (v., 1965) ne ha spiegato le ragioni con riferimento alle popolazioni agricole. La geografia degli insediamenti, ad esempio, mostra che le zone più fertili, facilmente irrigabili, sono quelle con maggiore densità di popolazione e che la densità diminuisce nelle aree via via meno adatte alla coltivazione; da questa osservazione si deduce che la fertilità è la causa e la densità l'effetto. Per Boserup il discorso va rovesciato: è l'accrescimento della popolazione che genera le condizioni per l'adozione di tecniche di sfruttamento del suolo via via più intensive e quindi la crescita della popolazione e della densità sono la causa, e non la conseguenza, dei mutati metodi di coltivazione.
Vi sarebbe una continua evoluzione dei metodi di coltivazione adottati in conseguenza del crescere della popolazione e quindi della necessità di aumentare la produttività per unità di terra. Si passerebbe così dall'elementare coltivazione col taglia e brucia, che richiede poi un abbandono ventennale del terreno per ricostituirne la fertilità, a cicli di lavorazione via via più brevi con periodi di riposo del terreno sempre più corti, fino all'eliminazione del riposo annuale o a più raccolti in un anno. Questa intensificazione delle tecniche di lavorazione implica anche una intensificazione del lavoro per sistemare la terra, estirpare erbacce e parassiti, concimare, irrigare. Aumenta anche il tempo di lavoro, e benché aumenti la produttività del suolo (cioè il prodotto per unità di terreno) così non è per la produttività del lavoro (produzione per persona-tempo) che in certe fasi storiche può anche declinare.
Quando, insomma, il popolamento si fa troppo elevato in rapporto alla terra disponibile, gli agricoltori sono 'costretti' a utilizzare nuove tecniche di lavoro più onerose che permettono, con un crescente lavoro individuale, di ottenere una maggiore produzione dalla terra disponibile.
La transizione del Neolitico, secondo l'interpretazione di Mark Cohen (v., 1977), sarebbe avvenuta sotto la spinta della crescita demografica dei gruppi di cacciatori e raccoglitori, costretti a modi di vita stanziali. Prove concrete della teoria della Boserup si hanno anche da economie di paesi in via di sviluppo contemporanei, dove la diffusione delle colture intensive sotto la spinta della crescita demografica ha portato a un aumento della produttività del suolo, ma anche a una lieve diminuzione della produttività del lavoro (v. Pingali e Binswangen, 1987). Vi sono popolazioni che non adottano sistemi più intensivi non perché non li conoscano, ma perché la sufficiente disponibilità di terra non ne rende conveniente l'adozione. Il processo è anche reversibile: in periodi di declino demografico (come in Europa dopo la grande peste) si notano regressi tecnici e un ritorno a modi estensivi di coltivazione; lo stesso si nota in gruppi immigrati, possessori di tecniche avanzate ma costose in termini di lavoro, abbandonate in favore di tecniche estensive in presenza di abbondanza di terre (coloni europei nelle due Americhe).
6. Popolazioni contemporanee: situazioni e prospettive
Si usa definire 'transizione demografica' il processo di passaggio da un equilibrio di natalità e mortalità su alti livelli (corrispondenti, all'incirca, a un numero di figli per donna superiore a 5 e a una speranza di vita alla nascita inferiore a 40) a un altro equilibrio su bassi livelli (fecondità attorno a 2 figli per donna, speranza di vita di 70 anni o più). La transizione è un processo che si è avviato nei paesi europei o di origine europea verso la fine del XVIII secolo e si è praticamente concluso nella seconda metà dell'attuale; nei paesi in via di sviluppo il processo è assai più recente, prende le mosse per lo più nella parte centrale di questo secolo ed è tuttora in corso. Il processo di transizione, che è una componente integrale dello sviluppo moderno, ha avuto una cadenza temporale assai differenziata nei paesi che oggi chiamiamo sviluppati in ragione del diverso gradiente dello sviluppo stesso - come del resto sta avvenendo nel mondo povero. È utile spiegare brevemente i meccanismi della transizione, per poi illustrarne gli specifici fattori causali.
I meccanismi formali della transizione sono semplicissimi, e illustrati nella fig. 7a. Essa solitamente consiste in una diminuzione della mortalità seguita, con ritardo, da una diminuzione della natalità e da un aumento dell'incremento naturale (differenza tra natalità e mortalità) finché la pendenza della prima curva supera quella della seconda; una volta raggiunto il massimo, l'incremento naturale tende a comprimersi, perché la diminuzione della natalità avviene più velocemente di quella della mortalità, fino al ripristino di un equilibrio analogo all'originario. La fig. 7b mostra schematicamente il risultato della transizione sull'incremento delle popolazioni ricche (esso raggiunge un massimo dell'1% circa verso l'inizio di questo secolo) e sulle popolazioni povere (che raggiungono un massimo del 2,5% verso gli anni sessanta e settanta).
L'incremento delle popolazioni povere durante la transizione è assai maggiore di quello raggiunto prima dalle nazioni ricche perché il declino della mortalità è stato molto più rapido nelle prime, avvalendosi di un trasferimento - compresso nel giro di pochi decenni - di tecnologie medico-sanitarie lentamente accumulate in due secoli nel mondo sviluppato. Tuttavia, nell'arco di questo periodo durante il quale si compie il ciclo moderno, le popolazioni sviluppate si sono all'incirca quadruplicate di numero.
Le interpretazioni della transizione possono farsi sia a livello micro, di decisioni individuali e familiari, sia a livello macro. Un requisito della transizione sembra essere, ovunque, un declino della mortalità che assume una funzione catalizzatrice. Nei paesi ricchi esso inizia - nell'Europa centrosettentrionale - verso la seconda metà del XVIII secolo; nei paesi poveri - in ragione anche della scarsezza di dati - è assai più difficile diagnosticarne l'origine. Ancora all'inizio degli anni cinquanta, la speranza di vita di Cina e India non superava i 40 anni - un livello che molti paesi europei avevano superato cento anni prima. L'avvio del controllo della mortalità in Europa va attribuito a un mix di fattori che vanno dall'attenuazione delle carestie, al rarefarsi delle grandi crisi epidemiche, al miglioramento del livello di vita nelle sue componenti di base - alimentazione, igiene, vestiario, alloggio - alle prime efficienti scoperte mediche (vaccino contro il vaiolo). Quali che siano le ragioni del declino della mortalità, i suoi effetti possono essere esaminati - come detto - a livello macro e a livello micro. A livello aggregato la diminuzione della mortalità determina l'accelerazione della crescita e, in conseguenza dell'aumentata pressione sulle risorse, stimola i meccanismi riequilibratori abbassando la nuzialità e controllando le nascite. È, questo, un adattamento del modello malthusiano, dove l'adeguamento della popolazione alle risorse avviene mediante il freno alla crescita indotto da una natalità sempre più svincolata dal fattore biologico e sottoposta al controllo individuale (che Malthus non aveva preso in considerazione).
Questa spiegazione aggregata bene si integra con quella che se ne dà a livello micro, individuale o familiare. La diminuzione della mortalità determina - a parità di fecondità - un aumento del numero dei figli sopravviventi per coppia, e quindi un costo aggiuntivo. Il contemporaneo processo di sviluppo (solitamente accompagnato da fenomeni di urbanesimo, abbandono delle attività agricole, alfabetizzazione, ecc.), stimola la propensione a investire sui figli in termini di salute e istruzione, mentre l'abbandono delle attività agricole priva le famiglie di un apporto economico che i figli anche giovanissimi possono fornire. Il costo-opportunità dei figli aumenta in presenza di un mercato del lavoro aperto al contributo femminile. Questo insieme di forze spinge alla riduzione della natalità e determina il sorgere e il diffondersi del controllo delle nascite. La transizione avviata dal declino della mortalità si autoalimenta fino al suo esaurimento.
Le popolazioni che per semplicità qui si chiamano ricche (nel gergo internazionale 'popolazioni sviluppate', includendo quelle europee, del Nordamerica, del continente australe, oltre che del Giappone e alcune popolazioni più piccole del Sudest asiatico) hanno oramai compiuto la loro transizione demografica, hanno raggiunto bassi livelli di fecondità e di mortalità, il loro tasso d'incremento naturale (in assenza di migrazioni) si approssima allo zero; in molti paesi europei, Italia inclusa, è addirittura negativo (anno 1994). Per le proprietà formali descritte (v. sopra, cap. 2), l'attenuazione della natalità avvenuta durante gli ultimi tre decenni e la contemporanea ulteriore diminuzione della mortalità alle età anziane sta provocando un rapido processo d'invecchiamento.
Nell'insieme delle popolazioni sviluppate (v. tab. IV) che nel 1950-1955 avevano un numero di figli per donna di 2,8, questi sono scesi nel 1990-1995 a 1,7, ben al di sotto del livello di sostituzione; la speranza di vita nello stesso periodo è cresciuta da 66 a 74 anni e per le donne ha ormai sensibilmente superato gli 80 anni in molti paesi; la proporzione degli anziani, superiore al 7% quarant'anni fa, ha oltrepassato il 13%. Nel quadro mondiale le popolazioni oggi definite ricche rappresentavano nel 1950 circa un terzo della popolazione del pianeta, tra un quarto e un quinto nel 1995.
Queste modificazioni hanno conseguenze complesse sulla vita sociale ed economica; in estrema sintesi si può dire che per lunga parte del processo di transizione le modificazioni demografiche avvenute sono state largamente favorevoli allo sviluppo, mentre negli ultimi decenni vi è stata un'attenuazione e un'inversione del loro ruolo.
Tra i fattori favorevoli vanno senza dubbio annoverati la diminuzione della mortalità e il miglioramento della salute; la diminuzione della fecondità con 'liberazione' di energie - particolarmente della donna - prima completamente assorbite dalla riproduzione; l'aumento degli investimenti parentali, l'aumento della mobilità, una struttura per età relativamente giovane con un rapporto favorevole tra anziani e adulti. Attualmente il forte allungamento della vita nelle età anziane rischia di non comportare un proporzionale aumento degli anni vissuti in buona salute e crea un potenziale peso per la collettività; la bassa natalità altera il rapporto numerico tra generazioni e implica crescenti trasferimenti dalle classi di età produttive (in ristagno o in diminuzione) a quelle inattive (in forte crescita); l'invecchiamento ha influenze non positive sulla mobilità e flessibilità della forza di lavoro. Si tratta di mutamenti che sono, beninteso, graduali e ai quali la società può facilmente adattarsi, limitandone il costo; tuttavia il fattore demografico appare, alla fine di questo secolo, come una forza che contrasta, anziché assecondare lo sviluppo.
Nelle popolazioni in via di sviluppo, o povere, che costituiscono i quattro quinti della popolazione mondiale attuale, le caratteristiche demografiche variano enormemente, in ragione della cadenza diversa che vi ha preso la transizione demografica (v. fig. 7a): a un estremo si trovano popolazioni come quelle dell'Africa subtropicale, dove la fecondità è ancora naturale, il controllo volontario assente, la speranza di vita molto bassa; all'altro estremo si pongono altre popolazioni che hanno percorso la transizione quasi completamente, come quella della Cina e altre del Sudest asiatico o dell'America Latina. Tra i due estremi sta una gamma di situazioni in continuo movimento per l'estrema velocità dei fenomeni che si vanno producendo (v. tab. IV).
Qualche dato per illustrare le tendenze: la speranza di vita stimata per l'insieme dei paesi poveri era pari a 41 anni nel 1950-1955, un livello che molti paesi europei avevano superato un secolo prima. Ma i progressi sono stati veloci e nel 1990-1995 la speranza di vita ha toccato i 63 anni; le differenze sono tuttavia ancora notevoli anche tra grandi regioni continentali: da un minimo di 53 anni a circa 70 per zone dell'Asia e per l'America Latina. Nell'insieme i miglioramenti sono stati molto veloci e più rapidi di quanto non sia mai avvenuto nella storia dei paesi ricchi. Ma la spiegazione non è difficile: il capitale di conoscenze e tecnologie in campo biomedico, accumulato lentamente dall'Occidente in un secolo e mezzo, aveva avuto scarsa penetrazione nel mondo povero; questa penetrazione cresce rapidamente a partire dal quarto e dal quinto decennio di questo secolo (in certi casi paradossalmente sospinta dalla seconda guerra mondiale e dalla necessità di proteggere le truppe occidentali in Africa e Asia). Il trasferimento di tecniche e farmaci (si pensi agli antibiotici e al DDT) provoca la veloce caduta della mortalità prima ricordata. L'abbassamento della fecondità non è stato altrettanto rapido: all'inizio degli anni cinquanta il numero medio di figli per donna nel mondo povero è pari a 6,1; un ventennio più tardi il livello è ancora lo stesso, ma all'inizio degli anni novanta si è abbassato notevolmente a 3,5. Questa media, naturalmente, nasconde grandi variazioni cui prima si è accennato: se in Cina la fecondità è scesa sotto il livello di rimpiazzo (1,95) e in America Latina a 3,1 figli per donna, essa rimane molto alta in Africa (5,8) e in larghe parti dell'Asia. La conseguenza di questo andamento differenziato delle due grandi componenti della dinamica demografica sta nell'accelerazione del tasso d'incremento, che già all'inizio degli anni cinquanta toccava il 2%, superava il 2,5% alla fine degli anni sessanta, per poi cominciare una lenta discesa che lo porta, all'inizio degli anni novanta, all'1,9%.
Il mondo povero è dunque in rapida transizione; le indagini più recenti (v. DHS, 1995) indicano che perfino in diverse aree dell'Africa subsahariana i comportamenti riproduttivi cominciano a mutare, anche se limitatamente ai ceti istruiti, o urbanizzati, o inseriti nel mercato del lavoro formale. Ma sulla lunghezza della transizione, se essa porterà a regimi demografici in equilibrio, se si attenueranno le grandi differenze strutturali tra paesi e regioni, non vi sono certezze.
Che la popolazione del mondo sia avviata verso una fase di moderazione del tasso d'incremento si deduce chiaramente dalle tendenze esaminate in precedenza. Le Nazioni Unite effettuano, con regolarità biennale, articolate previsioni demografiche per paesi, regioni e continenti incorporando i dati che via via si rendono disponibili. Le ultime previsioni (v. UN, 1994) si estendono fino al 2050: tuttavia, nonostante l'inerzia dei fenomeni demografici, previsioni che si spingano aldilà dell'arco di un trentennio (la durata di una generazione) accumulano troppi elementi di incertezza per costituire una guida affidabile per il futuro. Esaminiamo dunque l'orizzonte all'anno 2025: la popolazione mondiale dovrebbe - in quell'anno - toccare gli 8,3 miliardi (contro i 5,7 di oggi); il tasso d'incremento annuo dovrebbe scendere dall'1,6% attuale a circa l'1%.
La fecondità dovrebbe continuare la sua discesa fino a toccare - al termine del periodo esaminato - il livello di sostituzione (2,1 figli per donna) in gran parte dei paesi del mondo; la speranza di vita continuerà a crescere e il divario tra paesi ricchi e paesi poveri dovrebbe restringersi fortemente.
Poiché l'incremento, nelle varie aree, continuerà a essere differenziato, il peso demografico delle stesse andrà modificandosi; il mutamento più rilevante concerne il continente africano, la cui popolazione, che oggi rappresenta il 12% della popolazione mondiale, dovrebbe costituire quasi il 19% nel 2025. D'altro canto la quota di popolazione dei paesi che oggi definiamo sviluppati diminuirebbe dal 22,7% attuale al 16,6%.
Prima di passare a individuare alcuni dei problemi fondamentali del prossimo trentennio - è quasi certo che la popolazione mondiale nel 2025 si situerà tra 8 e 9 miliardi - possiamo 'esplorare' altre ipotesi che riguardano l'intero prossimo secolo (v. UN, 1992). Se le ipotesi di abbassamento della fecondità sopra illustrate si realizzassero, il probabile prolungamento del fenomeno al resto del secolo farebbe crescere la popolazione del mondo fino a 11,2 miliardi nell'anno 2100; se invece i 'parametri' attuali rimanessero invariati (ipotesi del tutto irreale perché abbiamo visto che il mutamento in corso è rapidissimo), la popolazione mondiale crescerebbe fino a 11 miliardi nel 2025, a 21 nel 2050 e raggiungerebbe l'astronomica cifra di 109 miliardi nel 2100. Se, infine, comportamenti compatibili con la stazionarietà fossero assunti istantaneamente e mai più abbandonati (2,1 figli per donna), la popolazione crescerebbe, per inerzia dovuta alla sua attuale struttura assai giovane, fino a 7,1 miliardi nel 2025 e a 8,4 nel 2100.
È stato affermato (v. § 6b) che nei paesi ricchi l'evoluzione demografica dei prossimi decenni non favorirà, come nel passato, lo sviluppo. Ciò non si può dire del tutto per il mondo povero nel quale - paradossalmente - i futuri 'guadagni' di sopravvivenza e il connesso miglioramento del livello di salute dovrebbero essere potenti leve di sviluppo sociale. Ma restano gli enormi problemi posti da una crescita che in molte aree è ancora del 2 o 3% all'anno, a fronte della quale non è agevole mantenere un flusso sufficiente di investimenti, assicurare un adeguato sviluppo delle risorse umane, mantenere una società ordinata. Inoltre la crescita dimensionale delle popolazioni crea, oltre certi limiti, 'perdite' e 'diseconomie' di scala. Le difficoltà di gestione delle grandi megalopoli aumentano non proporzionalmente ma esponenzialmente rispetto alle loro dimensioni. La complessità dei programmi contro la povertà, contro l'emarginazione, contro l'analfabetismo cresce al crescere del numero dei poveri, degli emarginati, degli analfabeti.
In molte parti del mondo - per esempio in Africa - sebbene l'incidenza percentuale della povertà ristagni o receda, il numero dei poveri continua ad aumentare per la fortissima dinamica demografica.
Il mutamento delle relazioni tra crescita della popolazione e sviluppo non è il solo elemento che invita alla prudenza in questa fase storica. La questione ambientale induce a moderare la crescita demografica - ma non per il timore dell'esaurimento delle risorse materiali che sono alla base del benessere, secondo le tesi sostenute dal Club di Roma nei suoi influenti lavori sui "limiti dello sviluppo" (v. MITClub di Roma, 1972).
Lo sviluppo dell'ultimo secolo ha mostrato che il progresso tecnico fornisce al sistema economico una grande flessibilità che permette la sostituibilità delle risorse, utilizzando al posto di quelle che divengono scarse e crescono di prezzo altre materie prime più abbondanti e meno costose. Anche per la produzione di alimenti, che pur deve espandersi proporzionalmente al crescere della popolazione, una migliore organizzazione dei fattori produttivi oggi in uso, un calo degli sprechi e una moderata diffusione del progresso tecnologico già acquisito permettono di guardare senza troppa apprensione al prossimo secolo (v. Smil, 1994). Ciò che invece non è ben valutabile è l'impatto negativo che lo sviluppo demografico, coniugato con la necessaria crescita del benessere materiale di tanta parte dell'umanità, può avere sul bene comune che chiamiamo ambiente. In prospettiva, particolarmente nelle società ricche, si può accelerare la "dematerializzazione" della produzione, ovvero diminuire, in termini di materie prime ed energia, il contenuto di ogni unità di prodotto; si possono gradualmente mutare gli stili di vita e renderli meno dipendenti da risorse materiali.
Tuttavia ciò che può valere, in prospettiva, per le società ricche non vale per quelle povere. Per le prime l'impatto ambientale provocato dalla combinazione della crescita demografica (tendente a zero) e della crescita economica (in via di dematerializzazione) può stabilizzarsi e collocarsi su un piano di sostenibilità. Ma per le società povere la sostenibilità dello sviluppo non è possibile, almeno per lungo tempo. La loro crescita demografica nel prossimo trentennio si avvicina a 2,5 miliardi, e questa popolazione in aumento aspira a miglior alimentazione, più congruo vestiario, migliori abitazioni, più spazio per vivere, più beni capitali a disposizione per mettere a frutto il suo lavoro. In altri termini: cereali e carni; lana, fibre e pelli; legname, cemento e ferro; minerali, metalli ed energia. Tanto più basso è il livello di vita, tanto maggiore è l'intensità di risorse materiali incorporate in ogni unità di prodotto. I 2 miliardi di persone che oggi sopravvivono con un potere d'acquisto pari a 1 dollaro al giorno aspirano a moltiplicare il loro livello di vita per tre, quattro, cinque o più volte nel corso della prossima generazione. Il mondo povero crescerà con un tasso molto elevato di utilizzo delle risorse non rinnovabili e - in un ambiente finito - ogni tasso di crescita positivo (di popolazione, di utilizzo di spazio, di impiego di risorse non rinnovabili) è per definizione 'insostenibile' perché porta a valori incompatibili o impossibili.
La grande maggioranza della popolazione povera vive in paesi dove è oramai accettata l'idea che la crescita demografica sia troppo rapida e vada moderata, eventualmente con l'ausilio di politiche che accelerino la riduzione della natalità. Queste politiche debbono, certamente, esplicarsi sul lato dell'offerta di servizi adeguati per la pianificazione familiare e la diffusione della contraccezione. Ma una politica dell'offerta non basta e occorre che muti anche la 'domanda' di figli espressa dalle famiglie, e che queste siano indotte a investire maggiormente sui figli sostituendo qualità a quantità. Quando lo sviluppo è accompagnato da forti investimenti nell'istruzione, da civili regole che limitano il lavoro dei minori, da un sostegno all'emancipazione della donna e al suo ingresso nel mercato del lavoro, dal formarsi di un embrione di sistema previdenziale e - preliminare per ogni modello di sviluppo - dal rafforzamento del sistema sanitario di base per il miglioramento della qualità della sopravvivenza, la domanda di figli tende a moderarsi più facilmente.
(V. anche Anziani; Demografia; Fecondità; Migratori, movimenti; Mortalità; Natalità; Nuzialità).
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