Aborto
Per aborto si intende tradizionalmente l'interruzione della gravidanza intervenuta prima che il feto abbia raggiunto lo stadio di sviluppo in cui può sopravvivere separato dalla gestante. L'aborto comporta la perdita dell'essere umano in gestazione. L'interruzione prematura della gravidanza, con la perdita dell'essere umano in gestazione, è talvolta cagionata da fattori indipendenti dalla volontà dell'uomo e risalenti a fenomeni naturali patologici. Statisticamente l'incidenza degli aborti spontanei sul numero delle gravidanze iniziate non sembra sia molto alto. Secondo calcoli approssimativi pare si aggirasse, una decina d'anni fa, nei paesi dell'area atlantica, sul 10%. Gli aborti spontanei interessano prevalentemente le scienze mediche, che ne studiano le cause e i possibili mezzi terapeutici di prevenzione: mezzi che, col progresso della medicina, tendono a restringerne sempre più il numero. Per le scienze sociali l'aborto che riveste importanza è soprattutto quello cagionato da atti umani volontari: l'aborto procuratosi intenzionalmente dalla gestante, o procurato da altri col consenso di lei, o anche contro la sua volontà. Questo tipo d'aborto ha rilevanza statistica molto maggiore di quella dell'aborto spontaneo, una rilevanza peraltro difficilmente calcolabile con sicurezza. Dipendendo da azioni volontarie dell'uomo, esso pone inevitabilmente il problema della valutazione che i singoli e la collettività ne danno, o dovrebbero darne, e investe pertanto le sfere della morale, del diritto, della politica.
Sul piano della valutazione morale le diverse culture succedutesi nel tempo sulla superficie della terra hanno dato e danno dell'aborto procurato diverso giudizio. Scontata in genere la riprovazione dell'aborto cagionato contro la volontà della donna (o almeno della famiglia di lei), differente è l'atteggiamento nei confronti dell'aborto che la donna stessa determina o a cui consente (il cosiddetto aborto volontario). Nell'area europea una riprovazione severa e rigorosa dell'aborto volontario divenne la regola da quando il cristianesimo permeò di sé la cultura dei popoli di quell'area alla fine del mondo classico. Il cristianesimo, nel solco della tradizione ebraica e sulla base di una rielaborazione della teoria dualistica dell'uomo esposta da Platone nel Fedone, ravvisò subito in quel tipo di aborto un gravissimo peccato, in quanto soppressione di un essere (il concepito) in cui corpo e anima sono già uniti e in cui la componente spirituale, destinata all'immortalità, è il prodotto di un atto creativo diretto di Dio. Nelle prospettive della concezione cristiana non potevano non perdere ogni rilievo considerazioni relative a diritti di disposizione che la donna o la sua famiglia, o eventualmente la collettività, potessero accampare sulla vita del concepito in ordine alla realizzazione di propri interessi: considerazioni che avevano trovato un certo vario riconoscimento nella precedente cultura greca e romana (come si può vedere per esempio in Aristotele e Plinio, essendovi peraltro in quella cultura anche chi condannava rigorosamente l'aborto: si pensi ad esempio a Ippocrate, col suo famoso giuramento dei medici), ma che dovevano per forza recedere di fronte alla persuasione che solo a Dio spetta di togliere la vita a esseri innocenti cui egli ha infuso un'anima immortale.
La condanna assoluta dell'aborto volontario - giustificata sulla base di codesta concezione teologico-ontologica della natura del concepito - è restata la norma quasi incontestata della morale europea e occidentale fino a tempi molto recenti. Nel Medioevo, e per lungo tratto dell'età moderna, la dottrina cristiana equiparava l'aborto volontario all'omicidio a partire dal momento in cui il feto dava segni di vita nel grembo materno (perché si riteneva che l'infusione dell'anima avvenisse solo a un certo stadio di avanzamento della gravidanza e che con essa cominciassero i movimenti del feto: in questo senso cfr. Tommaso d'Aquino, Summa Theologica, I, Q. 118, artt. 1-3). La rilevanza dell''animazione' è venuta peraltro attenuandosi col tempo, agli effetti della valutazione morale, nell'ambito del pensiero cristiano, in quanto prevalse l'opinione che il concepito sia nel senso pieno 'persona' (sinolo di corpo e anima) fin dal momento del concepimento.
Con l'avvento dei processi di 'secolarizzazione' culturale (XIX secolo) cominciarono a farsi strada in Occidente valutazioni del fenomeno diverse da quella datane dalla tradizionale concezione cristiana. Robuste correnti di pensiero 'laico' ammisero la liceità dell'aborto volontario nei casi in cui gravi motivi (la tutela della vita e della salute della madre, la malformazione del concepito, ecc.) potessero consigliarlo. La critica rivolta da molti settori del pensiero contemporaneo alla concezione dualistica della natura dell'uomo e dell'immortalità dell'anima ha facilitato il disgregarsi della norma dell'assoluta condanna di quel tipo di aborto nella morale dei popoli occidentali.
Attualmente la prevalente opinione della cultura non legata a fedi religiose ritiene che la qualità di 'persona' (alla quale si riconnette in genere il dovere di rispettare la vita umana) venga acquistata dall'organismo umano al momento della nascita (v. Bondeson e altri, 1983; v. Sumner, 1981; v. Hall, 1970): onde non viene data valutazione di principio negativa della decisione della donna di abortire, e per alcuni addirittura la scelta della donna di non portare a termine la gravidanza rientra nella sfera della sua piena libertà e generalmente non può andar soggetta ad alcuna limitazione di carattere etico (mentre v'è pure chi, spingendosi oltre e negando che la nascita comporti di per sé l'acquisto di un diritto alla vita, pensa che anche l'infanticidio, deliberato dalla donna o dalla comunità, in determinate circostanze debba ritenersi atto eticamente legittimo: v. Tooley, 1985). L'evoluzione nel senso ora detto del pensiero laico non ha influito sulla dottrina ufficiale della Chiesa cattolica, la quale è tuttora ferma alla condanna incondizionata della soppressione del concepito in qualsiasi momento della gravidanza essa intervenga. Essa ha in parte influito, invece, sugli orientamenti delle Chiese protestanti, in seno alle quali esistono oggi opinioni favorevoli ad ammettere la liceità dell'aborto volontario quando concorrano seri motivi di varia natura. La religione ebraica, nella versione tradizionale del Talmud, condannava anch'essa, di principio, l'aborto volontario, ma le correnti riformatrici del nostro tempo propendono - a differenza di quelle rigorosamente ortodosse - per un giudizio di maggiore tolleranza.
Fuori del mondo occidentale e delle culture che lo contraddistinguono, era contraria nettamente all'aborto volontario, per tradizione, la religione musulmana (ma di recente vi si sono affermate anche tendenze riformatrici). In Cina, la dottrina confuciana faceva dipendere sostanzialmente il giudizio morale sull'interruzione intenzionale della gravidanza dalla sua congruenza con la soddisfazione degli interessi 'superiori' della famiglia.La cultura del socialismo marxista - diffusa oggi nei grandi paesi che hanno abbracciato il sistema politico di quell'indirizzo di pensiero - respinge, al pari delle prevalenti correnti del pensiero 'secolarizzato' dei paesi occidentali, la condanna dell'aborto volontario in quanto collegata a un presunto 'diritto alla vita' del concepito. Ma mentre queste correnti misurano per lo più la liceità morale dell'aborto in rapporto al parametro decisivo del diritto della donna a realizzare un 'progetto di vita' da lei scelto, capace di assicurarle, nei limiti del possibile, la 'felicità', la cultura marxista subordina gli interessi individuali della donna a quelli della collettività: così per essa l'interruzione volontaria della gravidanza può assumere connotazioni sociali positive o negative a seconda del variabile atteggiarsi, nelle diverse situazioni, di questi ultimi interessi. L'interruzione può approvarsi o condannarsi, in definitiva, a seconda che serva o non serva all'edificazione di una società libera da 'sfruttamenti di classe'.
Gli ordinamenti giuridici, nel corso della storia, hanno di massima informato il regolamento da essi adottato dell'aborto provocato da atti umani volontari alla valutazione data dalla cultura morale di volta in volta prevalente nell'ambiente sociale in cui ciascun ordinamento operava. Ma ciò solo di massima: la regola giuridica non si è mai del tutto 'appiattita' sulla regola morale, perché, tra l'altro, la conformazione della regola giuridica deve sempre tener conto di elementi che potremmo chiamare, lato sensu, politici. Tra essi, in primo luogo, la generale concezione dominante del ruolo che deve svolgere la forza collettiva - che si incorpora nella regola giuridica - nell'indirizzare e nel piegare al rispetto di certi valori le condotte individuali; poi, considerazioni pratiche concernenti i limiti di efficacia delle sanzioni coattive; infine taluni particolari interessi di vario genere della collettività.Se cerchiamo di abbracciare il panorama complessivo dell'evoluzione storica, limitandoci a rilevare le sole tendenze di fondo, possiamo sinteticamente dire che in tutti gli ordinamenti l'aborto provocato contro la volontà della donna o della sua famiglia è sempre stato colpito a vario titolo con qualche tipo di sanzione (potendo peraltro essere le sanzioni molto diverse per natura - civili, penali, ecc. - e per intensità).
Le cose stanno altrimenti riguardo all'aborto volontario, rispetto al quale la storia evidenzia, a grandi linee, una parabola in cui il punto di partenza e quello d'arrivo presentano alcune marcate analogie. In mezzo, il regime giuridico del fenomeno si è ispirato a una logica nettamente difforme.Presso i popoli primitivi, nonostante il culto abbastanza diffuso della fertilità femminile, la pratica dell'aborto (e anche dell'infanticidio), sia come mezzo per limitare l'eccessiva espansione delle famiglie, sia per altre finalità, era ben conosciuta: e non sembra che, di massima, comportasse interventi repressivi della comunità (v. Visca, 1977, p. 37).
Nel mondo dell'antichità classica il diritto greco pare non considerasse reato l'aborto volontario (e nemmeno l'abbandono del nato), qualora consentito dal capo della famiglia. Per il diritto romano (prima delle riforme introdotte per influenza cristiana) il feto era ritenuto parte del corpo materno e la donna ne poteva liberamente disporre, salvo i superiori diritti del padre (cui fra l'altro spettava addirittura, almeno originariamente, un generale ius vitae ac necis sui figli e in particolare, fino a buona parte dell'epoca imperiale, il diritto di 'esporre' i nati da poco).Codesto quadro di relativa astensione dal reprimere da parte della collettività politica muta profondamente con il diffondersi nel mondo delle grandi religioni monoteiste: la cristiana e la musulmana.
Secondo le leggi dell'Europa cristiana medievale e moderna, l'aborto volontario costituiva reato; un reato che sul continente europeo veniva talvolta punito addirittura con la morte ove il feto fosse 'animato' e con pene minori ove l'interruzione della gravidanza avvenisse prima (Constitutio Carolina, 1532), mentre in Inghilterra la common law pare punisse soltanto l'aborto di feto 'animato' e con pene lievi. Nell'età delle riforme (secoli XVIII e XIX) le legislazioni di tutti i paesi cristiani mantennero fermo il carattere criminoso dell'aborto volontario, ma senza più fare distinzioni tra le fasi della gravidanza in cui l'aborto interviene - esso è dappertutto sempre punibile - e con mitigazione delle pene (in genere da 1 a 5 anni di reclusione; negli Stati Uniti era punito solo chi avesse aiutato la donna ad abortire, non la donna stessa). Unica causa legalmente riconosciuta di giustificazione dell'aborto era - quando lo era - la stretta necessità di salvare la vita della madre. Agli inizi del Novecento l'espandersi del dominio coloniale e comunque dell'egemonia occidentale su tutto il globo fece sì che il trattamento giuridico dell'aborto volontario da ultimo menzionato venisse accolto pressoché da tutti gli ordinamenti. Lo fecero sostanzialmente proprio anche paesi come la Cina e il Giappone.Verso la fine del nostro secolo tutti gli ordinamenti giuridici conservano quella tendenziale uniformità di indirizzi che avevano raggiunto al principio del secolo. Nel frattempo, però, l'orientamento è del tutto cambiato perché a una rigorosa politica repressiva è subentrato un consistente ritrarsi dello Stato dall'uso della sanzione penale: un cambiamento, questo, che per alcuni aspetti riporta il diritto contemporaneo su posizioni che erano state caratteristiche dell'antichità classica.
Complessivamente, oggi, la maggior parte degli ordinamenti o considerano per la donna senz'altro legittima la scelta di abortire nel primo periodo della gravidanza (con alcune restrizioni nei periodi successivi), o stabiliscono almeno che l'aborto può avvenire senza violazione di legge qualora ricorrano talune 'indicazioni' o circostanze giustificanti: l'indicazione 'terapeutica' (quando si tratti di tutelare non solo la vita, ma anche, eventualmente, la semplice salute fisica o psichica della donna); l'indicazione 'eugenica' (in caso di malformazione del feto); l'indicazione 'etica' (nei casi di stupro e incesto); l'indicazione 'sociale' (se alla donna riuscisse troppo gravoso, per le condizioni economiche o ambientali in cui vive, portare a termine la gravidanza); ecc.Il metodo delle 'indicazioni' - là dove viene adottato dal legislatore - restringe in certa misura la libertà della donna di abortire. Ma la restrizione è tenue e spesso solo teorica, sia per l'oggettiva ampiezza ed elasticità di alcune indicazioni (per esempio, quella 'terapeutica' in relazione alla tutela della salute psichica, o quella 'sociale'), sia per la disponibilità di almeno una parte della classe dei medici - chiamata ad accertare in prima istanza l'esistenza delle circostanze giustificanti - ad applicare con estrema indulgenza la legge.Le cause di questo profondo riorientamento del diritto nel giro di mezzo secolo sono state molteplici.
A. Nei paesi di tradizione cristiana la fede religiosa, con il connesso rigido divieto morale relativo all'aborto volontario, o è stata ufficialmente soppiantata da un'altra cultura morale (come in Russia, dalla cultura marxista) o ha perso vistosamente terreno (come nei paesi occidentali, dove convive con una morale laica 'secolarizzata' la cui presa si estende su larghi settori sociali). Nei paesi ove la vecchia regola morale convive con altre, di opposto contenuto, il pluralismo stesso delle culture morali spinge lo Stato a cancellare dalle regole giuridiche divieti stringenti dell'aborto volontario, per lasciare ai singoli dei diversi gruppi di decidere in proposito secondo coscienza.
B. Nei paesi democratici occidentali la logica dei diritti di libertà opera nello stesso senso. Questa logica oltrepassa anche le ragioni connesse al mero fatto dell'esistenza, nella società, di un pluralismo di culture morali. La teoria occidentale dei rapporti tra Stato e individuo postula che a quest'ultimo l'ordinamento riservi sfere di libertà che lo Stato non può invadere con suoi divieti o prescrizioni. Nell'ambito delle libertà economiche la teoria del nostro secolo tollera limitazioni da parte dello Stato molto più ampie di quelle ammesse nell'epoca del liberalismo classico. Ma essa ha rinforzato e ampliato, quasi a compenso, le sfere delle libertà non economiche o culturali. E tra esse tende a far rientrare (al pari della libertà religiosa, della libertà d'espressione, della libertà d'associazione, ecc.) le libertà collegate ai fatti del sesso e della riproduzione, i quali appartengono alla sfera della 'vita intima' (privacy) della persona singola e dovrebbero essere riservati, almeno di principio, alle scelte autonome e giuridicamente insindacabili di quest'ultima (nel caso di specie, la donna incinta).
C. Si è constatata l'inefficacia del divieto penale come mezzo per prevenire gli aborti, e comunque si sono viste in nuova luce le serie conseguenze collaterali negative che il divieto comporta. Nemmeno nei periodi in cui la punizione era severa, e persino tremenda, il diritto è riuscito a fermare il flusso sempre imponente degli aborti volontari. Si è pensato che forse potrebbe riuscire meglio ad arginarlo l'opera di consultori e di servizi pubblici intesi a persuadere la donna a partorire e recanti aiuti per il mantenimento e l'educazione dei figli. Comunque, il divieto penale sospinge inesorabilmente nella clandestinità una massa di aborti da cui nulla potrebbe trattenere donne irriducibilmente determinate a effettuarli. Tale condizione di clandestinità comporta pericoli gravi per la salute e per la vita delle gestanti, specie di quelle delle classi povere. Codesti pericoli e la discriminazione di fatto che la regola giuridica proibitiva introduce tra gestanti 'ricche' e gestanti 'povere', decise ad abortire, sono mal tollerati dalla coscienza sociale del nostro secolo. E questa coscienza finisce per richiedere una 'liberalizzazione', più o meno larga, della legge sugli aborti.
D. Le recenti leggi di 'liberalizzazione' degli aborti volontari mai confessano di considerare l'aborto un valido mezzo per il contenimento di una natalità eccessiva. Talune leggi si prendono addirittura la cura di negare che l'aborto possa legittimamente essere contemplato in tale prospettiva. È però ragionevole sospettare che invece, di fatto, un potente motivo per l'introduzione della 'liberalizzazione' sia stato proprio, talvolta, il desiderio di facilitare in tal modo la risoluzione dello scottante problema del controllo delle nascite. Questo motivo ha pesato meno, o non ha pesato affatto, nei paesi ove la curva della natalità è stabile o è in discesa. Ma è quasi certo che esso abbia contato nel determinare la 'liberalizzazione' in paesi non ancora industrializzati, sovrappopolati e con indici di espansione demografica altissimi. Ivi la lotta per elevare rapidamente i livelli del benessere collettivo - o persino per sfuggire ai pericoli di ricorrenti e devastanti carestie - passa per la strettoia del contenimento drastico delle nascite. In India e in Cina questa lotta ha condotto di recente, per esempio, a politiche rigorose di prevenzioni anticoncezionali, includenti tra l'altro misure di sollecitazione alla sterilizzazione così intense da assumere, o quasi, il carattere della coercitività. In questo quadro non è inverosimile che la liberalizzazione delle leggi sugli aborti sia stata pensata come un rimedio strettamente necessario per far fronte, insieme con altri, a un problema di dimensioni gigantesche. Dopotutto, l'aborto rimane, presso popolazioni non ancora assuefatte alle tecniche della civiltà industriale, il mezzo più efficace per limitare una natalità ritenuta esuberante.
È opportuno dare un più specifico ragguaglio della misura in cui il diritto della nostra epoca ha 'liberalizzato' il regime giuridico degli aborti volontari attraverso una rapida rassegna delle normative particolari di alcuni ordinamenti: normative interessanti in sé e per sé, o interessanti in ragione dell'importanza dei paesi che le hanno adottate.
A. Negli Stati Uniti la Corte Suprema ha stabilito (nella sentenza Roe v. Wade del 1973) che la Costituzione riconosce alla donna (come elemento del suo più generale right of privacy) il diritto di interrompere a suo libero giudizio la gravidanza (mentre non riconosce al concepito un 'diritto alla vita'). Lo Stato ha peraltro il potere di regolare in certa misura con legge la libertà della donna, per la tutela della salute di lei, per ragioni di politica demografica o per altri motivi. Tale potere non può però andare al di là dell'imposizione dell'obbligo di consultare un medico di fiducia avanti di procedere all'aborto nel primo trimestre di gravidanza, e dell'obbligo di sottoporsi all'operazione in una clinica pubblica o privata autorizzata nel secondo trimestre. Solo con l'inizio del terzo trimestre lo Stato può vietare (e punire) l'effettuazione di aborti volontari (salvo che non si tratti di aborto necessario per salvare la vita della gestante). Il medico e il personale paramedico, anche di ospedali pubblici, non possono essere obbligati dalla legge a effettuare aborti a meno che la gestante non corra pericolo di morte. (Questo diritto del medico all''obiezione di coscienza', ricollegato dalla Corte americana a principî costituzionali, è ammesso - sia detto di passaggio - da tutte le leggi liberalizzatrici in vigore negli ordinamenti dei paesi occidentali). Lo Stato federale ha vietato (con l'approvazione della Corte) l'impiego di fondi federali destinati all'assistenza medica per finanziare operazioni d'aborto (i cui costi restano dunque a carico delle pazienti). Così hanno fatto anche vari Stati membri dell'Unione. (È d'uopo avvertire che codesta 'soluzione americana' del problema giuridico dell'aborto - fortemente favorevole alla libertà della donna - sembra destinata, alla luce della più recente giurisprudenza - 1989 - a subire qualche attenuazione, col riconoscimento allo Stato di qualche maggior potere di porre restrizioni).
B. Nell'Unione Sovietica fin dal 1920 (e nei paesi dell'Europa orientale dopo la seconda guerra mondiale) il principio generale è stato quello della sostanziale libertà di aborto nei primi mesi della gravidanza. Va peraltro notata una tendenza a ripiegare verso soluzioni legislative più restrittive (e comunque verso una conforme politica delle strutture ospedaliere) - aborto ammesso solo ricorrendo gli estremi di talune specifiche indicazioni: terapeutica, eugenica - in periodi in cui la preoccupazione dell'eccessivo abbassamento dei tassi di natalità si è fatta sentire (per esempio nell'Unione Sovietica durante il periodo staliniano, in Romania dopo il 1967, nella Repubblica Democratica Tedesca).
C. La Repubblica Popolare Cinese ha accolto il principio dell'aborto su domanda nel primo trimestre di gravidanza.
D. Dal 1949 l'ordinamento del Giappone si informa a una normativa che rende possibile l'aborto volontario entro la ventottesima settimana di gravidanza anche solo per motivi economici.
E. L'India ha adottato nel 1969 una legge di ampia liberalizzazione, un po' sul modello di quella inglese del 1967 (v. sotto).
F. Europa occidentale. La Corte europea dei diritti dell'uomo (in base a una Convenzione sottoscritta da tutti gli Stati di questa parte del continente) ha escluso che alla donna sia garantita una libertà di abortire così ampia come quella sancita dalla Corte Suprema americana, spettando agli ordinamenti dei vari Stati di determinarne in concreto l'ampiezza. (Un divieto penale assoluto sarebbe peraltro giudicato contrario ai principî della Convenzione). In Inghilterra, Scozia e Galles la legge di liberalizzazione del 1967 stabilisce che non può considerarsi reato l'aborto effettuato da un medico col consenso della donna quando due medici attestino: 1) che la continuazione della gravidanza implicherebbe un rischio per la vita della gestante, o la probabilità di un danno alla salute fisica o mentale di lei o dei figli già esistenti nella sua famiglia, più grave di quello che deriverebbe dall'interruzione della gravidanza (per la valutazione del danno probabile si tiene conto della situazione ambientale); 2) che esiste il rischio che il concepito nasca con tali deformità fisiche o mentali da farne un anormale. Le spese dell'operazione, se effettuate in ospedale pubblico, sono a carico dello Stato. In Francia la legge del 1975 (giudicata conforme a Costituzione dal Conseil Constitutionnel) prevede che la donna, cui la continuazione della gravidanza cagionerebbe un grave disagio (détresse), possa ottenere l'aborto nelle prime dieci settimane dal concepimento dopo avere consultato un medico e un istituto di informazione familiare che la ragguaglino sui rischi dell'operazione e sugli aiuti che potrebbe ottenere in caso di maternità. La decisione finale spetta comunque alla donna, l'operazione va effettuata in ospedale pubblico o privato autorizzato, e le spese sono a carico di fondi pubblici. L'aborto per motivo terapeutico è ammesso in qualsiasi momento della gravidanza.La legge francese vieta d'altra parte qualsiasi propaganda pubblica a favore dell'aborto: un divieto che non trova riscontro nei diritti degli altri paesi occidentali e che almeno in qualcuno d'essi - per esempio negli Stati Uniti - verrebbe probabilmente considerato incostituzionale perché eccessivamente restrittivo della libertà d'espressione.
Nella Repubblica Federale Tedesca la Corte Costituzionale ha ritenuto che la Costituzione tedesca protegga il diritto alla vita del concepito e che l'ordinamento giuridico debba - affinché la protezione dovuta non risulti illusoria o inadeguata - colpire con sanzione penale, in linea di principio, tutti gli aborti volontari. La legge può però omettere la punizione di tali aborti se l'interruzione della gravidanza intervenga in caso di pericolo per la vita o per la salute della donna, in caso di violenza carnale o di concepimento incestuoso, in caso di malformazioni o malattie gravi del feto o nel caso in cui circostanze economico-sociali straordinarie rendano gravissimo per la donna l'onere della gestazione. La legislazione tedesca si è adeguata alla pronuncia della Corte, stabilendo termini differenti dall'inizio della gravidanza entro i quali l'operazione deve essere compiuta, in rapporto ai diversi casi di 'indicazioni' che rendono non punibile l'aborto e stabilendo varie modalità di controllo dell'effettiva presenza degli estremi dei quattro casi, modalità che peraltro rimettono in pratica ai medici la decisione dell'intervento. Le spese del quale, nei casi consentiti, sono a carico delle assicurazioni sociali. In Austria una legge del 1974 ha depenalizzato (con il consenso della Corte Costituzionale) l'aborto volontario ove l'interruzione della gravidanza intervenga entro tre mesi dal suo inizio per opera di un medico o in qualsiasi momento della gestazione se l'aborto, effettuato da un medico, serve a stornare un pericolo per la vita o per la salute della donna o il pericolo che il concepito nasca deforme, ovvero qualora l'aborto sia richiesto da una donna minorenne al momento del concepimento. È da notarsi quest'ultima condizione, concernente la facoltà della minorenne di abortire liberamente fino alla vigilia del parto, perché essa è un unicum nel panorama delle legislazioni occidentali contemporanee.Nei Paesi Scandinavi la liberalizzazione della normativa in tema di aborto volontario era cominciata - in anticipo di quasi quarant'anni rispetto agli altri ordinamenti europei - già negli anni trenta, e si era estesa negli anni successivi legittimando la pratica per lo più in correlazione col sistema delle indicazioni (medica, etica, eugenica, sociale). La Danimarca ha introdotto nel 1973 l'aborto a richiesta della donna nel primo trimestre di gravidanza, e la Svezia nel 1974, fissando il termine alle diciotto settimane.
In Belgio fortissimi contrasti tra il partito democristiano e i partiti di ispirazione laica hanno ritardato per tutti gli anni ottanta l'approvazione di una legge liberalizzatrice, mentre le tradizionali, dure norme repressive dell'aborto venivano applicate peraltro in modo relativamente saltuario. All'inizio del 1990 il parlamento ha finalmente varato una riforma, imperniata, come il modello francese, sul principio della détresse della donna incinta come circostanza che può giustificare l'aborto e contenente norme approssimativamente analoghe a quel modello. (Poiché il re ha manifestato la sua indisponibilità a promulgare una legge che a suo avviso - e del resto anche ad avviso della dottrina ufficiale della Chiesa - contrasta irreparabilmente con la sua coscienza di cattolico, si è dovuto ricorrere alla finzione di un temporaneo impedimento del sovrano per permettere al governo di procedere, a termini di Costituzione, alla promulgazione).
In Spagna la Corte Costituzionale ha assunto un atteggiamento analogo - ma non proprio eguale - a quello fatto proprio dalla Corte tedesca federale. Essa ha ritenuto non costituzionalmente illegittima la depenalizzazione legislativa dell'aborto volontario in determinate situazioni (quelle delle indicazioni medica, etica ed eugenica), in ragione della protezione da offrire alla dignità della donna, un valore costituzionalmente garantito; ma avendo ravvisato nel nascituro aspettative che, se non possono configurarsi come un vero e proprio diritto alla vita, godono tuttavia di una certa qual tutela costituzionale, ha giudicato incostituzionale ogni legge che non assoggettasse la deliberazione della donna di abortire a un serio controllo quanto al ricorrere oggettivo delle circostanze delle tre suddette indicazioni. Il legislatore spagnolo ha ritenuto di ottemperare ai principî enunciati dalla Corte stabilendo (con legge del 1985) che non è punibile l'aborto effettuato in ospedale pubblico o privato autorizzato, quando il pericolo per la vita o la salute fisica o psichica della donna sia stato attestato da un medico specialista diverso da quello che procede all'operazione; quando la violenza carnale sia stata regolarmente denunciata e l'operazione intervenga nelle prime dodici settimane di gravidanza; quando il feto si presuma affetto da gravi tare fisiche o psichiche, il fatto sia attestato da due medici specialisti e l'operazione si compia nelle prime ventidue settimane. La donna non è comunque punibile qualora non rispetti le norme relative all'effettuazione dell'operazione negli ospedali indicati o non si munisca previamente degli attestati dei medici specializzati. Punibili sono invece coloro che l'avessero aiutata.In Italia la Corte Costituzionale (sentenza n. 27 del 1975) ha dichiarato incostituzionale la punizione dell'aborto volontario quando venga effettuato a tutela non solo della vita ma anche della salute fisica o psichica della donna. Ha in seguito implicitamente ritenuto che una eventuale totale 'liberalizzazione' legislativa dell'aborto - rimettente per intero ed esclusivamente alla donna il potere di decidere non solo circa l'interruzione della gravidanza, ma anche circa i suoi tempi e le sue modalità - non contrasterebbe con la Costituzione (sentenza n. 26 del 1981).
Muovendosi dentro il quadro costituzionale delineato dalla Corte, la legge n. 194 del 1978 ha in pratica reso possibile alla donna di ottenere liberamente un aborto, se lo desidera, entro i primi novanta giorni della gravidanza. In questo periodo la donna deve, è vero, per poter abortire, consultare previamente un consultorio familiare o un'unità sociosanitaria o un medico di sua scelta, adducendo che la continuazione della gravidanza creerebbe un serio pericolo per la sua vita o per la sua salute fisica o psichica, e i soggetti consultati sono tenuti a discutere con lei il caso informandola dei diritti e dei benefici di cui, in base alle leggi esistenti, essa e il nascituro potrebbero godere se la gravidanza fosse portata a termine (artt. 4 e 5). Ma anche se i soggetti consultati non ritenessero l'aborto necessario, la donna può, senza incorrere in sanzioni, far interrompere la gravidanza dopo un termine dilatorio di sette giorni dal momento in cui i soggetti suddetti hanno espresso il loro giudizio (art. 5). Nel periodo successivo al primo trimestre l'interruzione della gravidanza è ammessa solo se eventuali 'processi patologici' - tra i quali sono da annoverarsi le malformazioni e le anormalità del feto - creassero un serio pericolo, attestato da certificato medico, per la vita o la salute fisica o psichica della donna (artt. 6 e 7). L'operazione dell'aborto deve avvenire in ogni caso in un ospedale pubblico o in una clinica privata autorizzata, salvo situazioni di assoluta urgenza, ove sia in gioco la vita della madre. Aborti effettuati nel primo trimestre di gravidanza senza rispettare la procedura prescritta e dopo il primo trimestre in oggettiva assenza delle circostanze previste dalla legge, nonché aborti effettuati comunque fuori dalle strutture sanitarie indicate costituiscono reato. Le spese delle operazioni d'aborto legittime sono pagate dal servizio sanitario nazionale. La richiesta di autorizzazione ad abortire è decisione personale della donna: il padre del concepito può partecipare alle consultazioni prescritte solo se essa consente; la minorenne deve avere il consenso di chi esercita la potestà su di essa, ma il giudice può stabilire che costui non venga avvertito o può autorizzare l'aborto nel caso in cui non dia il suo consenso (art. 12).
Nel 1981 l'elettorato, attraverso un referendum, ha respinto sia una proposta diretta a riformare in senso molto restrittivo la legge del 1978, sia una proposta mirante a liberalizzare completamente la materia degli aborti volontari, rendendoli legittimi in qualsivoglia momento o luogo intervengano e senza bisogno di previe consultazioni o attestati medici di sorta.
L'aborto volontario rappresenta un crocevia in cui si intrecciano i riflessi di alcuni dei maggiori problemi della filosofia, della morale, della politica e del diritto.La riflessione morale - diretta a valutare in sé e per sé la liceità etica di quell'aborto e a orientare in primo luogo la condotta individuale delle persone che potrebbero esservi implicate - si imbatte subito nel problema filosofico della natura del concepito. L'eventuale attribuzione al feto dei caratteri di un essere dotato di anima - e per di più di un'anima immortale, secondo quanto ritengono le grandi religioni universalistiche - comporta la necessità logica di applicare a esso tutto il rispetto dovuto agli esseri umani nati e viventi e in particolare tutti i principî che governano, riguardo a questi, i casi eccezionali in cui è lecito sacrificarne con atto commissivo la vita. Nella prevalente tradizione morale dei popoli occidentali la liceità del sacrificio della vita di un essere umano nato e vivente è limitata oggi a pochissimi casi, per di più tendenti a restringersi nel numero e nella portata. Il primo caso concerne lo stato di necessità: quando cioè il sacrificio sia strettamente indispensabile per salvare, nelle circostanze ineludibili della situazione, un'altra vita umana. Gli altri casi presuppongono tutti una consapevole gravissima condotta aggressiva da parte della persona la cui vita si sacrifica: il caso della legittima difesa, ove l'aggressore minaccia ingiustamente la vita altrui o altro bene di pari o simile rilievo; il caso della guerra, ove si tratta di respingere un'ingiusta aggressione a diritti o interessi collettivi di primaria importanza; il caso (se e nella misura in cui lo si ammette) della pena di morte, ove si infligge un male supremo a chi si sia macchiato di delitti atroci.
Se si considera 'persona' - nel senso pieno della parola - anche il concepito non nato, è evidente che non potrà venir giustificata la sua volontaria soppressione, adducendosi il ricorrere degli estremi di uno o dell'altro degli ultimi tre casi menzionati. Essi presuppongono tutti, come s'è detto, una condotta aggressiva consapevole della persona cui si toglie la vita, e cioè, in senso proprio o almeno in senso lato, una sua colpevolezza: un'imputazione che certo non potrebbe elevarsi a carico del concepito, il quale non ha nemmeno coscienza del proprio distinto esistere, né ha comunque libertà di tenere una condotta diversa da quella che tiene in seno alla madre. Nella prospettiva filosofica di cui stiamo parlando, la liceità dell'aborto volontario finisce dunque per ridursi al solo caso marginale dello stato di necessità: quando cioè l'aborto diventi assolutamente indispensabile per salvare la vita della madre. (Nelle versioni più intransigenti della dottrina cattolica nemmeno in questo caso la deliberata soppressione del concepito sarebbe in sé e per sé lecita, non potendo l'uomo togliere la vita a un altro essere umano non colpevole).
Qualora si risolva in modo diverso il problema filosofico della natura del concepito e del momento dell'acquisto di quella 'personalità' umana a cui si ricollega il rigoroso dovere del rispetto della vita - salvo i casi eccezionali che si sono ricordati - il problema morale della liceità dell'aborto muta i suoi termini, ma non è, naturalmente, eliminato. Anche se - come vogliono le correnti principali della filosofia laica contemporanea - il carattere della personalità umana, ai fini della valutazione etica, si acquistasse soltanto al momento in cui il soggetto diviene autocosciente, e dunque solo al momento della nascita, o, addirittura, come sostiene taluno, in un momento successivo, resta il fatto che nel concepito è presente una concreta vivente 'potenzialità' di un prossimo essere umano autocosciente; ed esso è, dunque, nelle prospettive della riflessione morale, un 'bene', un 'valore', il cui sacrificio non potrebbe ammettersi se non a vantaggio di beni o valori superiori. Sotto questo aspetto, nelle diverse valutazioni morali che ammettono o non ammettono, a seconda delle circostanze, l'effettuazione dell'aborto, si riflettono, come in uno specchio, le diverse scale di valori cui si attiene il valutante.
V'è chi, nell'affrontare il problema etico dell'aborto, sente profondamente, anche a prescindere da presupposti religiosi, il mistero di ciò che è 'vita' e annette valore altissimo a quell'essere che potrebbe diventare un giorno un centro di vita autocosciente, il miracolo più grande che finora l'esperienza dell'universo ci ha messo dinanzi: per questi la soppressione del concepito potrà giustificarsi solo, o quasi, in vista della preservazione della vita di un altro essere umano già esistente, la donna. V'è chi ritiene che la vita autocosciente valga la pena d'essere vissuta solo in condizioni di 'normalità', e per questi le malformazioni e le anomalie del feto giustificheranno l'aborto; anche se qualche turbamento potrà essere generato in lui dal fatto che difetti la conoscenza di quale sarebbe in proposito l'atteggiamento del diretto interessato - il concepito - il quale non può esprimere la sua volontà di non voler vivere una vita 'anormale', a differenza di quanto accade ai nati e viventi che, afflitti da mali incurabili e da sofferenze atroci, possono consapevolmente scegliere per sé la 'morte dolce'. V'è chi dà gran peso al valore di una vita condotta in condizioni di benessere dagli esseri umani nati e viventi (la donna, la sua famiglia), e per questi l'aborto sarà legittimo se funzionale alla tutela di un certo variabile grado di quel benessere e del tipo di benessere che si ritiene i viventi possano pretendere per sé (il benessere psicofisico, quello economico): in questa prospettiva la sfera degli aborti giustificabili si allargherà via via fino a comprendere, al limite, quelli richiesti dall'attuazione di un 'piano di vita', più o meno articolato e più o meno meditato, che la donna si dia e in cui non v'è spazio per la nascita, in generale o sul momento, di un figlio. V'è infine chi, rivolgendo lo sguardo agli interessi della collettività composta dai viventi e dalle generazioni future, reputa che almeno taluni di questi interessi possano o persino debbano prevalere, all'occorrenza, sul desiderio della maternità o su quello opposto di abortire: per questi anche o soprattutto i valori collegati al destino del gruppo, della nazione, della classe, potranno legittimare l'eventuale soppressione di nascituri. (Per il pensiero che, discostandosi dal solco principale della moralità moderna occidentale, ritiene che la promozione dei grandi interessi collettivi possa legittimare addirittura la soppressione di uomini nati e viventi che, innocenti, formano però ostacolo a quella promozione o sono inutili a essa, la sopprimibilità in determinate circostanze dei meramente concepiti non è naturalmente idea il cui accoglimento presenti particolari difficoltà). Insomma, nella riflessione morale attorno al problema etico dell'aborto volontario confluiscono ed entrano in conflitto tra loro, in modo specialmente acuto, le diverse concezioni che l'uomo ha elaborato di sé, delle sue origini, del suo rapporto con gli altri uomini, del suo ruolo e destino nell'universo. E la decisione della donna di abortire o non abortire, nelle diverse circostanze, rivela, come in un lampo, il mondo culturale cui essa appartiene e la tempra della sua personalità morale.
Lo Stato e il diritto sono, in primo luogo, applicazione sistematica della forza collettiva per indurre condotte sociali desiderate dalle classi dirigenti. L'ideologia politica dello Stato liberaldemocratico contemporaneo attribuisce massima importanza alla libera determinazione della persona autocosciente nelle sfere della cultura e della vita intima: e considera da respingere ogni intervento autoritario rivolto a piegare in un senso o nell'altro le condotte sociali in quella sfera, dovendo prevalere, lì, il valore dell'autodeterminazione individuale, salvo casi marginali in cui l'intervento è necessario per assicurare la pacifica convivenza tra i consociati o per salvare valori collettivi assolutamente supremi e urgentissimi. La dottrina cattolica ufficiale non solo ritiene che la decisione individuale di abortire sia peccato grave, ma, sul terreno della teoria politico-giuridica, afferma che l'ordinamento giuridico dovrebbe adeguatamente reprimere - di massima, con sanzione penale - l'aborto volontario, trattandosi di proteggere il diritto alla vita di un essere che è già, come i nati viventi, 'persona'. Codesta tesi della dottrina cattolica finisce per entrare in conflitto con la versione più rigorosa dell'ideologia liberaldemocratica, perché questa da un lato tende a riportare nella sfera della libertà individuale non coercibile le decisioni fondamentali anche in materia di riproduzione della specie (inclusa la decisione relativa alla continuazione o alla interruzione della gravidanza), e dall'altro lato trova sconveniente imporre con la forza, nella condotta dei singoli, il rispetto di una concezione filosofica circa lo status del concepito che è controvertibile e dovrebbe rientrare nell'ambito delle scelte d'opinione riservate alla libertà individuale.
Sta in queste considerazioni politiche di impronta liberaldemocratica relative ai limiti di impiego della forza collettiva la ratio più profonda della sentenza con cui la Corte Suprema degli Stati Uniti ha affermato la libertà costituzionale della donna di abortire nei primi due trimestri della gravidanza: una sentenza che non intende certo risolvere il problema filosofico della natura del feto né avanzare suggerimenti circa la moralità di qualsiasi tipo di aborto, limitandosi a circoscrivere l'ambito di intervento repressivo legittimo dello Stato e definendo in conformità, ai soli effetti giuridici, il diritto garantito della donna di abortire e l'assenza di tutela costituzionale del concepito. (Ed è sulla base di questa distinzione tra diritto e moralità e di una ferma adesione ai principî di libertà dell'individuo sul piano del diritto che un cattolico come il giudice Brennan, in dissenso dalla dottrina politico-giuridica della Chiesa, ha creduto di poter concorrere col voto alla sentenza della Corte).La Corte Costituzionale tedesca, con atteggiamento perfettamente opposto a quello della Corte americana, ha stabilito che, di principio, secondo Costituzione, la donna non gode di una libertà garantita di abortire e al concepito spetta, per contro, un diritto alla vita che l'ordinamento deve efficacemente proteggere (di regola, con sanzione penale). La Corte tedesca non pretende - occorre precisare - di risolvere il problema filosofico della natura del concepito nel definire, sul piano giuridico, le rispettive posizioni dei due soggetti. E in realtà la motivazione della sua pronuncia non si rifà a ragioni di ordine teologico-ontologico o religioso, bensì a considerazioni di natura strettamente politica. Per il giudice tedesco, in sostanza, l'ordinamento deve difendere la vita del concepito perché, principalmente, un'assenza di difesa potrebbe indurre nei consociati scorrette valutazioni sugli atteggiamenti da assumere nei confronti del fenomeno 'vita umana' in generale e indurli a ritenere disponibile anche la vita stessa dei già nati, secondo principî accolti a suo tempo dal regime nazionalsocialista, ma respinti alla base dall'attuale Costituzione. L'ordinamento deve assumere in questo caso - secondo la Corte tedesca - una funzione di magistero etico, necessaria per la salvaguardia degli stessi valori ultimi su cui si fonda una società liberaldemocratica.
La divergenza tra la Corte americana e quella tedesca pare allora in definitiva ridursi a una differenza, nell'ambito di una stessa impostazione ideologica, quanto all'apprezzamento dei pericoli che corrono i valori di un sistema informato al rispetto dell'individuo (già nato) e dei suoi diritti quando l'ordinamento rinunci a proteggere la vita umana ai suoi albori: pericoli che la prima Corte implicitamente non stima rilevanti, mentre la seconda ravvisa come incombenti e gravi. La soluzione tedesca, partendo da un atteggiamento di preoccupazione e di allarme, stabilisce una relativa restrizione, su un punto, della sfera di libertà della persona (in questo caso la donna), e rinuncia a un'applicazione spinta agli estremi della logica della democrazia liberale. (Ma essa tempera poi l'obbligo che sancisce della punizione col riconoscimento di vari casi in cui la punizione può venir omessa dalla legge.) La soluzione americana porta molto innanzi l'applicazione dei principî del sistema e, per il resto, affida alle sole forze autonome della società il compito di mantenere viva nel suo seno la fede nei valori del sistema.Il diritto è innanzitutto misura dell'incidenza in concreto della forza collettiva; ma un sistema politicogiuridico non si regge se non è diffusa e salda nella coscienza morale dei cittadini la persuasione della bontà dei valori cui il diritto si informa. Tra i valori del diritto liberaldemocratico sta quello dell'insopprimibilità - almeno contro il loro volere e fuori dell'ipotesi estrema dello stato di necessità - dei soggetti autocoscienti incolpevoli. La soluzione tedesca chiama lo stesso diritto a rafforzarne la presa nella coscienza morale dei cittadini attraverso una difesa per così dire 'anticipata' della vita umana. La soluzione americana confida che tale presa possa alimentarsi da sé senza bisogno di interventi di quel tipo e ritiene che quegli interventi servirebbero comunque poco ove la società non fosse capace di coltivare spontaneamente dentro di sé l'immagine dell'uomo individuo e dei suoi irrinunciabili diritti come valore centrale nell'organizzazione politica della comunità. A parte la questione costituzionale dei diritti rispettivi della donna e del concepito - questione che vede la Corte americana e quella tedesca schierate su poli di principio opposti e le altre corti costituzionali su posizioni intermedie - il processo di liberalizzazione del regime giuridico dell'aborto volontario ha messo gli ordinamenti di ispirazione liberaldemocratica di fronte a una serie di altri delicati problemi politico-giuridici.È giusto finanziare con fondi pubblici gli aborti volontari che la liberalizzazione rende legittimi? Quasi tutti gli Stati che hanno liberalizzato hanno risposto positivamente alla domanda, nella considerazione che lo 'Stato sociale' contemporaneo deve aiutare l'esercizio di una libertà che attiene ad aspetti fondamentali della vita della donna: senza quell'aiuto, potrebbero esservi discriminazioni nell'effettivo godimento del diritto ad abortire tra donne abbienti e non abbienti. Fanno eccezione gli Stati Uniti, ove lo 'Stato sociale' si è attuato con profili più bassi che altrove, e ove la libertà della donna di abortire trova un riconoscimento larghissimo, ma il suo esercizio è sentito come faccenda che deve rimanere esclusivamente della donna, senza coinvolgimenti attivi dello Stato in atti che molti potrebbero considerare immorali.
Tutti gli ordinamenti occidentali che hanno liberalizzato hanno riconosciuto agli ospedali privati e al personale medico e paramedico, anche impiegato in strutture pubbliche, il diritto di astenersi dal compiere operazioni d'aborto. Questa norma risponde a un'esigenza imprescindibile del modello liberaldemocratico, non essendo ammissibile per esso coartare la libertà di coscienza di persone che potrebbero ravvisare nella cooperazione a un fatto come l'aborto la gravissima violazione di un importante principio morale. Il diritto del medico di astenersi può peraltro creare, in certe condizioni, alcune difficoltà pratiche per la donna nell'esercizio di una libertà che la legge le riconosce. In paesi, come l'Italia, dove le strutture sanitarie pubbliche sono male organizzate, larghe astensioni della categoria dei medici sembra rendano difficile per le persone meno abbienti ottenere, in certe zone, un aborto nel rispetto della legge: fatto questo che da alcuni è sentito come offesa grave alla natura 'sociale' dello Stato; un difetto che richiederebbe, in assenza di un'efficiente riorganizzazione del sistema sanitario pubblico, la totale 'liberalizzazione' dell'aborto.È equo sottrarre al padre del concepito e ai genitori di una minorenne il potere di opporsi all'aborto al quale la donna è decisa? S'è visto che per il diritto italiano la risposta da dare a questa domanda è sostanzialmente positiva. Questa è anche la risposta (talvolta formulata in termini anche più rigorosi, nei dettagli, della regola italiana) in quasi tutti i paesi occidentali che hanno liberalizzato (e così, in particolare, negli Stati Uniti). La regola che fa della donna l'esclusiva titolare della decisione d'abortire corrisponde alla logica della concezione liberaldemocratica che pone l'individuo come tale al centro di tutte le relazioni giuridiche in campo non economico e fa scomparire o attenua di molto i poteri che avevano su di lui le formazioni sociali (in questo caso la famiglia) cui egli appartiene. La regola è anche forse il punto di maggior distacco del regime giuridico dell'aborto vigente oggi nei nostri paesi dal regime giuridico vigente nell'antichità classica greco-romana. Là il potere del pater sembra fosse sovrastante: in conformità alla concezione politica di quel mondo, che faceva della famiglia, e non dell'individuo, il fondamento ultimo della respublica.
Sul piano delle previsioni non è troppo avventato ritenere che in futuro la tendenza a rendere giuridicamente libero l'aborto voluto dalla donna si accentuerà e si estenderà. Di massima, nel lungo periodo, la soluzione della piena libertà di abortire nelle prime fasi della gravidanza dovrebbe tendere a prendere il posto della soluzione delle 'indicazioni' nei paesi ove quest'ultima è attualmente applicata. La liberalizzazione conquisterà anche i paesi in cui essa finora non è riuscita a penetrare: per esempio nell'area della civiltà musulmana e in America Latina. Queste previsioni non poggiano tanto sull'ipotesi che l'ideologia della formula politica liberaldemocratica, nella sua versione più rigorosa, si diffonda irresistibilmente nel mondo, quanto sul gioco di altri fattori, non connessi di per sé con il prevalere di quell'ideologia. È probabile che, dappertutto, receda ulteriormente la forza sociale delle fedi religiose tradizionali. In gran parte del mondo verrà avvertita con sempre maggiore impellenza l'esigenza di porre in qualche modo un freno all'esplosione demografica. Chi, per ragioni legate a credenze religiose o anche indipendenti da esse, continui a ritenere sempre o quasi immorale l'aborto volontario potrà, vivendo in futuro in paesi di democrazia liberale, confortarsi pensando che la formula politica che ispira quegli ordinamenti giuridici assicura quanto meno alla donna e a tutti la libertà di compiere, in rapporto al fatto della generazione, le scelte che una moralità rispettosa del diritto alla vita del concepito indica come doverose; e che quella stessa formula - se rettamente applicata - dovrebbe proteggere contro eventuali tentativi dello Stato di rendere addirittura obbligatori gli aborti qualora ciò convenisse alle politiche demografiche della collettività: ipotesi, quest'ultima, da non scartare come una del tutto irrealistica possibilità in seno a paesi in cui prevalessero morali secolarizzate d'impronta 'collettivistica' e in cui preoccupazioni eugeniche o di drastico contenimento delle nascite finissero per divenire soverchianti e ossessive.
D'altra parte, la previsione appena fatta dell'accentuarsi e dell'estendersi della tendenza liberalizzatrice (con possibili episodi, in taluni paesi, anche di vera e propria costrizione giuridica all'aborto, cioè di un successivo passaggio dalla libertà a un obbligo che avrebbe contenuto inverso a quello del passato) non è previsione che possa avanzarsi con certezza. La storia conosce a volte brusche inversioni di marcia, e un'inversione, anche in questo campo, non può venir esclusa in assoluto, anche se, tutto considerato, essa appare oggi affatto improbabile. Si pensi, tuttavia, che cent'anni fa, al tempo in cui in pressoché tutto il mondo l'aborto costituiva sempre un reato, pochi avrebbero saputo prevedere la svolta liberalizzatrice che ha contrassegnato il nostro secolo. Curiosamente, un'inversione di marcia e un sostanzioso recupero della sanzione penale per colpire gli aborti volontari potrebbe ipotizzarsi con qualche verosimiglianza proprio con riguardo ai paesi che sono attualmente i più industrializzati, non tanto per via di una ripresa in forze presso di essi delle influenze religiose (un evento a dir il vero molto problematico) ma per una ragione tutta mondana e secolare: in quanto in quei paesi la curva della natalità è spesso in declino. In taluni d'essi (per esempio la Germania) la popolazione sembra destinata a diminuire vistosamente nel giro di poche generazioni. Se mai in futuro, per quei popoli, si presentasse concretamente il pericolo di una drammatica riduzione o addirittura dell'estinzione, le classi dirigenti potrebbero essere tentate di contrastare questo pericolo anche col ricorso a una dura politica di repressione degli aborti.
Peraltro, la riesumazione di serie misure penali in questo campo verrebbe a scontrarsi, in paesi di radicata tradizione liberaldemocratica, con il sentimento ormai assai diffuso nell'opinione pubblica (e negli Stati Uniti addirittura tradotto in formale principio costituzionale) che non spetta allo Stato di penetrare con comandi o divieti nella sfera della privacy della donna. Sicché è più probabile che, almeno in quei paesi, il rimedio sarebbe cercato soltanto in sistemi complessi e poderosi di incentivi alla natalità, e che dunque l'ipotesi di un ritorno a un secolare passato di repressione non si verificherà neanche in questo caso.Può essere interessante ricordare che nella Roma antica, quando, da Augusto in poi, divenne urgente preservare la consistenza demografica delle élites cittadine, varie leggi furono emanate per favorire la natalità, alcune delle quali non verrebbero giudicate oggi accettabili alla luce dei principî, che ci sono cari, di libertà e di eguaglianza delle persone. Ma nemmeno in Roma antica il diritto credette di poter perseguire il fine desiderato colpendo con sanzione penale gli aborti volontari, cioè penetrando rudemente in una sfera che allora si riteneva fosse riservata alle decisioni della famiglia. (V. anche Etica; Nascite, controllo delle).
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