Istituto, disciplinato dagli art. 806-840 c.p.c. (ampiamente riformati dal d. legisl. 40/2 febbraio 2006), che attribuisce alle parti il potere di affidare a giudici privati, detti arbitri, la decisione in merito alle loro controversie, derogando così alla competenza dell’autorità giurisdizionale dello Stato. Affinché le parti possano avvalersi di tale facoltà occorre il perfezionamento di un apposito accordo, la convenzione di a., che può assumere la forma del compromesso o della clausola compromissoria.
Il procedimento arbitrale si svolge secondo le norme stabilite dalle parti (le quali possono stare in a. per mezzo di difensori) o, in mancanza di tale determinazione, secondo quanto stabilito dagli stessi arbitri (art. 816 bis). In ogni caso è necessario che venga rispettato il principio del contraddittorio. Il codice detta alcune norme relative alla fase istruttoria, concernenti in particolare il potere degli arbitri di delegare a uno di essi l’intera attività istruttoria o anche solo singoli atti di istruzione, e le modalità di assunzione della prova testimoniale, la consulenza tecnica, nonché la richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione (art. 816 ter). Così come il giudizio ordinario anche quello arbitrale può svolgersi con la partecipazione di una pluralità di parti iniziale o successiva nei limiti e secondo le modalità di cui agli art. 816 quater e 816 quinques c.p.c. Il giudizio arbitrale si conclude con la decisione degli arbitri, il lodo arbitrale, che deve essere pronunciato, salvo diversa determinazione delle parti, entro il termine di 240 giorni dall’accettazione della nomina (prorogabile ai sensi dell’art. 820, co. 3 e 4), e che «ha dalla data della sua sottoscrizione gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria» salvo quanto disposto dall’art. 825 c.p.c. Quest’ultima norma consente a ciascuna parte di chiedere al tribunale la concessione della esecutorietà del lodo. Il tribunale in seguito alla presentazione dell’istanza e al deposito del lodo lo dichiara esecutivo con decreto dopo averne accertato «la regolarità formale». Il lodo arbitrale può essere impugnato per nullità, per i motivi indicati nell’art. 829 c.p.c., per revocazione straordinaria e per opposizione di terzo (art. 831).
Il codice di procedura si occupa all’art. 832 dell’a. secondo regolamenti precostituiti il cosiddetto a. amministrato. Con questa espressione si allude a un fenomeno assai diffuso nella prassi e cioè l’attribuzione, da parte di coloro che scelgono di stipulare una convenzione di a., a un apposito organismo di una varietà di funzioni concernenti il giudizio arbitrale, quali la determinazione delle regole del giudizio o la predisposizione dell’elenco degli arbitri da nominare.
L’a. di cui si è discorso fino a ora viene generalmente qualificato come a. rituale per distinguerlo da un altro tipo di a., cosiddetto irrituale, che trova tuttavia anch’esso una esplicita disciplina dopo la riforma del 2006. Il lodo arbitrale irrituale è definito dall’art. 808 ter quale mera «determinazione contrattuale»; a tale lodo contrattuale «non si applica l’art. 825», non è impugnabile secondo le disposizioni di cui all’art. 827 e ss. c.p.c. ma è annullabile per i motivi di cui all’art. 808 ter, co. 2 c.p.c.
La disciplina del codice di rito in materia di a. si chiude con il regime dei lodi esteri. Gli art. 839 e 840 c.p.c. in particolare stabiliscono le modalità attraverso le quali è possibile ottenere il riconoscimento e l’esecuzione in Italia dei lodi stranieri.
Anche le controversie amministrative possono essere risolte, alla pari delle liti tra privati, mediante a. rituale, anziché da un giudice dello Stato. È comunque sempre lo Stato che attribuisce alla decisione privata il carattere giurisdizionale, ovvero di sentenza. In particolare, nell’ambito del processo amministrativo, il legislatore, con l’art. 6, l. 205/2000, ha introdotto la possibilità di risolvere le controversie amministrative concernenti diritti soggettivi mediante a. rituale di diritto. Oggi la previsione è contenuta nell’art. 12 del Codice del processo amministrativo (d.lgs. 104/2010).
È da ritenersi pertanto superata dall’introduzione di una norma di rango legislativo, speciale ed esplicita, quell’interpretazione che vedeva nell’a. in materia di controversie amministrative soltanto un sistema di composizione alternativo rispetto al processo ordinario, precluso per tutte le controversie sottoposte alla cognizione di altri giudici. Per quel che riguarda la disciplina, fermo restando che l’art. 6 esclude la praticabilità di forme arbitrali diverse dall’a. di diritto, nel silenzio della norma, si deve ritenere applicabile integralmente la regolamentazione del c.p.c. (art. 806 e ss.), salva l’esistenza di norme derogatorie, sostitutive o integrative. Di conseguenza, non è utilizzabile dalla pubblica amministrazione il cosiddetto a. irrituale. Nelle controversie amministrative, a differenza di quanto accade nelle liti private, in cui la fonte dell’a. consiste nel solo compromesso o nella sola clausola compromissoria, si è sempre posto il problema concernente l’ammissibilità degli a. obbligatori, così detti perché imposti dalla legge o da altre norme giuridiche autoritative, e ciò, soprattutto, a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana e del principio in essa contenuto della indefettibilità della giurisdizione (art. 24, 102, 103, 113); principio dal quale si è ricavato che tutte le norme anteriori alla Costituzione contemplanti ipotesi di a. necessario siano state abrogate dalla Costituzione stessa o, quanto meno, mutate da fattispecie obbligatorie in fattispecie permissive (casi di a. volontario indicati espressamente dal legislatore).
Procedimento volto alla risoluzione delle controversie attraverso arbitri scelti dalle parti stesse. Tale strumento viene individuato in due forme distinte: l’a. irrituale e quello di tipo rituale. Nel primo il giudizio così instaurato (art. 412 ter c.p.c.) costituisce una transazione e ha effetti contrattuali. Le parti possono ricorrere a tale strumento nei casi in cui sia previsto nella contrattazione collettiva e la conciliazione obbligatoria non sia riuscita, oppure ove venga superato il termine di 60 giorni per il suo espletamento. Il contratto collettivo dovrà, inoltre, prevedere le esatte modalità di devoluzione della controversia al collegio arbitrale e le forme e i termini per decidere, nonché i criteri di liquidazione dei compensi agli arbitri. Il giudizio del collegio arbitrale sarà impugnabile innanzi al tribunale competente, per violazione delle norme inderogabili di legge e per difetto assoluto di motivazione. La decisione sarà costituita da un lodo a efficacia contrattuale. Nell’a. rituale, invece, le parti si rivolgono a un collegio arbitrale, la cui decisione produce un lodo arbitrale a efficacia piena. Mentre nel primo caso, infatti, il prodotto sarà un lodo con mera efficacia contrattuale, e peraltro annullabile dal giudice competente in caso di presenza di determinati motivi, nel secondo caso avrà i medesimi effetti di una sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria sin dalla data della sua ultima sottoscrizione e solo ai fini dell’esecutività dovrà essere depositato presso il tribunale competente. Con il termine conciliazione (➔) si intende l’obbligo di esperire un tentativo di conciliazione prima di poter agire in giudizio, a pena di improcedibilità della domanda proposta senza tale previo esperimento.
Nel diritto internazionale, è uno dei mezzi di soluzione pacifica delle controversie (Controversia internazionale). Più precisamente, secondo la pertinente Convenzione dell’Aia (1907), l’a. «ha per oggetto il regolamento di liti fra Stati per opera di giudici di loro scelta e sulla base del rispetto del diritto. Il ricorso all’a. implica l’impegno di assoggettarsi in buona fede alla pronuncia». L’a. internazionale è infatti caratterizzato dalla volontà degli Stati di dirimere una controversia (presente o futura) a mezzo di arbitri scelti dalle stesse parti, che devono decidere secondo diritto. La decisione degli arbitri è vincolante per le parti. L’a., menzionato tra i mezzi pacifici di soluzione delle controversie nell’art. 33 della Carta delle Nazioni Unite, è una forma di regolamento giudiziale, in quanto la procedura si conclude con una sentenza arbitrale che ha efficacia obbligatoria per le parti. In ciò si differenzia dai mezzi diplomatici di soluzione che sfociano in un accordo tra le parti, mentre il minor grado di istituzionalizzazione lo differenzia dai tribunali internazionali permanenti, operanti in base a regole precostituite (Tribunali internazionali). Le Convenzioni dell’Aia del 1899 e del 1907 hanno istituito la Corte permanente d’a., che – malgrado la denominazione – è in realtà una lista di arbitri designati dagli Stati contraenti, tra i quali gli Stati parti di controversie possono scegliere, di volta in volta, gli arbitri cui affidare la soluzione delle liti.
Base della competenza arbitrale. - La competenza arbitrale si fonda sul consenso delle parti in lite, che è sempre necessario e può manifestarsi mediante diversi strumenti giuridici: gli Stati parti di una controversia già in atto nominano un arbitro per la soluzione della stessa e si impegnano a rispettare la decisione arbitrale; essi stipulano il cosiddetto compromesso arbitrale.
L’istituzione dell’arbitro può anche essere prevista prima del sorgere di un’eventuale controversia in relazione all’applicazione e all’interpretazione di uno specifico trattato mediante l’inserimento nello stesso della cosiddetta clausola compromissoria. Spesso gli Stati per evitare controversie insolubili hanno concluso trattati generali di arbitrato, che riguardano controversie future di un certo tipo, indicando il collegio arbitrale competente a intervenire e le norme da applicare al caso in questione.
L’accordo con il quale si istituisce il collegio arbitrale di regola contiene, tra gli altri elementi, anche l’indicazione delle norme o dei criteri sui quali il giudizio arbitrale deve basarsi. In taluni casi, gli Stati parti di una controversia possono chiedere agli arbitri di risolvere la controversia in base a criteri extra-giuridici (a. ex aequo et bono).
L’arbitrato tra Stati e privati. - Il ricorso all’istituto arbitrale si è rivelato utile anche per risolvere controversie tra Stati e persone fisiche o giuridiche, soprattutto nel settore degli investimenti stranieri. A tal fine, nel 1966 è stato istituito l’ICSID (International Centre for Settlement of Investment Disputes), sulla base della Convenzione costitutiva (Washington, 1965). L’ICSID, che è strettamente collegato alla Banca mondiale (Istituzioni finanziarie internazionali), provvede facilitazioni per l’arbitrato e la conciliazione di controversie tra i suoi Stati membri e gli investitori privati che abbiano la nazionalità di uno Stato membro, i quali possono istituire direttamente una procedura arbitrale nei confronti dello Stato d’investimento, con le cui autorità abbiano un contenzioso relativo all’investimento stesso, purché lo Stato d’investimento sia parte alla Convenzione ICSID.
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