Welfare state, Stato del benessere
1. Lo Stato sociale (o Stato del benessere, welfare state), secondo una definizione largamente accettata, è un insieme di politiche pubbliche con cui lo Stato fornisce ai propri cittadini, o a gruppi di essi, protezione contro rischi e bisogni prestabiliti, in forma di assistenza, assicurazione o sicurezza sociale, prevedendo specifici diritti sociali nonché specifici doveri di contribuzione. Esso costituisce una risposta alla nuova configurazione dei rischi e bisogni originata dai processi di modernizzazione e industrializzazione ma nella sua configurazione storica è un fenomeno essenzialmente europeo, connesso con l’evoluzione della società, dello Stato nazionale e delle istituzioni democratiche registratasi in Europa a partire soprattutto dalla fine del sec. 19°. Lo sviluppo delle politiche sociali ha comportato un’estensione dei compiti dello Stato, oltre l’ambito originario (garanzia della sicurezza e della libertà) assegnatogli dalle concezioni liberali, per includere la predisposizione di tutele e di servizi ai cittadini. Di conseguenza ha trasformato in profondità sia il funzionamento delle strutture statali, apparati e burocrazie, sia il sistema di stratificazione sociale, insieme con le radici della legittimazione e del consenso politico.
La formazione dello Stato sociale non è solo una reazione alle pressioni della classe operaia dell’industria, ma anche un portato della democrazia di massa. A sua volta ha contribuito a stabilizzare la democrazia e a conciliarla con il capitalismo (T. Marshall), riducendo le diseguaglianze risultanti dalle strutture familiari e di classe, e offrendo sicurezze materiali e opportunità di sviluppo individuale e collettivo.
2. Questi caratteri dello Stato sociale e le modalità del suo intervento si sono andate evolvendo nel tempo.
Le prime manifestazioni del welfare sono consistite in interventi assistenziali di carattere tipicamente occasionale e spesso discrezionale, a favore di gruppi circoscritti di bisognosi; la loro formazione organica è contenuta nella New poor law inglese del 1834.
Il nucleo successivo e centrale del moderno welfare è rappresentato dalle assicurazioni sociali, caratterizzate dall’obbligatorietà dell’adesione e del finanziamento tramite contributi, rivolte a fornire prestazioni standardizzate in base a diritti specifici e a doveri individuali. Le prime assicurazioni obbligatorie sono quelle contro le malattie e gli infortuni istituite dal cancelliere tedesco O. Bismarck nel 1883 e 1884 e poi estese ad altri rischi, vecchiaia, invalidità e più tardi disoccupazione, con una sequenza diversa secondo i Paesi.
La terza modalità di intervento, indicata come sicurezza sociale, consiste in un sistema di protezione volto a garantire prestazioni di base uniformi a tutta la popolazione attiva e tendenzialmente a tutti i cittadini, finanziate in tutto o in prevalenza dal gettito fiscale. Essa si è sviluppata, a partire dal rapporto inglese di lord W.H. Beveridge, steso durante la Seconda guerra mondiale, anzitutto nel settore sanitario e poi si è diffusa in altri settori.
3. Gli istituti dello Stato sociale si sono molto sviluppati nel periodo tra il 1945 e gli anni Settanta, sotto la spinta convergente di sempre più larghi gruppi sociali. Tale sviluppo ha ampliato e quasi completato i tipi di rischi coperti e ha estesola protezione oltre i lavoratori dipendenti fino a raggiungere in molti casi la totalità dei cittadini e delle famiglie. Al consolidamento del sistema si è accompagnata una diversificazione degli interventi. Il principale criterio distintivo fra i vari sistemi riguarda l’estensione di tali interventi; quest’ultima è importante perché definisce le aree dei beneficiari, quindi della condivisione dei rischi e dunque il raggio delle solidarietà e della redistribuzione.
In alcuni Paesi, anzitutto anglosassoni, si è sviluppato soprattutto il modello universalistico di welfare, imperniato, come si diceva, su schemi onnicomprensivi e tendenzialmente egualitari, finanziati prevalentemente tramite gettito fiscale.
Nei Paesi dell’Europa continentale è invece prevalso il modello cd. occupazionale, basato su schemi professionali con prestazioni differenziate, finanziate tramite contributi. Questa grande bipartizione non è rimasta stabile nel tempo ed è variata secondo i settori, anche con la comparsa di forme miste. Inoltre al suo interno sono emerse differenze riguardanti ulteriori dimensioni del sistema: tipi e quantità delle prestazioni, modalità di gestione, forme di finanziamento. Gli studiosi (G. Esping Andersen, M. Ferrera) hanno individuato tre e poi quattro regimi di welfare, invero comprensivi non solo delle politiche statali, ma delle relazioni fra queste, il mercato del lavoro e la famiglia. Un regime cd. liberale, proprio di alcuni Paesi anglosassoni, Stati Uniti, Australia e in parte Regno Unito, caratterizzato dalla prevalenza di misure assistenziali, basate sulla prova dei mezzi, schemi assicurativi circoscritti,e prestazioni poco generose, limitate a soggetti bisognosi, con largo ricorso al mercato, anche tramite incentivi a ricorrere a schemi assicurativi privati. Un regime cd. conservatore-corporativo, proprio dei Paesi centroeuropei, Germania, Austria, Francia, ove predominano schemi assicurativi pubblici, legati alla posizione professionale, rivolti in particolare ai lavoratori maschi adulti capofamiglia, con prestazioni collegate ai contributi e/o alle retribuzioni. Un regime socialdemocratico, diffuso specie nei Paesi scandinavi, con predominanza di schemi universalistici, con alte prestazioni di base garantite a tutti i cittadini e finanziate in via fiscale.
Lo Stato sociale nei Paesi mediterranei ha assunto caratteri in parte diversi da quelli dei regimi corporativi da cui ha preso le mosse. Ha sviluppato sistemi di protezione dualistici, che garantiscono prestazioni relativamente generose e diffuse, oltre a buone tutele sul posto di lavoro, alle categorie centrali del mercato del lavoro, mentre per altre categorie prevedono tutele ridotte, talora del tutto carenti, per es. nelle prestazioni per i casi di inattività e di povertà. Questi squilibri del welfare pubblico sono in parte «compensati» dalla presenza di modelli familiari caratterizzati da forti relazioni solidaristiche e inclini a funzionare come ammortizzatori sociali. Il welfare italiano presenta tratti comuni al regime mediterraneo, ma con aspetti distintivi anche rispetto ai sistemi corporativi. Da una parte è particolarmente accentuata la segmentazione delle forme protettive, presidiata dalle categorie sociali più organizzate, dipendenti pubblici e delle grandi aziende e anche altre professioni. A tale segmentazione verticale si aggiungono dualismi territoriali fra le varie aree del Paese, che incidono sulla qualità delle tutele e dei servizi, compresi quelli organizzati su base universalistica (sanità, assistenza). Inoltre sono grandemente sperequate, più che nei Paesi vicini,la distribuzione degli interventi e quindi la composizione della spesa sociale. Le pensioni assorbono il 62% della spesa sociale contro una media europea del 45%. Le spese sanitarie sono inferiori a tale media, ma sono in rapida crescita e disomogenee, come i servizi resi, sul territorio nazionale. Restano di contro fortemente sottodimensionate le altre funzioni: tutela della disoccupazione, politiche attive del lavoro e formazione professionale, politiche familiari,abitative e di contrasto all’esclusione sociale.
La stessa distribuzione di questi interventi è alterata dalla segmentazione categoriale del sistema, che premia ancora una volta i gruppi più organizzati a scapito dei soggetti non garantiti, in particolare giovani, lavoratori precari e dell’economia sommersa. Queste distorsioni del welfare italiano sono riconducibili (M. Ferrera) ai caratteri del sistema politico e sociale, segnato da forte polarizzazione ideologico-politica, scarsa omogeneità e coesione sociale, incerta civicness, e conseguente debole autorevolezza delle istituzioni pubbliche nei confronti dei vari gruppi e dei partiti politici. In questo contesto la distribuzione dei benefici di welfare è stata utilizzata dai governi e dai partiti come strumento di acquisizione del consenso e si è quindi realizzata attraverso meccanismi di scambio politico, formalizzati o meno nelle prassi concertative, con contenuti particolaristici e talora clientelari. Si tratta di un fenomeno agevolato dal declino delle ideologie come collante sociale e politico, e diffuso in vari sistemi, di cui il welfare italiano rappresenta una manifestazione estrema.
4. La crescita dimensionale dello Stato sociale e delle spese relative che ha caratterizzato, pur in misura diversa, tutti i Paesi europei nel secondo dopoguerra, è stata sostenuta per un certo periodo dagli alti tassi di sviluppo economico che hanno messo a disposizione dei poteri pubblici risorse crescenti. Ma è stata anche favorita, in misura via via più rilevante dalla adozione di politiche di spesa pubblica in deficit combinata spesso con tecniche finanziarie dirette a oscurare i costi immediati degli interventi; esempio tipico è l’adozione del meccanismo della ripartizione in campo pensionistico.
L’insostenibilità della espansione continua e poi dello stesso mantenimento dello status quo si è manifestata a partire dagli anni Novanta, anzitutto per l’operare di fattori esterni che hanno colpito in particolare l’Europa: il rallentamento della fase espansiva dell’economia e poi le crisi ricorrenti fino a quella mondiale del 2008-2009, con i conseguenti squilibri delle finanze pubbliche e l’esplosione dei deficit, la pressione della globalizzazione e la crescente integrazione dei mercati che riducono le barriere protettive e l’autonomia decisionale degli Stati nazionali nel cui ambito e sotto la cui protezione si sono costruiti tutti i sistemi europei di welfare. La crescente interdipendenza economica e la perdita di centralità dello Stato nazione stanno incrinando le basi politico-istituzionali del welfare tradizionale e mettono a rischio la tenuta dello stesso modello sociale europeo. Questi fattori esterni hanno portato in primo piano il problema dei costi delle politiche sociali, in particolare nei settori pensionistico e sanitario, e hanno messo nell’agenda di tutti i governi anzitutto gli obiettivi di risanamento e del recupero di efficienza. Ma gli assetti tradizionali del welfare sono sfidati non solo sul versante dei costi. Sono chiamati a rispondere a situazioni di bisogno e di rischio radicalmente diverse da quelle per cui sono stati previsti nella società industrialista del Novecento: alle condizioni di incertezza sistemica, anche oltre gli ambiti del lavoro, moltiplicatesi nelle società del rischio; alle esigenze non solo di tutela dei redditi, ma di adeguamento continuo delle competenze necessarie a fronteggiare i processi di trasformazione delle economie; ai nuovi aspetti della povertà e dell’esclusione sociale legati alla precarizzazione del lavoro e dei legami familiari; alla crescita dell’immigrazione; alle richieste di partecipazione femminile nel mondo del lavoro, che postulano forme esigenti di conciliazione fra vita professionale e riproduzione sociale, fino ai fenomeni inediti quali denatalità e longevità che influiscono sul futuro dell’economia e sullo stesso equilibrio dell’umana convivenza. Inoltre gli interventi pubblici sono sollecitati a estendersi ad ambiti nuovi di beneficiari, ai diversi tempi della vita e su versanti ulteriori a quelli economici; nello stesso tempo devono corrispondere a bisogni e aspettative sempre più personalizzate, corrispondenti a processi di individualizzazione caratteristici della moderna società postindustriale.
5. Nell’ultimo decennio, quasi tutti i Paesi hanno intrapreso iniziative di riforma degli schemi ereditati dal passato, con esiti alterni. L’intento comune a questa riforme è stato di tipo restrittivo, attuato in misura e direzioni diverse: ridefinire gli ambiti di copertura, contenere le dimensioni dei benefici, alzando le condizioni di accesso (per es. l’età pensionabile, i livelli di reddito) e stringendo i criteri di selettività per la scelta dei beneficiari. Esso ha portato a incidere su posizioni soggettive e su diritti ritenuti acquisiti, per cui ha incontrato forti resistenze in tutti i Paesi da parte dei gruppi interessati, spesso accomunati dal timore di perdite diffuse e indistinte.
Tali resistenze hanno contribuito a ridimensionare gli interventi, a privilegiare spesso modifiche al margine, invece che sulle strutture dei sistemi, lungo le linee di minore resistenza o a diluire nel tempo l’impatto delle riforme, per es. nella revisione della previdenza pensionistica trasferendone gli effetti sulle generazioni future. Le riforme italiane, avviate a partire dalla metà degli anni Novanta, hanno registrato difficoltà simili, acuite dalle distorsioni del sistema sopra ricordate. Hanno corretto alcune di queste distorsioni, in particolare con la stabilizzazione e con l’armonizzazione dei sistemi pensionistici, con l’avvio di un assetto universalistico e decentrato dei servizi d’assistenza. Ma non sono riuscite a modificare l’assetto degli interventi e della spesa così da rafforzare i capitoli decisivi per una più equa distribuzione delle tutele e delle opportunità: cioè i capitoli delle politiche attive del lavoro, della formazione, degli ammortizzatori sociali e del reddito minimo, del sostegno alla famiglia.
Inoltre, l’obiettivo di sviluppare un welfare non solo risarcitorio, ma promozionale delle capacità delle persone non ha trovato sufficiente consenso nelle forze sociali e politiche; e i pochi esperimenti avviati hanno incontrato difficoltà applicative legate alla debole capacità implementativa delle pubbliche amministrazioni.
Le riforme approvate in vari Paesi hanno interessato due ulteriori aspetti del funzionamento del welfare tradizionale. Anzitutto si è intrapreso un processo di decentramento delle funzioni, in particolare in quei settori, sanità, assistenza, politiche attive del lavoro, formazione professionale, caratterizzati dalla prestazione di servizi più che da semplici trasferimenti monetari. L’erogazione in sede locale di tali servizi mira a ridurre gli effetti del burocratismo propri dei grandi enti centralizzati del Novecento rappresentativi dello Stato sociale e a permettere una gestione delle prestazioni più personalizzata, più vicina agli utenti e possibilmente più partecipata e controllabile. Una seconda direzione di riforma ha inteso ricalibrare le misure di welfare tramite una divisione di compiti fra interventi pubblici e privati. Ai primi è affidata prioritariamente la garanzia di trattamenti di base, variamente dimensionati, relativi a rischi e bisogni ritenuti di importanza tale da richiedere un diretto intervento pubblico. L’intento privato, espresso da organizzazioni sociali di vario genere, enti no profit, enti bilaterali fra le parti sociali, e anche da imprese con fini di lucro, è chiamato e talora incentivato a intervenire, più spesso per integrare e in qualche caso per surrogare l’iniziativa pubblica (in questi casi fino talora a prefigurare tendenze di ritorno a un welfare pubblico minimalista). Questa stratificazione su più pilastri che si sta diffondendo in quasi tutti i settore del welfare, previdenza, assistenza sanitaria e sociale, ammortizzatori sociali, tende non solo ad alleggerire il carico della spesa pubblica, ma anche ad allargare le opzioni di scelta dei beneficiari e talora a coinvolgerli nella gestione del sistema. Ambedue queste modifiche del sistema segnano la sua evoluzione da un impianto essenzialmente statale a uno territoriale e comunitario (dal welfare state a un community welfare). Le valutazioni sono ancora diverse, e forse premature, circa la loro capacità di ridurre i costi degli interventi senza pregiudicare la qualità e la equilibrata distribuzione delle protezioni sociali.
6. Anche altre modifiche dei sistemi di welfare sono in corso e ancora soggette a test di efficacia. Mala priorità che le riforme continuano ad avere nell’agenda dei policy makers europei indica che la posta in gioco, anche per governi diversamente orientati, è non l’abbandono, ma l’adeguamento istituzionale e funzionale del welfare. L’obiettivo prevalente è di metterlo in grado di favorire, nel nuovo conteso economico e sociale, le condizioni di sicurezza e di eguaglianza per cui è stato costruito.
È significativo che la ricerca di politiche sociali rivolte a finalità simili sia in corso, pur con percorsi originali, anche in Paesi, dagli Stati Uniti ad alcune grandi nazioni emergenti dell’Asia e dell’America del Sud, che non hanno avuto l’esperienza del welfare europeo. Del resto le criticità del presente contesto mondiale hanno acutizzato e non certo ridotto i rischi e i bisogni delle persone per cui è nato storicamente lo Stato sociale. La gravità del momento sta rafforzando i dubbi circa la capacità delle mere logiche di mercato di risolvere i grandi problemi delle società moderne, e la risposta ai bisogni di welfare è certo fra questi. Per tale motivo continua la ricerca di risposte nuove affidate a politiche pubbliche e sociali capaci di conciliare,in condizioni più difficili che in passato,
redistribuzione e solidarietà da un lato, con efficienza e competitività dall’altro.
Si veda anche Stato sociale