virtù
La condizione di perfezione morale
Il concetto di virtù (e del suo opposto, il vizio) costituisce uno dei nodi centrali nella riflessione sull’etica. Variamente interpretata, la virtù è una costante disposizione d’animo a fare il bene, al di fuori di ogni considerazione utilitaristica di premio o di castigo, di felicità o di infelicità. Può quindi essere definita come la forza che spinge l’uomo a impegnarsi per il conseguimento di un fine elevato
Nei poemi omerici e per i Greci più antichi la virtù (aretè) è essenzialmente valore militare, forza, capacità di combattere con coraggio. Lo stesso significato ha la parola per i Romani: Virtus (intesa come virtù militare, cioè come la dote specifica del vir «uomo») è una divinità che, insieme a Honos (onore), viene venerata in un tempio a esse dedicato.
È la riflessione filosofica a proporre un nuovo significato di virtù. La svolta è avvenuta con Socrate che, a differenza dei filosofi a lui anteriori, incentra la sua indagine non sulla natura, ma sull’uomo. Socrate si chiede se esista più di una virtù: a suo parere la virtù è una sola e coincide con la conoscenza, dal momento che si comporta virtuosamente solo colui che sa cosa deve fare. In questo modo la definizione di cos’è la virtù si trasforma nella discussione dell’ideale di comportamento pratico che l’uomo deve seguire, e diventa così il problema centrale dell’etica.
Platone, raccogliendo l’eredità di Socrate, sostiene che è possibile insegnare la virtù e la fondamentale unità delle virtù particolari (prudenza, coraggio, moderazione e, a coronamento, giustizia), che tutte rimandano al sapere come conoscenza del bene. La diversità delle virtù è determinata dalle differenti funzioni cui deve adempiere l’anima umana e ha il suo corrispettivo nel buon funzionamento dello Stato, che è costituito da diverse classi di cittadini con varie funzioni che si armonizzano tra loro.
La dottrina della virtù di Aristotele è incentrata su due aspetti: la virtù come abito (abitudine a un certo comportamento) e come medietà (scelta del giusto mezzo). Per Aristotele la virtù non è «per natura»: come non nasciamo con idee e conoscenze innate, così non nasciamo con virtù innate, ma con un’anima che è adatta a essere modificata mediante l’esercizio continuo. Pertanto, così come suonando la cetra diventiamo citaredi – dice Aristotele –, così operando cose giuste diventeremo uomini giusti.
Ma qual è il criterio per individuare un’azione come virtuosa? A questo proposito Aristotele avanza la teoria del giusto mezzo: la virtù è misura, che porta a eliminare i comportamenti estremi (cioè i vizi opposti, contrassegnati o da un eccesso o da un difetto) e a scegliere un punto di equilibrio. Compito della razionalità dell’uomo è proprio quello di dare una misura, un limite all’elemento irrazionale (cioè passionale e istintivo): il coraggio, per esempio, è una virtù in quanto è il giusto mezzo tra gli opposti della viltà e della temerarietà, ed eguale discorso si può fare per tutte le altre virtù.
Aristotele distingue tra due tipi diversi di virtù che rimandano alle due parti dell’anima: quella priva di ragione e quella razionale. In corrispondenza della prima abbiamo le virtù pratiche o del comportamento, che si acquistano per abitudine; sono le virtù etiche (da èthos «costume, abitudine»): fortezza (o coraggio), liberalità (cioè generosità), mitezza, amabilità, sincerità, urbanità.
In corrispondenza della ragione discorsiva (in greco diànoia) abbiamo, invece, le virtù intellettuali o dianoetiche, e cioè la scienza (intesa come sapere dimostrativo), l’arte, la mente (o intelletto), la sapienza (sofìa in greco, cioè la scienza dei principi e quindi la filosofia) e la saggezza (o prudenza).
Un problema cruciale è quello del rapporto tra virtù e piacere: il piacere (soprattutto quello legato ai sensi) spesso allontana dalla virtù, e tuttavia è parte integrante della vita dell’uomo perché è un fine a cui ognuno tende naturalmente.
Di questa tendenza dovrà tenere conto l’educatore (ma anche chi voglia educare sé stesso), controbilanciandola e indirizzandola verso fini elevati.
Secondo gli insegnamenti dello stoicismo, il saggio tende alla piena vittoria della ragione sulla parte irrazionale di sé stesso e quindi sulle passioni, intese come forze che turbano quello stato di pura razionalità in cui l’uomo coincide con il Lògos, cioè con il principio razionale divino che permea e governa l’intero Cosmo. Questo stato ideale è detto, in greco, atarassìa o apatìa, cioè «assenza di passioni», imperturbabilità, serenità di spirito ed equilibrio, in cui l’uomo è libero da desideri, bisogni e sentimenti troppo forti e vincolanti.
Il pensiero cristiano assorbì lo stoicismo, sebbene l’impostazione stoica fosse quella di cogliere l’uomo dentro il mondo, mentre il cristianesimo poneva l’uomo in rapporto a un principio trascendente, Dio, che supera il mondo e la vita terrena.
Nel pensiero cristiano, originale fu il punto di vista di Agostino, il quale affermò che l’unica vera virtù è l’amore per Dio. La virtù naturale, quindi, non può più bastare all’uomo che, rimanendo sul piano dei fatti, non riuscirà mai a salvarsi da solo, senza l’aiuto della grazia. Questa concezione sarebbe stata successivamente ripresa da Lutero e dalla Riforma. Tommaso d’Aquino adattò al cristianesimo la dottrina aristotelica. Nell’uomo esiste una disposizione naturale (detta habitus con termine aristotelico) a organizzare la propria condotta secondo principi razionali e pratici; su tale disposizione generale si fondano quelle particolari abitudini a un retto comportamento che sono le singole virtù. Seguendo Aristotele, Tommaso distingue le virtù umane in intellettuali e morali; tra queste ultime le virtù cardinali (cioè principali) sono quelle indicate da Platone: la saggezza (o prudenza), il coraggio, la temperanza (o moderazione) e la giustizia. Queste virtù, dettate dalla ragione, sono sufficienti per la vita terrena dell’uomo, non bastano però per il raggiungimento della felicità soprannaturale e per la salvezza eterna; di qui la necessità delle virtù teologali, provenienti direttamente da Dio che le infonde nell’anima dell’uomo: la fede, la speranza e la carità.
L’età umanistico-rinascimentale fu il periodo della grande celebrazione della virtus umana: veniva esaltata la dignità dell’uomo, portatore di valori non solo militari o religiosi, ma anche di valori politici, culturali e artistici. Nelle pagine di Niccolò Machiavelli, che bene esprime questa concezione, la virtù consiste nella capacità dell’uomo di non soggiacere passivamente alla «fortuna», cioè all’insieme delle condizioni di fatto (che cambiano costantemente e casualmente) all’interno delle quali si trova a operare. L’uomo deve saper dominare i casi della fortuna traendo vantaggio dai cambiamenti, e in questo confronto tra virtù (che diventa la forza creatrice del destino di ciascun individuo) e fortuna sta proprio il fattore determinante del divenire storico.
Nel 18° secolo il filosofo inglese Anthony Shaftesbury propose una concezione di virtù come sentimento e spontaneità: ciò che non è fatto con malizia, ma spontaneamente, è un’azione naturalmente buona. Gli illuministi francesi ripresero e difesero questo concetto di virtù come inclinazione spontanea a fare il bene. Anche Jean-Jacques Rousseau parla della pietà come di una virtù naturale, in quanto è una disposizione innata a non far soffrire gli altri che precede ogni riflessione razionale.
A questa concezione di virtù naturale, tuttavia, lo stesso Rousseau, poi seguito da Immanuel Kant, contrappone una nozione di virtù come tensione e sforzo: non c’è felicità senza coraggio, né virtù senza lotta. Secondo Kant, la condizione in cui la volontà umana si conforma naturalmente e senza sforzo al dovere morale con un senso di piena felicità è la condizione della santità; per l’uomo, però, non è possibile la santità ma la virtù, che si realizza quando l’intenzione morale lotta coraggiosamente contro le inclinazioni e gli impulsi e trionfa su di essi. Kant, sostenitore di una morale rigorista, contesta inoltre la dottrina aristotelica del giusto mezzo. Secondo Kant la differenza tra vizio e virtù non è di quantità e di grado (per cui sarebbe possibile trovare una soluzione intermedia), ma qualitativa: un vizio moderato non può diventare una virtù, né una virtù in eccesso può diventare un vizio.
In epoca moderna (in particolare dopo la riflessione di Kant) il concetto di virtù ha subito un processo di svalutazione, a favore di quello di dovere morale.